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ERA UN AGENTE DI POLIZIA
PENITENZIARIA Rientravo in carcere come accade ogni sera da
qualche decennio, e non perché io sia un funzionario della Casa
Circondariale, ma perché la mia condizione è quella di cittadino
detenuto per metà libero, infatti di giorno svolgo la mia attività
lavorativa, mantengo le relazioni famigliari,
affettive e sociali, mentre la sera ritorno nella mia cella a
fare i conti non più solo con i pesi del passato, ma con il futuro che è
già oggi. Ho saputo che un altro uomo se ne è andato dal
carcere, ma non è fuggito, nè ha agito disperatamente, non è
morto dentro un’azione personale muta e sorda, è scomparso per un
accidente, un arresto cardiaco, non era un detenuto, ma un Agente di
Polizia Penitenziaria. Un episodio come tanti altri, che può accadere
tutti i giorni e a chiunque, se non fosse che quest’uomo io lo
conoscevo, risultando una persona profondamente umana e rispettosa del
proprio ruolo, e della condizione di tanti altri uomini privati della
libertà. Umanità e giustizia hanno parentela stretta,
storie che non sono di ieri, ma di tempi trapassati, che però hanno
temprato gli individui, le generazioni, le società, imparando
anche dentro una galera a crescere insieme, rispettando se stessi e gli
altri. E questo nonostante il carcere sia ridotto a una arena di
residualità di poco interesse. Un Agente che sapeva distinguersi, ascoltare,
consegnare una parola non soltanto di conforto, ma precisa
nell’informare chi era in difficoltà, un agente che non ha mai lesinato
accenti autorevoli per
rendere corretta e quindi applicabile la norma. Un uomo consapevole della propria
professionalità, dell’importanza del proprio mandato, uno di quegli
uomini che consentono di accorciare le distanze, di sostituire alla
parola ideologia la parola risocializzazione, opponendo una volontà
valoriale dedicata a contrastare quella desensibilizzazione altamente
cancerogena che attraversa il carcere e buona parte del
consorzio sociale. Anche in una cella può accadere che l’uomo
faccia un passo indietro e possa avverarsi un dialogo costruttivo,
leale, onesto, nella consapevolezza di un nuovo percorso formativo e
esistenziale, uno spazio dove c’è una pena che, sì, sottoscrive
la privazione della libertà, ma allo stesso tempo obbliga al rispetto
della dignità di chi è detenuto, con la possibilità di svolgere una
prevenzione di forma e di contenuti appropriati a una espiazione
funzionale alla salvaguardia della collettività. Nonostante i problemi endemici
all’Amministrazione Penitenziaria, da restringere drammaticamente la
vivibilità del recluso, c’è comunque speranza di avviarci verso un modo
nuovo di intendere la pena,
il rispetto delle persone prigioniere o libere, degli operatori
penitenziari e degli uomini in cammino verso la propria liberazione,
reclamando con un comportamento dignitoso e equilibrato quelle riforme
necessarie e non più rinviabili. Era un Agente di Polizia Penitenziaria, dalle
buone maniere, deputato a fare rispettare le regole e le norme, ma anche
una persona che non ci stava ad abdicare al suo dovere di educatore e di
operatore di giustizia, un riferimento che con la sua presenza pacata e
attenta, sapeva mettere pancia a terra molte delle contraddizioni di cui
si nutre il carcere, ma soprattutto con il suo comportamento
equilibrato, non contribuiva mai a rafforzare una “collettività di
distratti e noncuranti”, causa nefasta di quell’indifferenza dell’uomo
verso l’uomo.
Vincenzo Andraous |
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