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CARCERE FONDANTE LO STATO
DI DIRITTO Se qualcuno volesse soppesare il mal di pancia di
un paese, il malessere-disagio sociale che recide il valore delle
relazioni, è sufficiente smanettare nella rete, saltellando da un blog
all’altro. C’è un po’ di tutto, il furore e la rabbia di un popolo di
delusi, e c’è pure poca conoscenza, un metodo artigianale dell’imparare,
poco propenso a educarci a conoscere quanto ci circonda. Di fronte a questo pasticcio delle intenzioni,
che affondano le radici nelle nostre emozioni, c’è forte la richiesta di
abbandonare i parolai interessati e intenzionali, di mettere in campo
una giustizia equa, una solidarietà costruttiva, che non dimentica le
priorità di tutela a garanzia delle vittime di soprusi e omertà, ma che
da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di conciliazione
da parte del detenuto. La società non è qualcosa di astratto, che si
riduce al parlato, al raccontato, è piuttosto una comunità fatta di
persone, di istituzioni, di regole autorevoli da rispettare. E il carcere è società, non certamente una
manciata di feudi out rispetto alle normative statuali, ma soggetti
fondanti lo stato di diritto, eppure il carcere è diventato
quotidianamente un caso che desta interrogativi, inquietudini,
sordamente rispedite al mittente. Dentro le celle ci sono persone che scontano la
propria pena, persone che lavorano, altre che svolgono il proprio
servizio volontaristico, si tratta in ogni caso di cittadini, siano essi
detenuti, o che prestano la loro professionalità, che consegnano il loro
tempo alla speranza di tirare fuori insieme il meglio da ogni uomo
privato della libertà. Ma ciò può essere raggiunto unicamente operando
con lo strumento dell’educare, non con la solita reiterata
tergiversazione per impedire la comprensione, la possibilità di una
parete di vetro, dove osservare quel che accade, o purtroppo non accade
per niente, perché il diritto è sottomesso e violentato dal
sovraffollamento, dagli eventi critici, dai problemi endemici
all’Amministrazione. Il rispetto per il valore di ogni persona ha
urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una
condizione esistenziale da raggiungere attraverso l’esempio di persone
autorevoli, anche là, dove lo spazio ristretto di un cubicolo blindato,
non dovrebbe mai annientare la dignità del recluso. Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono
dimenticate nella propria solitudine, se i parenti delle vittime se la
passano peggio dei colpevoli, occorre davvero fermarci a riflettere,
pensare quale società desideriamo, di conseguenza quale carcere
condividere, e non rimanere indifferenti a un penitenziario ridotto all’
ingiustizia di una afflizione fine a se stessa. In questa sopravvivenza carceraria, c’è una
incultura che alla pena di morte vorrebbe consegnare la patente
salvavita, basti pensare ai quaranta suicidi in questa metà di nuovo
anno. Forse come nel Fidelio di Beethoven, non è
sufficiente “cacciare via velocemente il cattivo suddito “, alle teorie
assolute che pretendono di punire perché è stato commesso un reato, e le
altre, che puniscono per impedire che nel futuro se ne commettano altri,
c’è urgenza di chiederci quale persona entra in un carcere, e quale
“cosa” ne esce, quale trattamento ha ricevuto quella persona, se oltre
alla doppia punizione impartita, ha
avuto possibilità di imparare qualcosa di positivo, o se invece
di rieducazione, si tratta di una definitiva devastazione.
Vincenzo Andraous |
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