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IN CARCERE SI VA PERCHE’ PUNITI
NON PER ESSERE PUNITI Privazione della libertà personale nel rispetto della
dignità di ogni cittadino detenuto. In questo inciso, lo scopo e l’utilità per ogni forma
di prevenzione e risocializzazione possibili.
Eppure qualcosa sfugge alla razionalità degli sforzi profusi per
rendere il carcere un luogo di pena ma anche un tragitto di vita e di
speranza. “Nessuno
può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o pene inumani o
degradanti”, parole, una dietro l’altra, messe in fila per meglio fare
chiarezza di una dimensione sottaciuta, mai del tutto svelata, parole
che hanno il carico dell’obbligo assoluto e inderogabile. Sul carcere, sulle persone detenute, sulla colpa, il
martello della bugia non conosce stanchezze, si alimenta sulla
conflittualità quotidiana, che fa della comunicazione un’arma
contundente, perché quasi certamente verrebbe alla luce una ordinaria
follia di sopravvivenza. C’è un tentativo di ridurre ogni cosa a una sorta
macabro gioco infantile, vittimismo, pietismo, solidarietà stiracchiata
qua e là, non fanno del bene all’Istituzione carceraria, tanto meno alla
popolazione detenuta, bensì, rischiano di annientare le ultime
resistenze umanitarie, di cancellare maturità e speranze, di stroncare
quel che rimane del senso di Giustizia, quel principio autorevole che
consegna e difende il rispetto della dignità di ciascuno, anche in un
penitenziario, persino all’interno di una cella incredibilmente
sovraffollata. Quando parliamo di galera, di
isolamento, di ingiustizia, non siamo autorizzati a guardare da un’altra
parte, perché in quel perimetro di terra di nessuno a nome carcere, può
rischiare di finirci chiunque, innocente e colpevole, uomo e donna,
padre e figlio, e quando questo accade, e s’aggiunge una morte
inspiegabile, il suicidio della carne, della mente,
del cuore, non c’è attenuante prevalente
alle aggravanti, nè assoluzione che tenga nel nascondersi dietro la
pratica consolidata della critica degli altri, di quelli che non siamo
noi,
ma neppure gli altri. Il buon senso non sta nell’insistere a voce alta,
nell’urlare concentrico, nel fare più baccano possibile per riuscire a
separare la realtà che sta intorno dalla rappresentazione di comodo. Giorgio La Pira parlava di
democrazia fraterna, di dimensione spirituale, di comunicazione politica
pubblica, ciò è chiaramente un concetto alto, di non facile assunzione,
se non si è ben preparati e disposti. Qualcun altro di non meno carisma
e amore per la giustizia, andava ripetendo che in carcere si va perché
puniti, e non per essere puniti, non per essere scavati all’osso a volte
fino a morirne, sino a diventare “cose” al punto da non potere più
accostare alcun progetto di ri-umanizzazione perché quell’umanità è
stata relegata al sottoscala della compassione. Il carcere e la folla ristretta, non è una
esagerazione definirli irraccontabili, e quando affiora questo nodo
violento che sa travestirsi da opera di bene, c’è il dirottamento alla
direzione opposta, quella che porta a ripetere gli stessi errori. Quando la società dei
simulacri fa dapprima apparire e poi scomparire le verità, allora
occorre ri-partire dal rispetto e la vicinanza con chi
non ha ancora alcuna consolazione, per
giungere anche a chi in una prigione sconta la propria pena con
l’intenzione di una giusta fatica e impegno per ritornare a essere
nient’altro che un uomo.
Vincenzo Andraous |
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