|
|
AL MIO AMICO MAICOL Si è educatori quando i pezzi di carta lo definiscono, quando le etichette burocratiche lo confermano, oppure quando la somma degli errori conferisce esperienza e dignità alle parole, ai gesti, alle decisioni da prendere. In questi ultimi mesi ho trascorso parecchi momenti in compagnia di un amico, che ho conosciuto quand’era “minore” nella Comunità Casa del Giovane di don Franco Tassone a Pavia, e mi fu affidato per tentare di farlo appropriare di strumenti idonei al ruolo professionale da intraprendere: furono rincorse e rimproveri, furono sfide a ogni ora, una piccola guerra, scene ripetute di guardie e ladri, con il risultato di arrivare a sera sfiancati, ma ostinati come al nascere del nuovo giorno. Adesso Maicol è un uomo, un uomo che combatte la malattia che l’ha aggredito fin dalla nascita, lo fa con fierezza, nonostante la calma apparente, è percepibile l’inseguimento all’arma bianca che non gli consente tregua, eppure è riuscito a trasformare la sua sofferenza in una ipotesi tangibile di speranza, un tempio ove la preghiera se ne sta adagiata sui cumuli di domani, in bella vista più dei lamenti, dei dolori che bruciano il corpo, con gli occhi accesi sulla notte che giunge d’improvviso. Quand’era nel mio laboratorio non ho capito, non ho ascoltato, non sono stato capace di accoglierlo come dovevo: con la pazienza della speranza. Anche allora era malato, indifeso agli agguati immunitari, eppure non sono riuscito a prenderlo per mano, a analizzare, a elaborare una risposta, anche banale, sonnolenta, ma eretta a difesa della sua presenza. Ho preferito fare il maestro, elargire consigli mascherati di disposizioni, ho continuato a allontanarlo, instillando certezze pilotate da incongruenze che vorrebbero il bene, e invece celano presunzioni. In questo ultimo anno mi ritrovo a guardarlo negli occhi senza pensare alla sua malattia, e senza impegno preso, mi avvio spesso alla sua piccola casa: forse tutto questo accade perché è oggi il mio momento migliore, quando mi avvicino al mio amico e mi accorgo che c’è un sentimento altrettanto amico a rendermi la vita più serena, non perché il senso di colpa mi trascina a lui, non è un’esternazione del cuore condizionata, è un sentimento di bene che nasce e sale senza eccessi, forse è proprio rivedendo pezzetti del proprio vissuto con occhi e sguardi nuovi che si scopre la possibilità e l’opportunità di un cambiamento, di una trasformazione dai propri errori. Questa è la comunità Casa del Giovane, uno strumento per individuare le proprie capacità interiori, attraverso la sofferenza e l’urto della caparbietà alla vita che non muore, la quale insegna a non demordere mai, e consegna a ognuno la forza necessaria per non tradire se stessi nè gli altri, soprattutto ad avere fede persino dove tutto sembra disperato e disperante. Aver fede più di ogni passo che mi ha portato fin qui, dal mio amico Maicol.
|
La pagina
- Educazione&Scuola©