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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

…Li hanno chiamati "cittadini invisibili": non appaiono perché sono marginali e non sono loro garantiti "tutti" i diritti.  Sono due milioni e mezzo di persone; di questi, numerosissimi sono anziani!

 

Caritas Italiana

Fondazione E. Zancan

 

"Rapporto 2002 su esclusione sociale e diritti di cittadinanza"

a cura di Walter Nanni e Tiziano Vecchiato

 

Per un welfare universalistico e solidale

di Tiziano Vecchiato

 

Premessa

 

Il dibattito sui sistemi di welfare si concentra sui caratteri alternativi dei due modelli dominanti nelle scelte dei paesi occidentali. Sono caratteri che si basano sulla diversa valutazione che, culturalmente e politicamente viene data al principio di solidarietà e a quello di responsabilità personale. Chi fa prevalere il principio di solidarietà e a quello di responsabilità personale. Chi fa prevalere il principio di solidarietà e di condivisione di responsabilità, per promuovere il bene comune, ritiene che certi risultati possono essere conseguiti solo con un grande sforzo solidale, che veda cointeressati diversi centri di responsabilità: persone, famiglie, gruppi sociali, imprese, istituzioni.

Chi invece antepone il principio di responsabilità personale a quello solidaristico ritiene che l'individuo sia il principale responsabile del proprio destino, anche quando gli svantaggi e gli ostacoli sono pressoché insormontabili, anche quando è a tutti evidente che fare appello alla libera scelta personale equivale ad abbandonare al proprio destino molte persone e famiglie tagliate fuori dal paniere delle pari opportunità.

Nel primo caso la cultura solidaristica ha dato forma a sistemi di welfare di tipo universalistico cioè basati su tre principi:

a)      le pari opportunità di accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi;

b)     l'eguaglianza di trattamento ad ogni persona tenendo conto della natura dei bisogni che essa rappresenta;

c)      la condivisione del rischio finanziario, basato sulla solidarietà fiscale, dove pertanto il contributo individuale non è determinato, nel caso della salute, dal rischio di malattia ma dalla capacità contributiva individuale.

 

Nel secondo caso, liberista, le scelte vanno in direzione opposta e affidano alla persona il   compito di scegliere il sistema di protezione individuale che ritiene più rispondente ai propri bisogni. E' quindi naturale che l'entità e la qualità della protezione dipenda dalla capacità di spesa della persona, con la conseguenza che i poveri e quanti hanno difficoltà di scegliere autonomamente il proprio bene finiranno per rimanere esclusi dalle risposte di cui avrebbero bisogno di diritto, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà.

E' facilmente dimostrabile che questo secondo modello produce sacche di emarginazione e di esclusione social, come talora testimonia chi opera nei servizi alle persone, ad esempio, in strutture di lungoassistenza, dove più facilmente si concentra la sofferenza e la solitudine, e da cui è molto difficile uscire. Questo vale in particolar modo quando le persone non possono sperare di ottenere risposte a partire da un qualche diritto loro riconosciuto, ma soltanto facendo leva sui sentimenti di altruismo e di mettere in campo, magari per alleviare il disagio sociale di chi sta bene e, trovandosi in prossimità della sofferenza, non se ne dà ragione e cerca di evitarla con comportamenti pietosi. 

Gli indicatori di spesa testimoniano che i sistemi a carattere solidaristico hanno un migliore rapporto costo-efficacia, proprio grazie alla più equa distribuzione delle risposte e agli investimenti in prevenzione che sono in grado di fare.

Al contrario i sistemi a carattere liberistico concentrano la loro efficacia su una fascia più ristretta di popolazione, quella in grado di disporre di buone coperture assicurative, con la conseguenza che le valutazioni fatte, anche in sede internazionale, evidenziano la sostanziale incapacità di questi sistemi di welfare di garantire risposte "sociali", cioè a più ampio spettro per i bisogni delle persone e delle famiglie.

Questo non toglie che spesso essi siano preferiti dalla maggioranza della popolazione, perché nei paesi più sviluppati è proprio la maggioranza che è in grado di finanziarsi un sistema di auto protezione, lasciando in ombra i bisogni e i diritti dei più deboli che, essendo minoritari, hanno una scarsa possibilità di far valere i propri diritti.  

Chi sceglie il modello universalista fa leva sui valori di solidarietà e di condivisione, che sono profondamente radicati nella vita sociale della Chiesa, mentre chi predilige modelli liberisti spesso porta motivazioni che hanno radici nel libero arbitrio, nei valori della competizione, nei vantaggi della selezione naturale e nella convinzione che il proprio destino dipenda in buona misura dalle proprie scelte e dalla responsabilità.

In realtà sarebbe ingenuo sostenere che una attenuata responsabilità personale possa essere sostituita da una responsabilizzazione diffusa e solidaristica. I comportamenti opportunistici, sempre in agguato, favoriscono i rischi di assistenzialismo, più presenti nei sistemi universalistici. Ma è ugualmente miope sostenere prospettive basate sulla libera scelta delle persone, evitando di riconoscere che nei paesi in cui sono state attuate evidenziano molti punti di debolezza e di sostanziale iniquità.

Vanno quindi trovate soluzioni convincenti. La nostra Costituzione suggerisce una strategia, basata sull'incontro tra diritti e doveri sociali, che, riducendo le debolezze costitutive dell'individualismo, potenzia al massimo i valori aggiunti che una solidarietà responsabile può garantire a tutti, quindi ad ogni persona, anche quelle più fragili e più deboli.

L'attuale dibattito sulla globalizzazione evidenzia le radici sociali dei nostri destini, con toni spesso drammatici, proprio perché su scala planetaria sono più evidenti i rischi e i costi di uno sviluppo sociale interpretato dentro confini troppo angusti, sostanzialmente circoscritti nel recinto dell'utilità personale.

Nel caso dei sistemi universalistici la base di garanzia di un welfare solidale è il contratto sociale, che genera un incontro tra diritti e doveri. In questa logica la costituzione e le successive riforme sociali hanno cercato di passare dalle affermazioni di principio alle scelte per attuarle. Sono state scelte inerenti l'organizzazione delle responsabilità istituzionali e sociali, la gestione delle risorse, l'organizzazione delle risposte, in modo da rendere sostenibili ed efficaci, in senso solidale. Nel caso dei sistemi liberisti la base di riferimento è il contratto assicurativo che lega tra loro il finanziatore, gli erogatori e i gestori del finanziamento, all'interno di un mercato che "mercifica" i diritti fondamentali, cioè li rende esigibili ad alcuni e non a tutti. Nei sistemi universalisti e solidaristi non a caso si parla infatti di "diritti delle persone" mentre nei secondi le attenzioni principali sono rivolte ai "diritti dei consumatori".

 

Diritti di cittadinanza e riforma dei servizi sociali

 

Il cantiere del diritto di cittadinanza sociale ha nel nostro paese una storia recente, circoscritta alla seconda metà del 1900, che si è chiuso con l'approvazione della legge 328/2000, relativa alla costruzione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. E' una legge che ha completato il quadro delle riforme avviato con la scuola per tutti e con le tre successive riforme sanitarie (1978, 1992-3, 1999).

La riforma dei servizi sociali può essere considerata la risposta al tassello mancante, che oggi consente di passare più rapidamente da un sistema ancora descrivibile in termini di assistenza e beneficenza pubblica a un sistema di servizi alla persone e alle famiglie. Proprio per questo esso dovrebbe essere più capace di garantire pari opportunità e risposte universalistiche ai diversi bisogni in un'ottica di promozione e di integrazione sociale.

Dietro l'impianto normativo c'è un'ipotesi comune alle riforme precedenti senza una rete di servizi, cioè di risposte organizzate equamente nel territorio, non è pensabile che poi le persone, le famiglie, i gruppi con particolari problemi di esclusione possano trovare le risposte di cui hanno bisogno.

Nello stesso tempo non è pensabile che tutto questo si risolva in un grande "self service" dei diritti sociali, dove i più abili e i più forti godono dei benefici che dovrebbero invece essere garantiti prioritariamente ai più deboli.

E' per questo che al centro del dibattito dei paesi in cui prevalgono le soluzioni universalistiche e solidali è molto sentito il problema della riduzione delle disuguaglianze nell'accesso alle risposte, della selezione delle disuguaglianze nell'accesso alle risposte, della selezione dei bisogni prioritari, della tutela dei diritti di chi è più svantaggiato. E' un dibattito destinato a scontrarsi con il nodo della insufficienza delle risorse destinate a questo scopo, a fronte di una progressiva  crescita della domanda, con conseguente tendenza a non privilegiare azioni di promozione sociale di più ampio respiro.

La legge 328/00, consapevole di questo problema fa dell'universalismo selettivo la propria strategia principale: cioè possibilmente dare a tutti ma, in via prioritaria, garantire risposte a chi ha più bisogno.

Questo non è facile perché richiede che diversi soggetti responsabili del sistema welfare (istituzioni pubbliche, soggetti non profit, volontariato, altri produttori di servizi) siano capaci di condividere questo obiettivo, senza assecondare gli interessi settoriali e senza far valere l'esigenze delle categorie di bisogno meglio rappresentate.

La soluzione proposta non è nuova: la garanzia di livelli essenziali e uniformi di assistenza, basati su una rete di risposte equamente distribuite nel territorio. Se guardiamo a cosa avviene nel servizio sanitario nazionale a questo proposito, notiamo che la definizione dei livelli di assistenza è stata ed è tutt'ora al centro di un intenso dibattito tra Stato e regioni. Infatti definire i livelli di assistenza, significa interrogarsi sulle garanzie di cittadinanza sociale e meglio precisare le condizioni di esigibilità dei diritti sociali, cioè chiedersi se e come selezionare le risposte da garantire in via prioritaria nella comunità locale.

Per fare luce su tali questioni, il dibattito si è orientato in due direzioni: i criteri di esclusione e quelli di inclusione. In forza dei primi si procede eliminando le prestazioni di cui sia provata la dannosità e la non efficacia. L'obiettivo dei secondi è più ambizioso, individuare gli elenchi positivi che indichino le prestazioni di provata efficacia, e tra queste privilegiare quelle che, a parità di risultati, garantiscono un uso migliore delle risorse.

Questo modo di procedere a dirette ricadute nella quantità e qualità del finanziamento e nel sistema di governo della spesa. Chi ad esempio è alle prese con rilevanti deficit regionale di spesa sanitaria attribuisce al governo centrale la responsabilità di deficit generati da una definizione dei livelli essenziali che non seleziona adeguatamente le prestazioni da garantire alla popolazione sulla base delle evidenze scientifiche disponibili e di prove di efficacia che rendono preferibili alcune risposte rispetto ad altre. In mancanza di una chiara definizione di livelli così caratterizzati,  restano spazi consistenti per quanti rivendicano risposte non necessarie, inutili e talora dannose. E' il caso ad esempio di chi richiede sussidi economici pur non essendo in condizioni di effettiva povertà, o di chi, a fronte di un sostegno economico, non accetta di impegnarsi in un coerente percorso d'integrazione lavorativa e sociale, rendendo di fatto minima l'utilità del sostegno ricevuto.

La legge 328, con l'art. 22, propone una definizione generale dei livelli essenziali. E' generale, in quanto si limita a elencare i gruppi di bisogni a cui dedicare attenzioni prioritarie nell'organizzazione dei servizi nel territorio, senza tuttavia entrare nel merito di come organizzare risposte e di come finanziarle. Ma nello stesso tempo si preoccupa di precisare alcune risposte essenziali da organizzare obbligatoriamente nel territorio, e ciò il servizio sociale professionale e il segretariato sociale, il pronto intervento sociale, le risposte domiciliari, intermedie e residenziali per fronteggiare bisogni personali e familiari di diversa natura.

Nel fare questo la legge sa che molte di queste scelte dipendono dall'autonoma responsabilità dei comuni e delle regioni. In particolare le regioni sono chiamate a predisporre ed approvare le rispettive leggi regionali di definizione e organizzazione dei propri sistemi di welfare. Per i comuni si tratta di procedere a scelte strategiche inerenti la definizione dei Piani di Zona, la regolamentazione dell'accesso ai servizi, l'accreditamento degli erogatori di servizi, la equa garanzia delle risposte nel territorio. Si tratta quindi, per regioni e comuni, di capire come i livelli essenziali possono essere individuati e articolati, consapevoli che la principale difficoltà non è insita nella selezione delle risposte possibili ma nella necessità di verificare se quelle risposte sono anche sostenibili economicamente, avendo chiare le condizioni per finanziarle.

Tendo presenti queste difficoltà, questo volume è stato costruito a partire da un'idea di livelli essenziali, che pur non essendo esplicitata nella legge di riforma dei servizi sociali, è a nostro giudizio una premessa necessaria da cui partire nel momento in cui enti locali e regioni affrontano questo problema. Per definire un livello essenziale di assistenza è necessario fare riferimento a tre parametri:

§         le modalità di finanziamento e la sua entità,

§         le modalità di erogazione delle risposte e il loro dimensionamento nel territorio,

§         le modalità di valutazione dei risultati di efficacia, cioè di effettiva garanzia che al livello di assistenza individuato corrisponda anche una positiva risposta ai bisogni.

 

Questi tre parametri sono rappresentati nella successiva figura 1, che sostanzialmente evidenzia come per definire i livelli di assistenza sia necessario utilizzare congiuntamente le tre dimensioni. Se infatti consideriamo quanto è avvenuto in questi anni nel sistema sanitario, a parità di finanziamento (definito sulla base del pro-capite ponderato)  è praticamente impossibile trovare situazioni in cui anche l'output, cioè l'organizzazione della rete di risposte nel territorio, e l'outcome, cioè gli indicatori di efficacia, siano equamente e uniformemente distribuiti.

            Le sperequazioni maggiori sono tra nord e sud, ma anche all'interno delle stesse regioni si possono facilmente riscontrare forti disomogeneità dei sistemi di offerta tali per cui le disuguaglianze nell'accesso sono un problema diffuso, che interessa soprattutto le aree periferiche e quelle montane e le regioni in cui di fatto c'è stato un disimpegno nel garantire l'offerta pubblica a vantaggio di quella privata.

 

Fig. 1 - Elementi costitutivi dei livelli essenziali di assistenza

La figura indica le tre dimensioni costitutive dei livelli, cioè necessarie per definirli, suggerendo inoltre l'idea che il loro dimensionamento dipende dalla relazione che intercorre tra le loro dimensioni. Ad esempio ad un finanziamento (input) insufficiente non può far seguito una offerta adeguata per affrontare i diversi bisogni. Non è detto poi che un'offerta (oupt) consistente ma obsoleta, quindi inadeguata, possa garantire risultati efficaci (outcome) ai bisogni delle persone e delle famiglie.

            Per input quindi si intendono le risposte ritenute necessarie per garantire il finanziamento dei livelli di assistenza. Nel caso del nuovo sistema di interventi e servizi sociali l'entità del finanziamento è variabile e si avvale di fonti di risorse fra loro diverse e complementari: quelle del fondo sociale nazionale, quelle derivanti dalla spesa sociale dei comuni, quelle destinate dalle regioni a questo scopo e quelle aggiuntive derivanti da altre fonti di risorse: finanziamenti europei, donazioni, risorse messe a disposizione da Ipab o da altri soggetti pubblici o privati operanti nella rete dei servizi, oltre, naturalmente, al concorso alla spesa da parte degli utenti. Organizzando le fonti di finanziamento appena elencate le risorse a disposizione per finanziare i livelli essenziali di assistenza sociale possono essere quantificate nell'ordine di circa 17 mila miliardi di vecchie lire, come indicato nella successiva tabella 1.

 

Tab. 1 - Entità del finanziamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali 

Fonte

Entità (Lire)

Entità (Euro)

Fondo sociale nazionale

3.084.300.000.000 1

159.290.801,39

Spesa sociale di comuni

13.083.350.028.000 2 

675.698.638,52

Fondi regionali

1.000.000.000.000 3

51.645.689,91

Altre fonti di risorse

/4

/

Totale

                    17.167.650.028.000

886.635.129,82

 

Fonte: Presidenza del Consiglio

 

Al finanziamento va ricondotto il dimensionamento e l'organizzazione del sistema di offerta, cioè l'output. Quando si parla di sistema di offerta si intendono diverse cose: i servizi, le professionalità, le dotazioni strumentali e tecnologiche, le strutture, i criteri e gli standard organizzativi, gli interventi previsti, le prestazioni e i processi assistenziali, le regole per l'accesso.

A questo scopo, come richiamato in precedenza, la legge 328/00, al quarto comma dell'art. 22, indica alcuni contenuti del sistema di offerta da garantire in modo prioritario nel territorio:

a)                          il servizio sociale professionale e il segretariato sociale per l'informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;

b)                         il servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;

c)                          l'assistenza domiciliare di strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali;

d)                         centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.

Come richiamato in precedenza, lo stesso articolo indica, al comma 2 dell'art. 22, anche la lista dei bisogni e di misure da considerare in via prioritaria per definire i livelli essenziali e cioè: le misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito familiare, le misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti, o incapaci di compiere gli atti della propria vita quotidiana, le misure di sostegno alle responsabilità familiari, le misure per favorire l'armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare, le misure di sostegno alle responsabilità familiari, le misure per favorire l'armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare, le misure di sostegno alla donna in difficoltà; gli interventi per la piena integrazione delle persone disabili, gli interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, le prestazioni integrate per contrastare le dipendenze, l'informazione e la consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-mutuo aiuto.

Una buona organizzazione dell'output, da sola, non è condizione sufficiente per sostenere che chi ha bisogno potrà accedere alle risposte per lui necessarie. Non è infatti difficile dimostrare che le molte disuguaglianze dell'accesso ai servizi penalizzano soprattutto i soggetti più deboli, quelli svantaggiati, quelli con meno capacità negoziali, in sostanza quelli meno capaci di far valere i propri diritti. Avremo certezza che input e output sono all'interno di un circuito virtuoso solo nel momento in cui le verifiche di efficacia ci diranno che i livelli di assistenza programmati sono stati anche effettivamente realizzati.

            Per questo, per ogni tipologia di bisogno considerato nel volume, cercheremo di stabilire, sulla base dei dati disponibili, il rapporto tra condizioni di finanziamento, scelte strategiche per organizzare le risposte e, quando possibile, condizioni previste per verificare la efficace risposta ai bisogni.

            In generale la terza dimensione necessaria per definire i livelli essenziali, cioè l'outcome, può essere verificata utilizzando variabili e indicatori di epidemiologia sociale, cioè di salute personale, familiare e sociale, tali da "indicare" l'entità dei risultati conseguiti e le misure di effettiva risposta ai bisogni 5 .

                Le variabili e gli indicatori di outcome considerano ad esempio la composizione della popolazione, i bisogni età correlati ( minori, adolescenti, adulti, anziani), i bisogni derivanti da patologie, le menomazioni e handicap (derivanti da dipendenze da sostanze, disabilità, non autosufficienza, disagio mentale…), i bisogni connessi a situazioni di povertà, disoccupazione, esclusione sociale, i bisogni connessi al disagio abitativo, i bisogni connessi a problemi familiari quali separazioni conflittuali con ricadute negative sui figli minori, i bisogni  connessi a problemi familiari derivanti da gravi carichi assistenziali, i bisogni connessi a solitudine ed emarginazione, i bisogni connessi a devianza sociale, i bisogni connessi all'immigrazione e all'integrazione sociale, i bisogni educativi che investono l famiglia, le agenzie di socializzazione e la scuola, i bisogni connessi alle già ricordate disuguaglianze nell'accesso ai servizi.

            Se applichiamo i tre criteri a quanto è stato deciso dalla Conferenza Stato Regioni in tema di livelli essenziali con il DPCM 14 febbraio 2001, osserviamo che il primo criterio, il livello essenziale di finanziamento, è per ora un patto provvisorio in attesa del suo superamento; il parametro inerente l'organizzazione delle risposte nel territorio ha una risposta parziale, relativa all'elenco degli output, cioè delle risposte ammissibili da leggi esistenti, salvo verifica di legittimità delle stesse leggi dopo la modifica del titolo V della Costituzione.

            Del terzo parametro non c'è alcuna traccia nella riflessione politica. Non ci si è ancora chiesto quali possono essere le possibili misure di efficacia, cioè di effettiva tutela sociale, da garantire in ogni regione e non ci sono segnali che questo problema sarà affrontato nel breve periodo. Lo stesso decreto 12 dicembre 2001 "Sistema di garanzie per il monitoraggio dell'assistenza sanitaria" non dedica significative attenzioni a questo problema.

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1 Valore del finanziamento statale per l'anno 2002.

2 La finestra completa è data a fondo del capitolo.

3 Stima dell'apporto dei fondi sociali regionali alla spesa sociale dei Comuni, depurata dei trasferimenti nazionali.

4 Il dato non viene qui considerato, in quanto trattandosi di un valore molto variabile su scala territoriale non è corretto utilizzando ai fini della quantificazione del finanziamento dei livelli di assistenza.

5 Interessante a questo proposito è la proposta ECHI, che presenta un insieme di indicatori della salute in Europa (Design for a set of European community health indicators, ECHI draft, novembre 2000).  

 

 

Responsabilità istituzionali nella definizione dei Lea

 

         Sul piano giuridico, ai fini della definizione dei livelli, le regioni sono chiamate a definire, insieme con i comuni, i livelli essenziali di prestazioni e servizi sociali, intesi come livelli di cittadinanza sociale idonei a garantire qualità di vita delle persone e delle famiglie, pari opportunità, tutela dei soggetti più deboli. Il dimensionamento dei livelli andrebbe cioè garantito in ogni ambito territoriale di gestione dei servizi. La sede per farlo è il piano sociale o sociosanitario regionale e la successiva programmazione regionale.

            In particolare le modalità di attuazione dei livelli sono definite contestualmente alla predisposizione del piano di zona, del programma delle attività territoriali o dei piani integrati di salute, per ogni ambito territoriale deputato alla gestione unitaria e integrata dei servizi, sulla base di misure di finanziamento, di erogazione e di esito.

            Le fonti giuridiche recenti su cui radicare la necessità di una equa distribuzione delle risposte nel territorio sono rappresentate dall'art. 8 comma 3 della legge n. 328/00, dove si dice che alle regioni spetta la "determinazione, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, tramite le forme di concertazione con gli enti locali interessati, degli ambiti territoriali, delle modalità e degli strumenti per la gestione unitaria del sistema locale dei servizi sociali a rete. Nella determinazione degli ambiti territoriali, le regioni prevedono incentivi a favore dell'esercizio associato delle funzioni sociali in ambiti territoriali di norma coincidenti con i distretti sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie, destinando allo scopo una quota delle complessive risorse regionali destinate agli interventi previsti dalla presente legge".

            Un'altra fonte è rappresentata dal Dlgs n. 229/99, dove si afferma che sono individuate le prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione sanitaria di cui al comma 4 e alle quali si applica il comma 5, e definiti i livelli uniformi di assistenza per le prestazioni sociali a rilievo sanitario. Si dice inoltre che le prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria, secondo le modalità individuate dalla normativa e dai piani nazionali e regionali, nonché dai progetti-obiettivo nazionali e regionali.

            Viene anche precisato che le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria sono di competenza dei Comuni, che provvedono al loro finanziamento negli ambiti previsti dalla legge regionale ai sensi dell'art. 3, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Le regioni determinano, sulla base dei criteri posti dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui al comma 3, il finanziamento per le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, sulla base di quote capitarie correlate ai livelli essenziali di assistenza.

            L'accordo tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano in materia sanitaria realizzato l'8 agosto 2001 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome ha stabilito le risorse da destinare al finanziamento dei livelli essenziali sanitari e sociosanitari ( per la parte di competenza sanitaria ) pari a 138.000 miliardi di lire per il 2001, 146.376 miliardi di lire per il 2002, 152.122 miliardi di lire per il 2003 e 157.371 miliardi di lire per il 2004.

            In ambito sociale, l'approvazione della n. 328/2000, legge quadro sugli interventi e servizi sociali, è ispirata alla stessa logica, rendendo operante il fondo sociale nazionale e spostando dal livello centrale al livello locale il ruolo di governo dei sistemi di welfare.

            Se da una parte tutto questo è in sintonia con il principio che a una maggiore responsabilizzazione locale dovrebbe corrispondere anche una maggiore qualità, efficienza, efficacia delle risposte, dall'altra si pone il problema se tale approccio promuoverà una più diffusa garanzia dei livelli essenziali e uniformi di assistenza o se, al contrario, rappresenterà la messa in discussione del progetto di welfare solidale voluto dalla Costituzione.

            Il nuovo scenario potrebbe cioè essere quello di un mosaico di welfare regionali impegnati a garantire livelli essenziali di assistenza troppo diversi e inadeguati per essere degni di questo nome. E' facile immaginare che in questo andamento sarebbero penalizzate soprattutto le persone e le famiglie che vivono nelle regioni con insufficienti dotazioni strutturali e professionali e con minori capacità di reperire e gestire le risorse necessarie per garantire servizi essenziali effettivi e non fittizi.

            I problemi saranno più evidenti nel momento in cui verrà a cadere il vincolo di destinazione delle risorse oggi finalizzate a finanziare i servizi sanitari regionali. Su quali basi sarà possibile collegare il diritto alla salute con condizioni certe di esigibilità? Con il federalismo fiscale e gli accordi dell'8 agosto 2000 e 2001 sulla spesa sanitaria lo stato ha, in un certo senso, stipulato una polizza assicurativa contro il rischio di sfondamenti della propria spesa. Nello stesso tempo le regioni hanno acquisito un potere sovrano, scarsamente soggetto a controlli. Ma mancano regole sufficientemente chiare per garantire i diritti delle persone e delle famiglie, soprattutto di quelle con maggiori difficoltà. E' necessario pertanto definirle, anche per evitare che i risultati del decentramento si rivelino contrari alle aspettative, cioè un sostanziale miglioramento dei sistemi di welfare, una crescita qualitativa della sussidiarietà solidale, una più efficace promozione della cittadinanza sociale.

 

Tab. 2 - Spese correnti dei Comuni in campo socio-assistenziale- anno 2000 

Dati in migliaia di lire

Impegni

 

Assistenza scolastica,  trasporto, refezione ed altri servizi

(1)

Assistenza scolastica, trasporto,  refezioneed altri servizi

(1)

Asili nido, servizi per l'infanzia e per i minori

 

(2)

Strutture residenziali e di ricovero per anziani

 

(3)

Assistenza, beneficenza pubblica e servizi diversi alla persona

(4)

Totale spesa assistenziale

 

 

(1+2+3+4)

 

Spesa media per alunno (iscritti materna, elementare e media)

Spesa media per persona

0-17 anni

Spesa media per persona

0-17 anni

Spesa media per persona

65 e +

Spesa media per abitante

Spesa media per abitante

Piemonte

1.291

669

325

108

112

278

Valle d'Aosta

1.438

863

464

493

69

362

Lombardia

1.095

516

336

165

104

267

Veneto

707

333

219

301

99

241

Fr. Ven.a Giulia

898

457

320

313

144

315

Liguria

1.237

626

537

105

107

278

E. Romagna

1.372

671

513

144

121

313

Toscana

1.273

679

387

107

96

269

Umbria

843

475

325

20

79

204

Marche

842

480

228

142

69

211

Lazio

1.036

519

364

16

82

238

Abruzzo

667

377

130

59

37

139

Molise

553

313

54

6

60

129

Campania

309

165

76

43

55

118

Puglia

307

172

111

7

53

114

Basilicata

680

390

84

0

52

147

Calabria

492

276

39

17

96

167

Sicilia

672

369

226

40

126

263

Sardegna

581

330

182

116

160

272

ITALIA

791

413

248

110

95

231


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