LE PAGINE BIANCHE NON CREANO PIU’ PANICO

Non mi reputo uno scrittore né un poeta, credo di avere qualcosa da comunicare, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno, o salvare alcuno dal proprio destino. Raccontarci la nostra storia personale può significare la nascita di una amicizia, di un sentimento gratuito, allora anche la mia storia, la mia gran brutta storia può diventare motivo di riflessione per tentare di intravedere il pericolo dei rischi estremi, in quel mito della trasgressione che spesso diviene devianza…e poi risalire dal baratro diventa difficile.

Sono una persona che disegna con le parole ciò che sente, non sono visivo, ma uditivo nel mio percepire le cose, i fatti, le persone. Ho imparato a scrivere leggendomi e credo sia importante leggere ciò che la mente e il cuore tracciano, perché sono orme e impronte digitali che sovente inducono ad ascoltare note nascoste ben al di sotto del primo strato.

Ho sempre scritto, ma ho attraversato un periodo della mia vita tra rivolte e sangue, nocche infrante sui denti, e vite denudate della propria dignità.

Occhi davvero spogliati innanzi all’ultima volontà di un perdono…negato.

Era il tempo della negazione della vita umana, della non accettazione della pena coniugata al non voler convivere con la colpa e quindi con il carcere, " vivere senza alcuna speranza " una mera sopravvivenza.

In queste condizioni di non umanità e poco importa se imposta o scelta, vi era la non volontà al confronto, al relazionarsi con l’altro, quindi la feroce convinzione di non concedere all’altro, la possibilità di leggermi nel cuore.

Non sono una "icona di morigeratezza", come ho detto non sono maestro di nulla, ma prima o poi ti ritrovi a fare i conti con le tante improvvise assenze, che si trasformano in presenze costanti.

Sono chilometri di affanni, che si accatastano alla ragione facendola scomparire. Rimane il dolore più grande a scavare il divario.

Quale grande uomo può definirsi tale, nel sopprimere la vita di un’altra persona? Come è possibile sentirsi parte di questa vita senza esserne trapassati?

"Tutta la tenerezza è nel capo reclinato degli uccisi. I loro occhi appesantiti dalla nostra insipienza non possono che piegarsi su di noi, in uno sfinimento di compassione".

In queste parole c’è la risposta ai cumuli di alienazione che schiacciano le urgenze dell’anima.

Che infine hanno piegato me.

Ebbene, anche in una cella esiste la condizione "uomo", pur disperata, rotta e dilacerata.

Sono rinchiuso da 28 anni, da sempre nel circuito speciale, ho trascorso 5 anni nei braccetti della morte in isolamento totale, ma non è stata la durezza del carcere a farmi comprendere che non è onesto né serio far finta di nulla, sottraendomi o peggio schierandomi tra coloro che sono incapaci di inchinarsi mestamente alla propria coscienza.

Sono certo che valga la pena non rassegnarsi allo scempio, e ciò senza inutili rappresentazioni teatrali, ma combattendo con un atteggiamento e una condotta senza ambiguità, perfino all’interno di una prigione.

Non è importante credere per vivere, ma vivere per credere, per non rimanere "diversi" perché nati "difettati", illusoriamente trasformati in frammenti di sopravvivenza.

Ma chi vive veramente non può non credere nella verità, e pretendere dal proprio presente un senso.

Ecco che allora per poter dire "basta" occorre fare un passo indietro.

Un passo indietro significa "ad-venire" ad una consapevolezza interiore che è la conseguenza di una presa di coscienza anche all’interno di un carcere, costruendo nuova cultura in una assunzione di responsabilità, atteggiamenti che spingono alla fiducia, ad un superamento e annullamento delle pratiche criminali.

Sono davvero convinto che non solo la società, ma io, noi dal di dentro, dobbiamo trovare capacità ed incisività per perseguire nuove punteggiature di risocializzazione e soprattutto riparazione.

Personalmente in quello che scrivo e nei miei atteggiamenti vorrei essere capace di aiutare a costruire un dialogo che esplicita fortezza e credibilità sufficiente per frapporsi alle etichette fuori dal proprio uscio….pur sempre aperto alla critica: quella che analizza con onestà intellettuale e partecipazione fattiva al miglioramento, che faccia sentire tutti coinvolti, nessuno escluso per un progetto comune.

Con queste premesse ho potuto fare inciampare i miei assolutismi, le visioni unidimensionali, la sub cultura della strada e del carcere.

In questo non volgere le spalle si sono fatti avanti i miei limiti, le mie stanchezze e lentezze, solo allora non c’è stata più paura a mostrare il fianco, anzi è giunta la spinta a ricercare un’uscita di emergenza alle tante tragedie all’intorno.

Ecco la domanda secondaria e perciò più complessa da porre a me stesso:"Quale persona voglio essere ?". Se saprò rispondere a questa domanda, avrò fatto "qualcosa" per me stesso e per gli altri, perché partecipare a costruire un cammino più vivibile, a misura d’uomo, è compito di tutti coloro che soffrono il disagio di vivere questo mondo attuale, e coinvolge i giovani come i meno giovani.

Non credo nelle posizioni pietistiche o vittimistiche, esse fanno solamente male, non credo neppure nei facili perdoni, nelle comode scorciatoie, credo in uno stile di vita di tutti i giorni, che faccia sorgere sentimenti di fraternità e amore, che mi induca a chiedere perdono camminando in ginocchio senza autorappresentazioni o strumentalizzazioni di sorta.

Scrivere non è difficile, più difficile è capire ciò che si fa, perché in questo atteggiamento vi è insita la capacità di esistere finalmente, indipendentemente dalla fede che ognuno professa vi è la responsabilità di un senso a dare.

Lo scrivere mi concede la possibilità di osservare gli altri, soprattutto me stesso, per andare a fondo alle cose, per scoprire sempre nuove aree problematiche.

Non scrivo perché credo ciecamente nei libri, ma leggerli sottende volontà ad avanzare, entusiasmo della scoperta, meraviglia per quanto non è negli schemi, negli stereotipi, nelle gabbie di partenza.

"Non basta a me, credo non basti a nessuno dire la verità, occorre fare tutto il viaggio, lento e sottocarico, verso la verità, per dare risposte all’incalzare incessante delle tante domande e delle poche risposte".

 

TUTOR E PEDAGOGIA DELL’ERRORE

Sono tutor nelle Comunità "Casa del Giovane" di don Franco Tassone a Pavia, mi trovo in una comunità che ritengo vera, perché aperta allo scambio relazionale e delle idee, e, in forza di ciò, comprendo che non c’è nulla che io possa miracolosamente dare che già non c’è.

Tranne che la voglia e la volontà di crescere insieme.

Perché affermo questo? Perché sul carcere, mondo dal quale io provengo, pregiudizi e "spallucce" da sempre hanno fatto fallire rinnovamenti e ideali rieducativi auspicati.

In questa "Casa del Giovane" questa contraddizione mi pare avvertita e ben analizzata, tant’è che i ragazzi non solo "lavorano" per se stessi, ma anche in favore degli altri, con un’opera di ripristino e di riconoscimento di regole che comportano capacità di scelte e spinta alla creatività.

Questa comunità è centro di movimento per aprire al nuovo, e non una "riserva indiana per limitare il danno che i bianchi hanno fatto ai Sioux".

Quando si parla di disagio, bisognerebbe parlare di malessere che non è facile toccare con mano, perchè non è solo privazione, è un vero e proprio vuoto spirituale, come se l’esistenza contasse meno dello sballo di una sera, meno di una carezza rubata.

No, per me la comunità non ha il compito di limitare ( e qui mi sovviene ben altro concetto o nefanda ideologia: limitazione del danno, sul versante della tossicodipendenza) il disagio: questo malessere ospitato nei suoi spazi; tanto meno può trasformarsi in linea di confine, per contenere un disorientamento.

Su questo fronte la Casa del Giovane ha il dovere di contrapporsi con l’autorevolezza meritata sul campo, ad una ideologia ipocrita, interessata a mascherare colpe, oppure miopie insensibili alle ragioni stesse della vita.

Qui in questa casa ho trovato la conferma che la comunità da edificare insieme, è quella in cui la persona è consapevole che la propria azione morale è decisione e scelta del suo intimo, è risposta personale ad una situazione, ad un problema, di cui PERO’ sente di far parte. Non siamo navigatori solitari. E la stessa azione morale è sempre secondo coscienza e solidaristicamente "a corpo mistico".

Ecco perché la comunità è importante nella misura in cui educa e accompagna in questo senso: è importante in sé finchè insegna alla persona, con il tempo, l’importanza di saper rispondere e scegliere con responsabilità, in quanto scelta e responsabilità formano la più alta delle libertà.

Per mia esperienza personale, penso che per conoscere il buono e il giusto, per agire bene e con giustizia, sia necessario prima di tutto saper giudicare quel bene e quel giusto degni di essere osservati, praticati, seguiti.

Osservando un minore a rischio, dovremmo chiederci quali modelli, valori, riferimenti propone la società odierna. Ciò senza appesantire alcuno con alchimie filosofiche, con riesumazioni di mutamenti antropologici, con argomenti residuali della rivoluzione industriale.

E’ evidente però l’esplosione-implosione di una istanza esasperata dalle aspirazioni e dalle aspettative anche e soprattutto genitoriali.

Ciascuno mira a salire, ad arrivare primo, ad ottenere riconoscimenti per i propri meriti acquisiti. E ciò tralascia e invalida quell’attenzione sensibile per chi arranca, per chi fatica, per chi arriva ultimo e non è tenuto in considerazione.

C’è un apparente desiderio di benessere materiale, mentre poco o nulla importa - se non addirittura è disprezzato - il benessere spirituale. Non si comprende il valore dell’ascoltare e capire l’altro (magari il proprio figlio), né quanto può essere bello osservare il sole che sorge alle cinque di mattina, anziché uscire dalla discoteca a quell’ora.

Non è il caso di parlare di consumismo sfrenato, già molto è stato detto, ma certo tra gli indubbi vantaggi del progresso, si sono inseriti come "valori" emergenti , efficienza, successo, profitto, e mi viene da pensare che, con ciò, valori come bene, solidarietà e giustizia rimangano simboli altisonanti, vuote parole, mentre nei fatti conta il resto, che è appunto di più.

Io lavoro in una comunità, sono un tutor, accompagno, ascolto, aiuto e mi faccio aiutare, imparo e mi piace questa comunità in controtendenza rispetto ( e per far santo dispetto ) alla tendenza sociale, che offra pure il fianco alla critica, ma opponga la sua credibilità e capacità di rinnovamento interloquendo con le giovani generazioni, e inducendo negli adulti un ripensamento culturale, in modo che ciascuno non pretenda per sé sempre di più non curandosi di sottrarre agli altri e di calpestarne le legittime esigenze.

Qualcuno insiste a disperare sul futuro incerto e obliquo? La comunità viva allora nel presente, e lo faccia attimo dopo attimo, riempiendo con amore autentico insoddisfazioni e vuoti.

Come ho cercato di esprimere poco prima, io non credo ai contributi "unici" da dare, né alle costruzioni utopistiche, ma sono propenso a pensare che non c’è da inventare una nuova tavola di valori. C’è solamente bisogno di riempire di contenuti adeguati quel che viene chiamato il bene e il giusto.

Per me fare il tutor significa contribuire nell’impegnarmi in prima persona, senza eccessi né comodi rifugi, assumendo la mia parte secondo le mie capacità e possibilità, non restringendo la solidarietà ai buoni sentimenti, apprezzabili ma sterili, se non divengono azione e opere, atti vissuti e convissuti con gli altri.

In conclusione che dire se non che "il nostro lato migliore non dipende da noi, ma è affidato all’iniziativa di uno sconosciuto che viene incontro all’altro".

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e tutor Comunità "Casa del Giovane" di Pavia

settembre 2001 Pavia


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