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FLESSIBILITA’ DELLA MORTE Ho da poco scritto una riflessione sulla disattenzione e l’abbandono in cui versa il carcere italiano. Di come il detenuto, oltre alla propria condanna, sconti una ulteriore sanzione, quella di morire a tempo determinato. Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa. Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi. Io sono un detenuto, lo sono da trent’anni. Scrivo, leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive l’uomo detenuto. Sono conscio che le utopie, la pietistica, fanno solo male a entrambi. E’ urgente smetterla con le solite frasi fatte, luoghi comuni, e fredde didascalie. In carcere non si muore solamente per le strutture vecchie e malandate, né per l’assenza cronica di Operatori. In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che corre all’impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti. Il carcere di San Vittore è un maniero urbano di secolare costruzione, dove promiscuità e indurimenti rendono i detenuti numeri, da usare magari per qualche non meglio precisata propaganda elettorale. Si è detto che San Vittore va cancellato, e ricostruito lontano dal centro città, un molok nella nebbia padana. A San Vittore è morto un uomo, i mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta….. Ma ecco che le parole assumono la cantilena di un nuovo e altrettanto inaccettabile epitaffio, perché nel nuovissimo carcere di Bollate, dove ci sono pochi detenuti, più operatori, e spazi di vivibilità umana in abbondanza, un altro detenuto si è tolto la vita. Non c’è bisogno di richiamare per forza una fratellanza allargata, di ripetere "mio Dio…", penso piuttosto che occorre ritornare a una coerenza che non è spendibile con le sole parole. Una coerenza che riporta al centro l’essere umano, con l’attenzione vera per chi subisce il dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi. Bisogna bandire le ciance, e chiamare per nome le mancanze, le assenze, gli incitamenti che inducono a non pensare a chi cade, ma spronano a seguire chi ben cammina…. poco importa se calpestando chi arranca. Eppure non tutto viene per nuocere, infatti questa epidemia di suicidi e di numeri a scalare forse risolveranno il problema asfissiante del sovraffollamento, e, perché no, anche quello della spesa pubblica: e per mantenerne uno in meno, e per non costruire altri penitenziari………. pardon, "molok" nelle nebbie transilvane.
Vincenzo Andraous Novembre 2001 |
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