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RICONCILIAZIONE Stavo leggendo alcune dichiarazioni rilasciate a un quotidiano da Monsignor James Schianchi, insegnante di teologia dell’Università Cattolica: chi ha commesso un omicidio, ha solo un modo per riparare, rimanere fuori dalla società. Di questi giorni è la concessione della grazia a Bompressi, la discussione su quella futura a Sofri, la proposta di amnistia per rendere a misura di uomo le nostre sgangherate e disumane prigioni. Mentre è di ieri l’onestà intellettuale di Chi non ha creato rifugi comodi alla propria coerenza, mi riferisco a quel Santo Padre da poco trapassato, fino all’Altro da poco giunto a noi, con identica fraternità e coscienza. Rimanerne fuori oltre un trentennio di reclusione scontata malamente, e nonostante un sopraggiunto riesame critico del passato, un mutamento interiore e una nuova condotta sociale? Non sono sicuro della somma degli errori o della loro detrazione per giungere a questa linea di confine, che dovrebbe demarcare il giusto dall’ingiusto, soprattutto il modo per affrancarsi dal passato non certamente per dimenticarne i pesi che gravano come macigni. Rimanere fuori dalla società è l’unica riparazione possibile per il reo? Nasce il dubbio che si tratti di una confutazione draconiana, una esplicitazione che mostra, senza veli a nascondere, la stanchezza del parlarsi sovente addosso, disimpegnando la riflessione da qualunque soluzione dei problemi endemici della Giustizia. L’uomo della condanna e l’uomo della pena, gli istituti di riconciliazione per gli uomini nuovi, per coloro che hanno scontato parte della pena, per coloro che hanno ammesso la sconfitta sulle proprie macerie e miserie umane. Per chi paga il conto alla storia del paese e per chi lo paga nelle tragedie causate agli innocenti, per chi grida la propria innocenza attraverso un silenzio mai verbale. Riparazione, riconciliazione, sono dimensioni interiori che l’individuo raggiunge a seguito di “un lungo e lento viaggio sottocarico di ritorno”, sono cambiamenti di mentalità e traguardi possibili perché essi stessi albergano sottopelle nella società, attraverso sensibilità differenti, coinvolgendo la collettività stessa nelle sue diverse espressioni, e ciò, dentro e fuori di un carcere, sopra e sotto una doverosa esigenza di giustizia da parte di coloro che hanno subito la tragedia inferta. “Liberare i prigionieri “ nell’anno giubilare, “ Visitare i carcerati “ nel precetto evangelico, “ E’ venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” nel modello rivoluzionario del Maestro. Forse queste manifestazioni possono farci individuare il rischio insito in una condanna che costringe il detenuto a mantenersi in piedi attraverso il disvalore dell’omertà e della violenza, rigettando nell’oblio la speranza, e possono indurci a intravedere il pericolo di una sua ancor più devastante involuzione. Quale senso trova una pena che infligge sordamente punizione, ma non riconosce alla sua funzione sociale il valore che sta al di là dell’apparenza, affinché il detenuto ritorni a essere “persona”?
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