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NON AUGURO QUESTO CARCERE
NEPPURE AL MIO PEGGIORE NEMICO In questi giorni sento dichiarazioni importanti da
parte di uomini autorevoli, leggo lettere drammatiche scritte da persone
detenute, che fino a ieri erano riferimenti certi per l’intero paese.
Uomini di comando e di strategia politica incappano negli errori propri,
nelle malefatte agite alle spalle, nei ripieghi del denaro che non fa
prigionieri, scivolano dentro una cella dove rasentano la follia di una
giustizia in solitudine, una legalità presa per il bavero, una equità
che veste i panni del clown. Terribile e disperato l’urlo che si alza da quelle
righe scritte in affanno, che ora fanno i conti con ciò che in carcere
accade, ma che pure ieri era all’ordine del giorno, senza morso allo
stomaco, senza un moto di consapevole disgusto civico. Qualcuno si sente in diritto di ridere e gioire del
dramma di un onorevole caduto in disgrazia, invece è un liscio e busso
che non assolve alcuno, che non fa scomparire la carenza di spazi, di
materiali didattici e di mezzi, di attività trattamentali degne di
questo nome, la disperante necessità di impiegare la volontà umana per
riuscire diversamente dal passato. Il carcere è materia
estremamente sdrucciolevole, addirittura ingannevole, ma quale pena,
quale percorso occorre consegnare, quale significato, quale insegnamento
fare scaturire da una carcerazione che riguarda tutti, vittime e
carnefici, innocenti e colpevoli, perseguitati e furbi di vecchio e
nuovo conio. E’ forse sufficiente buttarla
nel ridicolo, costruendo abbellimenti dialettici, nelle parole di
qualche ex potente finito in galera, che riconosce la barbarie
penitenziaria italiana, le tumefazioni alla dignità di ciascuno, ben
sapendo che
quando la dignità è trucidata, la stessa
umanità scompare, non resta che l’indifferenza a fare da sepolcro. Non è limitativo ovviare a questa illegalità
istituzionale, a questa ingiustizia statuale, attraverso la domanda
fatidica: ma tu dov’eri quando urlavamo di una prigione
irrappresentabile almeno quanto il reato commesso. Tu dov’eri quando altri parlamentari girovagavano per
le prigioni della penisola, denunciando lo stato di abbandono, di
violenza, la disperazione dei restanti neuroni ingabbiati tra le sinapsi
del cervello, oramai in balia della follia. Ti sei mai chiesto quanti
suicidi quest’anno hanno sancito l’edema della violenza
dentro un carcere, quanta morte quest’anno
ha alimentato l’illiceità di un girone dantesco camuffato da percorso di
riparazione e riconciliazione. Della vera emergenza
interpretata male, in questo recinto chiuso per il mantenimento
dell’ordine e la sicurezza, ma irriguardoso e soprattutto antitetico a
quel rispetto richiesto e auspicato per ogni persona umana, libera o
detenuta che sia. Un carcere popolato di diseredati da ogni possibile
eredità valoriale, del valore insito in ogni cittadino, dove ora “fanno
vasche” pure gli uomini di vertice,
eppure quante volte si è consigliata maggiore prudenza e
attenzione, perchè in carcere potrebbe finirci chiunque, perfino chi
oggi si sente impunito per vocazione e chi invece innocente lo è per
davvero. Chissà se almeno adesso le
parole pronunciate da un grande Direttore di prigione: “ il carcere
dovrebbe arretrare nella sua voglia di dominare, controllare, punire, e
mettere al centro della propria filosofia di vita la persona, diventando
un’istituzione di servizio”, saranno ben di più del solito scatto in
piedi, finalmente materia importante per un preciso interesse
collettivo.
Vincenzo Andraous |
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