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SPINELLI… A GO’ GO’ Le file di sedie sono tutte occupate, la classe è schierata nel grande salone, ragazzi e insegnanti riprendono fiato. Si è conclusa da poco la visita guidata nei laboratori della Comunità Casa del Giovane di Pavia. Ogni ragazzo ha potuto vedere e constatare quanto sia fondamentale per gli ospiti della comunità lo strumento lavorativo e la conseguente acquisizione di professionalità, nonché l’osservanza di alcune regole ( non troppe ) sufficienti a comprendere l’importanza di alcuni valori, quali il rispetto per l’altro accolto e accompagnato nel suo cammino di ricostruzione, di sganciamento da condotte criminogene, di dipendenza da sostanze, tutto ciò attraverso le risorse faticosamente acquisite e messe in campo. Il dibattito prende il via dopo la visione di un video, in cui Don Enzo Boschetti fondatore della comunità, pochi mesi prima di morire, con la parola piegata dalla sua malattia, disegnava il dolore incontrato nei tanti giovani raccolti ai margini della strada, le tante vite bruciate nella frazione di uno sparo, e la fatica sopportata per i tanti giovani liberati dalla droga, dalla necessità muta di sopravvivere in ginocchio. Nel salone è scomparso il brusio disturbante, ora c’è tensione dell’ascolto, c’è voglia di capire, di confrontarsi, di accorciare una distanza, e c’è pure chi ha voglia di fare il maledetto per forza: “ mi scusi, non sono d’accordo con lei, io fumo qualche canna, ma non sono certamente un tossicodipendente, credo che l’hascish non faccia male“. Gli insegnanti mi guardano interdetti, i ragazzi fissano sbigottiti il loro compagno, alcuni….sono rapiti da tanto…..coraggio. La cosa che più colpisce non è la confessione pubblica come gesto di trasgressione, piuttosto è la smemoratezza per tutto ciò che pochi attimi prima hanno scoperto…impreparati totalmente. “In questa comunità ci sono duecento ospiti, tra giovani, adulti, donne, provate a chiedere ad ognuno di essi, come hanno cominciato a fare uso di sostanze. La maggioranza di loro vi risponderà: con uno spinello, sì, proprio con una canna, e tu ci stai dicendo che non fa male. Non c’è una droga che non faccia male, tutte le droghe fanno male. Avete sentito le storie anonime, blindate, di tante persone ridotte a numeri, che in questa comunità stanno ritrovando dignità e umanità “. Droghe leggere, droghe pesanti, quali allora le differenze, se a perdere sono sempre i più giovani, quelli che in leggerezza hanno iniziato e con pesantezza si sono perduti. Non esistono le droghe “leggere”, esistono “le droghe”, e sono tutte da evitare. I tempi mutano, noi cambiamo, e le droghe si misurano con le nostre debolezze, si ammodernano sulle nostre fragilità, cambiano abito mentale nelle nostre rese. Così è stato venti anni fa per l’eroina-droga-protestataria, così è ai giorni nostri per la droga in pillole, quella che non consegna più gli uomini ai pugni dritti nello stomaco, ma rende i più giovani attori formidabili di storie inventate da scrittori invisibili. Giovani rubati in corse folli contro il tempo che non basta mai, per poi rimanere inchiodati ai bordi di qualche rettilineo, o per buona sorte su qualche sedia a rotelle, fino a diventare vecchi per i rimorsi. Il fumo delle sigarette brucia i polmoni fino a morire di cancro. Il vino ubriaca fino a morire alcolisti. Qualche spinello non brucia i polmoni, non rende alcolisti né drogati, ma in quel volo che fa ridere intontiti c’è la sonnolenza della ragione, c’è il via libera della stanchezza che non placca alla discesa, ma avventura senza attenzione, alla disavventura già prossima. In questo salone si sta ripetendo un gioco antico, in cui si impone al sentire comune il valore del tollerare, tutto dentro una scrollata di spalle, piuttosto che la lotta che impegna duramente: tolleranza come possibilità di apertura a ciò che non è, che disamora verso ciò che non conosciamo, in molteplici risposte tutte pervase, conservate, protette, in parole valigia, come ha ben detto un mio caro amico, a capo di questa comunità. Quel ragazzo recita la sua parte, lo fa talmente bene che è comprensibile non abbia consapevolezza di ciò che egli stesso è, per sapere cosa sta malamente offrendo agli altri. Nella sua sfida c’è tutta la nostra fallibilità di genitori, di educatori, di società che rimane al balcone a guardare quel vuoto-male sussurrato o gridato, difficilmente individuabile a causa della nostra incapacità di intendere l’importanza di un’azione morale, come risposta personale a una circostanza, nelle scelte e nelle responsabilità che ne conseguono. Quel ragazzo non ha ancora compreso la differenza tra una vocazione di bullo per forza, e il peso di un comportamento secondo coscienza, dove esistono coloro che esigono prevenzione. Quel ragazzo disconosce che trasmettere la vita è un servizio, e riuscirci bene significa raggiungere una libertà interiore che sta a maturità. Forse occorre scendere dal palcoscenico, dove i riflettori non colpiscono gli occhi, accecandoli. Serve fare un passo indietro e comprendere che responsabilità e credibilità, provengono dal vissuto conquistato, sperimentato, dalla conoscenza delle lacerazioni e dagli ideali, non certamente da uno spinello, dalla droga. Forse occorre imparare da chi sa rispettosamente amare.
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