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COLPI SOTTO LA CINTURA In questi giorni si sprecano lacrime, accuse, opzioni più o meno ardite per fare Giustizia di un accadimento tragico, culminato con la morte di un uomo. Ucciso a margine di una partita di pallone, volutamente a margine, per significare la distanza che ormai intercorre tra il gioco e la realtà che incombe. Per dare senso a questa morte non c’è bisogno di andare a parare nelle scienze sociali, nelle violenze di altre epoche: ove la civilizzazione è più alta, più è certa la tragedia dietro l’angolo. Se di disagio si tratta, non è certamente riconducibile alle regioni dello stivale basso, per intenderci quelle dal reddito iniquo, infatti quanto ha investito Catania, non è associabile al solito luogo comune del sud mafioso, contaminato dalle organizzazioni criminali, perché i morti ammazzati ci sono stati a Catania, come a Milano , Genova, Roma e Ascoli. Ci si ostina a quantificare i commandos spaccaossa a pochi sparuti gruppi di criminali, per cui basterebbe poco per renderli inoffensivi. Anche questa disamina appare una sorta di sociologia spicciola, è vuoto il calice della conoscenza di fronte a un uomo disteso sul selciato, riverso con gli occhi increduli sulla lacerazione inferta all’umanità. Forse per avvicinare una soluzione occorre chiederci perché le famiglie non frequentano più lo stadio, mentre i loro figli ne riempiono le biglietterie. Forse occorre osservare meglio dentro il nucleo famigliare, dove i grandi corrono e i più giovani si ingozzano al Mcdonald, e domandarci se coloro che hanno scatenato quell’intifada nostrana, non siano invece residuati di una diseducazione reiterata ottusamente, a partire dallo spinello che fa gruppo ed è cosa assai normale, dall’andare in tre sul motorino impennato senza casco, all’abbandono della scuola per coma etilico, alla partecipazione al branco cittadino, a quello periferico, nei pugni dati senza rumore, per strappare il telefonino o altro. Occorre il castigo esemplare, come ha sentenziato qualcuno, ma forse è anche necessario ritrovare abitudine alla fatica della spiegazione, abitudine al dovere dell’educare, abitudine a raccogliere i cocci, per non dover fare i conti con la furbizia come valore assunto a norma, soprattutto nei tanti giovani ridotti a isole solitarie, che preferiscono rimanere inglobati nelle truppe d’assalto allo stadio. Idioti culturali li hanno denominati, ma in quella piazza a Catania tra figli di papà, figli di mammà, e figli di ndrocchia, si è sottoscritto un crudo epitaffio, che non può e non deve essere ascritto ipocritamente alla inefficacia delle istituzioni, alla inefficienza delle agenzie di controllo, allo Stato supino, per una volta sarebbe bene fare leva sull’uso improprio delle parole perpetrato intorno alle nostre tavole, mentre ci addormentiamo nelle nostre sicurezze vane, in fin dei conti ai nostri figli non potrà succedere mai, perché sono quelli degli altri a prendere a sassate la vita di un uomo.
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