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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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FUORI DAL CORO

In questo angolo di ricordi mi coglie impreparato l’avvento di un volto, il tuo, caro Padre.

Nei giorni scorsi, questo spicchio di infinito è diventato un taglio dove ferire i colori, per la tua bocca improvvisamente di lato………..Dischiusa.

Ti ho guardato incedere lentamente, senza un lamento, in mezzo al guado, ma ancora presente.

Ho rammentato la tua preghiera ai potenti e la tua richiesta di una dignità ritrovata per chi l’aveva perduta.

“Applausi di gratitudine a piene mani.

Applausi e solidarietà tra le dita.

Applausi e ancora tanti applausi,

ne rammento l’entusiasmo,

ne sento  tutt’ora il rumore.”

Ora, in questo momento di tenero ricordo, mi chiedo quanto tempo è scivolato addosso ai corpi, alle menti, quanti giorni sono rimbalzati negli sguardi colmi di speranza di uomini incatenati e uomini liberi?

Caro Padre, ti ricordo bene, con gli occhi stanchi, oppressi non dalla stanchezza degli anni sulle spalle, ma dal disincanto delle parole ricevute senz’anima, e dal permanere di un carcere ferito dalla  sua drammaticità fallimentare, dalla sua solitudine creata a misura, ripiegato su se stesso, senza speranza.

Disatteso e distante.

Il carcere rimane lì, negli scaracchi e nelle dimenticanze, indietro, dove non esiste attenzione per le persone; figuriamoci per la possibilità di una opportunità concreta e coerente di riscatto, che spezzi la catena di una recidiva che s’arrampica con le dita rotte, in  una rivisitazione del passato divenuta quasi  impossibile.

Al futuro del carcere sono state estirpate virtù teologali quali la fede, la speranza, la carità, che però dovrebbero sostenere la vita umana, il cammino di uomini bianchi e neri, dei buoni e dei cattivi, di colpevoli e innocenti.

“Quel giorno, un gradino più sotto, in molti hanno ascoltato commossi e ringraziato.”

Eppure dolcissimo Padre è in questa tua ascesa in cielo che i miei sogni hanno il sapore del domani, il perdono è una voce che insegue, non barcolla, cresce e s’avventa al dubbio.

Lo sguardo non è piegato nell’ultima fila, al recinto inventato, ora è altare, dove incendiare l’apparenza, le scogliere senza più mare.

Caro Padre, il cuore è incredibilmente felice, dissolve la paura della scomparsa, della resa, della sconfitta, che dura come pietra che dura.

E’ questo il momento della vita, il momento che è nostro, come l’amore che non conosce armento, né collare, o balzello, è un momento nostro e di ciascuno per ogni  riconciliazione con questa vita, mai doma, mai sazia di slanci in avanti.

Caro Padre, mi rendo conto di quanto queste parole siano sgangherate, ma ti voglio bene da dentro una cella che tu hai visitato, ti voglio bene fuori dal coro dove tu hai insegnato, ti voglio bene in mezzo ai tanti santi e sapienti dove tu hai difeso gli ultimi come me.

Caro Padre, senza fatiche cogliermi, privo di maschere a venirti incontro, ti ricordo semplicemente come un Uomo che mi ha fatto diventare grande, nella speranza di una pena rispettosa della dignità umana perché  vestita di carità.

Vincenzo Andraous
Tutor e Responsabile Centro Servizi Interni
Comunità Casa del Giovane


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