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EPPURE IL CARCERE E’ SOCIETA’
Più volte è stato sostenuto che ogni
intuizione educativa, responsabilizzante, un cambio di mentalità
all’interno di una prigione, è sistematicamente resa monca, dal
sovraffollamento, dalla carenza di personale e di fondi.
Forse è possibile recuperare un
atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro un carcere,
perché rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi
insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e Società civile, non
esponendosi in prima persona
per la propria
crescita personale e professionale, equivale a non vivere pienamente
questa vita che ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità,
trascendendo l'umanità stessa. In
questo tempo d’impegno nella comunità “Casa del Giovane”, ho capito
che è proprio dall'esperienza che nasce la necessità di cercare
ripetutamente dei chiarimenti, la
spinta a mettersi in
discussione, a rimettersi in gioco, per conoscere di più noi stessi
e gli altri, dagli incontri e dal confronto che ne deriva.
Forse bisogna intendere il carcere
per ciò che davvero è rispetto alla tendenza sociale,
opponendo la sua credibilità e capacità di rinnovamento
interloquendo con le giovani generazioni, e inducendo un
ripensamento culturale, in modo che nessuno si senta esente dal
fornire il proprio contributo.
Credo che occorra fare bene il proprio
mestiere di uomo, sia di uomo libero che di uomo ristretto per gli
errori commessi, infatti esercitare il mestiere di uomo, significa
agire in modo da rispettare in noi e negli altri la dignità insita
all’essere umano.
Mi viene in mente la pedagogia della
speranza della Comunità Casa del Giovane, quanta importanza abbia
una tecnica dialogica
che consenta all’altro di accorciare le distanze, l’essere capaci di
ascoltare l’altro in se stessi, con sensibilità diverse,
interpretazioni diverse, ma
giungendo alla stessa finalità. Non
serve a nulla tifare ideologicamente per una o altra ortopedia
penitenziaria, piuttosto c’è necessità di fare camminare rettamente
dentro quei percorsi sociali condivisi, per tentare di riparare la
frattura, di lenire il dolore e la lacerazione di coloro che hanno
ricevuto il male, imparando che espiazione e risarcimento non
equivalgono a vendetta, né a indifferenza, colpa-pena-punizione non
è un'astrazione filosofica o limitata al giudice che eroga una
sentenza, ma memoria di ciò che è stato, e proprio da qui occorre
ripartire per una assunzione di responsabilità
commisurate alle reali capacità delle persone detenute, per
non rendere l'attuale condizione una dimensione di nullità e di
peso, dannoso per se
stessi e per gli altri.
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