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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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La formazione degli Insegnanti di sostegno

di Federica Menaldo

 

Ho maturato queste riflessioni dalle esperienze svolte negli ultimi 4 anni (dal 1997 al 2001) come conduttrice di gruppi di Insegnanti (materne, elementari , medie inf. e sup.) nei corsi di specializzazione per accedere alla qualifica di Insegnanti di Sostegno e nei corsi di aggiornamento-formazione cosiddetti "di Alta qualificazione" per insegnanti che operavano da più di cinque anni nel lavoro del Sostegno scolastico (elementari, medie inf. e sup.).

Questo lavoro è stato svolto su incarico della Dott.ssa Marconi, Responsabile del Settore Handicap del Provveditorato agli Studi di Verona.

 

Metodica e obiettivi del lavoro svolto.

Ho condotto "gruppi a termine" (T. Cerizza pag. 47), cioè gruppi di durata limitata e numero di incontri prefissato (dai sei ai dodici, con frequenza settimanale), con l'obiettivo di formare alla relazione operatore-utente (Insegnante - bambini , Insegnante - genitori).

La metodica da me usata nella conduzione dei gruppi è quella derivata dalla metodologia Balint che, nata per la formazione del personale sanitario, si è estesa agli operatori del sociale nei diversi campi di assistenza e cura come quello educativo degli Insegnanti ed Educatori e più di recente dei familiari di utenti portatori di diverse patologie sia organiche che psichiche.

La metodica Balint ha come riferimento il modello psicoanalitico e si distingue per questo da altre usate nella formazione del personale centrate su modelli teorici diversi come ad es. quello cognitivo, comportamentale, sistemico .

 

La metodica Balint, seguendo il modello psicoanalitico, che prende in considerazione non solo il livello conscio della comunicazione ma anche quello inconscio, si pone l'obiettivo di formare gli operatori ad osservare l'interazione relazionale sia conscia che inconscia, cercando di cogliere gli scambi emotivi tra le persone coinvolte.

Come sottolinea Cerizza (pag. 49): " Gli studi sui gruppi di formazione psicologica, dopo decenni di esperienza e rielaborazione teorica, si sono ormai abbastanza consolidati. In linea di massima concordano sul concetto di formazione psicologica che è intesa come un processo di apprendimento di modalità e capacità relazionali diretto al miglioramento delle proprie attitudini legate al ruolo ".

In questo processo le attività formative tradizionali quale la lezione magistrale, l'audiovisivo, l'informazione tecnica in senso stretto vengono escluse perché i contenuti sono veicolati con strumenti diversi come la libera discussione su situazioni concrete ed in particolare, e questa è stata l'innovazione importante introdotta da M. Balint sul coinvolgimento dell'operatore.

L' esperienza si svolge in un piccolo gruppo (da 8 a 12 partecipanti, il numero è tale da permettere la effettiva partecipazione di tutti i componenti il gruppo e le condizioni per uno scambio efficace) guidato dal "Leader" (psicoanalista con specifica formazione come conduttore di "piccoli gruppi ad hoc") che guida la discussione centrata su situazioni tratte dal lavoro quotidiano.

L'obiettivo è portare l'operatore ad una maggiore comprensione dei molteplici aspetti relazionali, a riconoscere come proprie le tensioni legate al ruolo ed apprenderne l'uso nella relazione.

Dall'analisi delle dinamiche e degli stati emotivi emersi nell' hic et nunc del rapporto, i partecipanti possono rendersi conto di come la loro condotta o risposta possa avere un notevole peso nella relazione con l'utente.

Il "Leader" infatti addestra i membri del gruppo a distinguere tra le modalità di comportamento della persona che è in relazione con loro e le proprie modalità di operare come educatore, con i bisogni e le tendenze che le sottendono.

L'insegnante addestrato a riconoscere in se stesso ed in altri l'influenza delle componenti e delle interferenze emotive nelle comunicazioni, saprà meglio affrontare le richieste del suo interlocutore e acquisirà maggiore sensibilità a distinguere i bisogni propri da quelli altrui, onde evitare ad esempio o la collusione coi bisogni dell'utente o di sovrapporre i propri a quelli degli altri; saprà meglio usare se stesso nella relazione e svolgere in modo più efficace il compito cui è chiamato.

Nei gruppi da me condotti viene quindi offerto un apprendimento di tipo esperienziale, in quanto la conoscenza avviene attraverso la sperimentazione ed il riconoscimento della propria implicazione emotiva e di quella degli altri componenti il gruppo di discussione, quando le situazioni di lavoro vengono portate alla osservazione.

L'apprendimento e la crescita avviene attraverso l'ascolto, lo scambio, e l'accettazione delle diverse esperienze e punti di vista, mentre il pensiero sviluppato dal gruppo, espressione del lavoro dei partecipanti, diviene punto di vista nuovo e condiviso.

Si tratta dunque di un apprendimento attraverso interiorizzazione di una esperienza emotiva, così da condurre l'Insegnante sia alla consuetudine di riflettere prima di agire sia

ad una sensibilizzazione, se non ad un cambiamento profondo, nel porsi in relazione. L'Insegnante, che lavora su un gruppo (la classe) ed in gruppo (il team degli Insegnanti), vive spesso il lavoro in team come privativo dello spazio individuale e fonte di conflitti insormontabili.

In questa esperienza formativa può invece divenire più consapevole delle dinamiche

gruppali e sperimentare come il lavorare in un gruppo, che segua certe modalità di funzionamento, non solo non riduce lo spazio ed il lavoro individuale, ma anzi lo arricchisce mentre lo integra.

Il gruppo diviene infatti luogo di confronto sulle diverse tecniche e sui modi diversi di applicare la stessa tecnica secondo le risorse individuali.

 

 

Utilità di questa formazione per gli Insegnanti.

 

 

Nello svolgimento delle proprie mansioni, gli Educatori si trovano coinvolti in relazioni spesso dense di disagi emotivi e di conflittualità, che possono generare sentimenti di inadeguatezza e di frustrazione, causa di sfiducia, distacco, talora rifiuto del proprio ruolo.

In questi gruppi di formazione si pongono in primo piano i rapporti interpersonali e le situazioni altamente intrise di risonanze emotive, mentre i fattori tecnici specifici delle diverse categorie professionali rimangono sullo sfondo, anche se presenti nel racconto delle situazioni portate alla osservazione del gruppo.

Viene focalizzata la dimensione emotiva e affettiva della comunicazione e della relazione. Nelle scienze dell'educazione, che hanno come oggetto di studio l'essere umano, l'affettività e la disponibilità affettiva dell'operatore sono infatti lo strumento di lavoro principale e per eccellenza, che rende poi utilizzabili le tecniche educative specifiche.

Per una crescita equilibrata dell'essere umano, cognitiva e psicologica, le tecniche educative, per essere efficaci, devono essere mediate dall'affettività; altrimenti l'intervento educativo resta parziale, lontano e distaccato, e non produce la crescita intellettiva e psicologica, atta a promuovere il benessere psicofisico e un'identità individuale solida.

Sarà un buon tecnico ma non un buon insegnante o un buon genitore colui che trasmette informazioni e cognizioni con una distanza eccessiva, cioè privo di un coinvolgimento affettivo o con un coinvolgimento emotivo non adeguato.

Un genitore "tecnico" o un insegnante "tecnico" infatti trasmette informazioni ma rischia di fallire nel compito educativo perché non è affettivamente vicino alla persona che deve educare.

Se così non fosse si potrebbe delegare ai computer l'insegnamento e l'educazione, mentre già si cominciano a vedere i risultati negativi di una delega massiccia agli strumenti tecnologici dei compiti degli adulti.

Nel lavoro educativo è invece talora diffuso e accreditato inconsciamente questo rifugiarsi nelle tecniche educative specifiche per sfuggire al coinvolgimento affettivo, molto intenso, che svolgere il ruolo educativo comporta.

Forse perché apprendere tecniche appare meno impegnativo e di più facile acquisizione e non richiede di mettersi in discussione da parte dell' insegnante o del genitore.

Ma il coinvolgimento affettivo "fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra" perché i minori ai genitori e agli insegnanti pongono con evidenza il loro disagio in modi tanto più forti e violenti quanto più ciechi e sordi sono ai loro bisogni affettivi .

Per trovare un aiuto ad affrontare il contenuto psicologico presente nel loro lavoro gli insegnanti si sono rivolti alla Psicologia; ma un insegnamento solo informativo della Psicologia rischia di alimentare negli Insegnanti illusioni onnipotenti di un facile apprendimento delle conoscenze psicologiche e di una conseguente facile risoluzione dei problemi. Tale atteggiamento può rappresentare sia una fuga e un rifugio da problemi complessi sia una compensazione di disagi interiori.

La formazione di gruppo che si rifà a Balint invece, si sforza di rispondere al bisogno degli insegnanti molto più modestamente ma realisticamente, perché senza promettere miracoli e alimentare illusioni parte dal presupposto che la Psicologia non si può insegnare ma va sperimentata.

 

 

Riflessioni emerse nel lavoro dei gruppi degli insegnanti ed elaborazione complessiva dell'esperienza.

 

 

Eccessiva psicologizzazione dell'Insegnante di Sostegno con riduzione della Psicologia a mera acquisizione di conoscenze tecniche.

 

Dal lavoro nei gruppi è emerso, in molte realtà scolastiche di vario ordine e grado, il rischio forte di considerare, senza averne consapevolezza, l'Insegnante di sostegno come colui che si occupa di Psicologia, il sostituto dello Psicologo che viene nella scuola, forse per le conoscenze psicologiche acquisite nei corsi di formazione specifici per il sostegno.

E' vero che il lavoro con l'handicap in particolare modo (ma questo vale in generale per chi si occupa di minori) presuppone delle conoscenze di Psicologia dell'età evolutiva che i corsi di formazione specifici cercano di trasmettere; l'Insegnante di sostegno, che ha approfondito questi temi, può riportare nella scuola queste ulteriori conoscenze.

Il rischio che si è però evidenziato è di ripetere con l'Insegnante di sostegno quanto purtroppo spesso avviene con lo Psicologo: idealizzazione delle conoscenze psicologiche e di chi ne è portatore con successiva svalutazione ed espulsione .

Questa tematica è stata sollevata da molti Insegnanti che partecipavano ai gruppi; addirittura, tra i frequentanti i corsi ad Alta Qualificazione, più di un Insegnante ha raccontato di essere stato tentato di non frequentarli per il timore delle aspettative eccessive che la loro partecipazione al corso avrebbe acceso nei colleghi (di cattedra e non) e per la consapevolezza/terrore dell'inevitabilità della delusione che avrebbero loro arrecato, con successiva ulteriore svalutazione del proprio ruolo.

La delusione si presenta infatti inevitabile, se l'introduzione della Psicologia a scuola viene intesa come acquisizione di nuove nozioni cognitive e viene ridotta la portata affettiva dell'intervento psicologico.

Tale idealizzazione, con la successiva svalutazione che ne rappresenta l'altra faccia della medaglia, se condivisa dalla scuola e dagli stessi Insegnanti di sostegno, che magari si illudono in questo modo di sfuggire ad un senso di inferiorità rispetto agli insegnanti di cattedra, è foriera solo di guai per una scuola che si proponga di " integrare l'handicap".

Con quest'ultima espressione si intende non solo l'integrazione della persona handicappata nella scuola, ma anche di far acquisire, nel bagaglio culturale di tutti coloro che la frequentano, il concetto di "integrazione del limite" come strumento fondamentale di adeguamento alla realtà.

Se tale concezione idealizzante la Psicologia è condivisa in modo massiccio e totalmente inconsapevole, rischia di rendere inutili tutti gli sforzi e le energie impiegate dalla scuola per raggiungere tale obiettivo.

 

Idealizzazione e svalutazione dell'handicap

 

Tale visione di idealizzazione-svalutazione può investire non solo le conoscenze psicologiche ma anche l'Insegnante di sostegno ed il ragazzo handicappato.

"Non voglio più essere o l'eroe o il missionario dedito agli esclusi" diceva in un gruppo un insegnante che chiedeva che il proprio ruolo nella classe e nella scuola fosse inteso in modo corretto, fuori da fantasie o escludenti o onnipotenti.

Segnalava così non solo il senso di solitudine (gli eroi sono sempre soli) ma anche la consapevolezza, acquisita sulla propria pelle, che dietro i meccanismi di glorificazione (il missionario e l'eroe) si nascondono atteggiamenti aggressivi, non consapevoli e perciò più pericolosi perché agiti, di mantenere le differenze e negare la parità tra le persone.

L'eroe infatti non sta in mezzo agli altri uomini è superiore, il missionario ha una missione superiore da compiere; nonostante questo facilmente diventano martiri.

" Voglio essere riconosciuto per quello che sono e che faccio" diceva l'insegnante; ed esprimeva così di sentirsi o esaltato o svalutato, ma non considerato, con il ragazzino di cui si occupava, per quello che realmente erano e rappresentavano.

Chiedeva riconoscimenti reali e non immaginari ; una scuola dove l'altro da sé, "il diverso", l'Insegnante e il ragazzino, sia accolto per come è e non giudicato secondo categorie di valutazione e di valore, in modo da poter esprimere le proprie potenzialità .

 

Gruppo che funziona in modo sano e gruppo disturbato

 

L'Insegnante chiedeva a mio avviso, senza rendersene conto, una scuola-comunità che tenda a funzionare in modo sano, capace di favorire la crescita armonica dei suoi membri garantendo ad ognuno spazio e riconoscimento per lo sviluppo della propria individualità.

Un gruppo disturbato è invece quello che, percorso da gravi conflitti, impedisce tutto ciò o lo rende parziale.

Anche se il tema della diversità tra ragazzi è già presente a scuola, l'introduzione dell'handicap obbliga la scuola a confrontarsi col limite evidente e la diversità conclamata, di cui l'handicappato è portatore e come tale introduce problemi, conflitti e tensioni.

 

Gruppo sano

 

Anche se è cosa complessa e di non facile acquisizione, in certe realtà scolastiche, "tale limite" può essere visto e accettato e la diversità integrata ; infatti attraverso il confronto col limite e la diversità del nuovo membro, ogni partecipante al gruppo scolastico focalizza il proprio limite e la propria diversità, in una consapevolezza della complessità del reale e in un'ottica di parità di valore nella diversità degli individui.

Questa nuova conoscenza arricchisce il gruppo e gli individui che lo compongono, che vengono cambiati dall'apporto del nuovo membro, considerato uno stimolo di maturazione.

Infatti il limite e la diversità introducono anche il confronto e la competizione che, se contenuti entro certi limiti, diventano stimoli alla crescita ed all'attivazione di sé (i genitori degli alunni portatori di handicap preferiscono l'inserimento nella scuola normale rispetto alla scuola speciale perché consapevoli di questo).

La crescita avviene attraverso le introiezioni, le identificazioni e lo scambio di ruoli che caratterizzano un "gruppo al lavoro" (Bion, 1983), cioè riunito con il compito di aumentare le conoscenze di tutti i membri e di socializzarle.

In un gruppo di questo tipo i conflitti, legati alla molteplicità e diversità degli individui, sono presenti, ma vengono affrontati in modo aperto e risolti in modo chiaro, dato che l'aggressività circola in modo positivo cioè costruttivo.

I ruoli sono differenti ma viene interiorizzata parità nel valore dei membri del gruppo; questo permette di accettare le differenze e di vedere come arricchiscono il gruppo.

Si può parlare in questo caso di un gruppo o di una comunità che lavora secondo un "Modello Collaborativo o Integrativo".

 

Gruppo disturbato.

 

Il confronto con il limite e la diversità può introdurre invece, in altri contesti scolastici, a relazioni e competizioni esasperate, può stimolare gravi insicurezze e sentimenti di disparità di valore e svalutazione di sé, con sensi di inferiorità e impotenza o di superiorità e onnipotenza.

Si attivano spesso conflitti che possono diventare gravi e distruttivi perché comportano invidie e rabbie eccessive, espresse in modo disturbato.

A questi scomodi stati d'animo gli Insegnanti cercano di sfuggire con soluzioni più o meno efficaci: ad esempio negando i conflitti che il limite e la diversità stimolano e assumendo atteggiamenti che a parole negano differenze e affermano finte uguaglianze; fino a quando tali conflitti, potenziati nell'ombra, prima o poi esplodono.

In questi gruppi o comunità il funzionamento è opposto a quello prima descritto : dominano gli assunti di base (Bion, 1983), l'aggressività circola in modo distruttivo secondo un funzionamento invasivo-esclusivo perché viene garantito lo spazio ed il riconoscimento ad alcuni, con l'esclusione degli altri; i conflitti o sono negati e scissi o non vengono affrontati.

Facilmente il gruppo di lavoro si divide in sottogruppi contrapposti e l'uno cerca di eliminare l'altro impedendo la realizzazione del compito che il gruppo è chiamato a svolgere o addirittura provocando la distruzione del gruppo di lavoro stesso.

Si può parlare di un gruppo che lavora secondo un "Modello Frammentativo e di Espulsione".

Quanto più domina in una comunità (gruppo scolastico, familiare, sociale) questo funzionamento con una rigida e statica divisione nei ruoli, tanto maggiore sarà il disagio o il disturbo di funzionamento provocato, con impoverimento cognitivo e affettivo dei suoi membri anziché crescita e maturazione.

 

Modello Collaborativo o Integrativo.

 

Dai racconti degli insegnanti emergevano realtà del primo tipo nel quale il vissuto condiviso nella scuola e nel team era quello di un senso di parità pur nella differenza dei ruoli e dei compiti; il confronto con il limite diventava stimolo in quanto collocato in un'ottica di parità di valore nella diversità (insegnanti di sostegno e di cattedra, ragazzi handicappati e normodotati).

Questo permetteva uno scambio ed una reciproca fattiva collaborazione con la ricerca di soluzioni sempre nuove, volte ad aiutare l'inserimento non solo dei disabili ma anche di tutti gli altri bambini che per qualsiasi motivo si fossero temporaneamente venuti a trovare in condizione di disabilità (per assenza, minor abilità raggiunta in alcune materie e quindi con necessità di un recupero).

 

Modello Frammentativo o di Espulsione.

 

Emergevano spesso però anche realtà del secondo tipo cioè di un funzionamento di gruppo più disturbato in cui dominavano fantasie di individui superiori ed inferiori anziché di individui diversi e con compiti diversi, prendevano corpo fantasie condivise di insegnanti e ragazzini di serie A e di serie B.

Si innescavano pericolose invidie e rivalità, a danno non solo dei minori, ma degli stessi insegnanti, che si ritrovavano ad operare insieme in una realtà di lotte di potere e rivalità, che impediva loro di svolgere adeguatamente il lavoro, perché così preoccupati a difendere se stessi, da non riuscire più ad occuparsi dell'utenza.

Si creava una spirale per cui i ragazzi cercavano di ottenere sempre più l'attenzione di adulti troppo presi da se stessi e dai loro problemi di affermazione, per potersi occupare di chi era realmente più debole e bisognoso.

In queste situazioni una grande rabbia distruttiva, talora più consapevole altre volte più inconscia, pervadeva le relazioni tra insegnanti e con gli alunni.

Questa rabbia o veniva espressa esternamente e scaricata nelle lotte degli uni contro gli altri (fazioni o sottogruppi di insegnanti in lotta tra loro) o implodeva negli insegnanti provocando distacco o apatia o malattia, vere e proprie sindromi da Burn-out.

La sindrome del Burn-Out (o di stress da lavoro) fa si che chi ne è colpito viva la professione educativa come una fatica che può anche far ammalare e non si riesce più ad affrontare.

La soluzione trovata di fronte a tali conflitti spesso era o un atteggiamento di disinteresse verso l'handicap con delega totale all'insegnante di sostegno anch'esso trattato con analogo disinteresse (fare come se non ci fossero) o l'espulsione dell'insegnante di sostegno dalla classe insieme al ragazzo handicappato o nei casi più gravi anche dalla scuola.

In queste situazioni l'allontanamento dei ragazzi dalla classe non avveniva per dare in certi momenti uno spazio individuale separato e necessario al ragazzo, (nella considerazione di bisogni differenti rispetto ai compagni, come avveniva nelle situazioni scolastiche più positiv) ma per difendere lo spazio dell'insegnante (di cattedra o di sostegno) ed evitare il confronto con un collega sentito non come alleato, ma ostile, un nemico da combatter; in alcuni casi estremi si giungeva a fantasie persecutorie reciproche.

In questo modo l'insegnante di sostegno alla classe veniva ridotto alla funzione marginale di sostegno all'handicappato, privando nei fatti la classe di tutte le potenzialità di crescita di cui l'handicappato, nel suo significato di persona con dei limiti in certe funzioni e diversità, può portare.

Ma molto più pericoloso e distruttivo per i ragazzi era, a mio avviso, il clima di guerra e non collaborazione tra adulti in cui si trovavano a vivere, handicappati e normodotati .

A questo si aggiungeva che uno staff diviso e inconsapevole si prestava ad essere soggetto a tutti i giochi inconsci portati dall'handicap e dai suoi familiari; come pure l'istituzione (con team scolastici con gravi conflitti) poteva strumentalizzare l'handicap per i propri giochi inconsci .

In molte situazioni si è potuto constatare che gli Insegnanti di Sostegno sono i primi a idealizzare e svalutare l'handicap e il ruolo del sostegno: se inconsciamente colludono nella svalutazione (il limite come svalutazione ) o cadono nella sopravvalutazione (sono stufo di fare l'eroe o il missionario), tenderanno a rafforzare inconsapevolmente l'emarginazione perché non utilizzano la presenza dell'handicap per far maturare sia nel ragazzo handicappato che nella classe, l'accettazione del limite e della realtà.

Da quanto emerso in questi casi si vede come nella scuola si ripetono le problematiche che possono investire i genitori e le famiglie degli handicappati al confronto con l'handicap e accade che, se il gruppo familiare tende a funzionare in modo più disturbato che sano, si accresce l'handicap con il cosiddetto "handicap aggiunto", dovuto cioè alla non accettazione dell'handicap.

Qualora la scuola si riveli incapace di trovare modelli sani di funzionamento di fronte all'handicap e alternativi al funzionamento a volte disturbato del gruppo familiare, l'inserimento scolastico diventa anziché occasione di crescita e integrazione per tutte le componenti scolastiche, un'esperienza frustrante, mal tollerata fino a configurarsi, se l'esperienza diventa fallimento, un danno.

 

L'Insegnante di sostegno ed il ragazzo handicappato: quale formazione.

 

Consegue da quanto fin qui esposto, che l'Insegnante di sostegno più che di generiche conoscenze psicologiche necessita di una formazione che lo aiuti ad usare meglio le sue personali risorse umane e psicologiche e ad integrarle con quelle dei colleghi; ed è a mio avviso fondamentale una formazione che lo aiuti a sviluppare dentro di sé l'atteggiamento adeguato a confrontarsi in modo realistico con il proprio limite e coi limiti dell'altro, senza cadere in atteggiamenti difensivi più o meno gravi, svalutativi e impotenti o sopravvalutativi e onnipotenti.

Sappiamo che spesso queste sono le reazioni inconsce del portatore di handicap e dei suoi familiari nel momento in cui, nella crescita, si confronta coi propri limiti per superarli e progredire; se cade invece in tali atteggiamenti, si bloccano progressi reali nell'apprendimento e nella socializzazione.

Un insegnante che abbia appreso a confrontarsi coi limiti propri e altrui senza essere travolto, può aiutare davvero il portatore di handicap e i suoi familiari a fare miglioramenti solidi perché realistici, senza alimentare pericolose illusioni o delusioni.

Saprà infatti stare nella realtà dell'handicap, poiché sa stare in modo concreto vicino al ragazzo che ne è portatore ed ai suoi familiari; solo in questo modo l'insegnante può, a mio avviso, aiutare quel percorso lento, faticoso e progressivo che costituisce la crescita umana.

 

Federica Menaldo

 

Bibliografia:

 

T.Cerizza : " Tra sapere e capire " Edizioni Monti 2001.

R.Bion : " Esperienze nei gruppi " Edizioni Armando 1983.

 

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Note

a cura di Nadia Scardeoni

Federica Menaldo, Rapporti costruttivi e distruttivi
Studi Junghiani 8, Luglio-Dicembre 1998

http://www.psychomedia.it/simp/sezloc/verona.htm

Michael Balint

………………………Sin dagli anni ‘50 lo psicoanalista Michael Balint, con un gruppo di medici di famiglia a Londra, cercò un nuovo approccio nei confronti dei pazienti e dei loro disturbi al fine di poter mettere in correlazione le condizioni dell’insorgenza, del trattamento e della guarigione delle malattie al di là della pura visione somatica. Lo scopo del gruppo per Balint era una "diagnosi globale" che doveva implicare non solo le diagnosi somatiche ma anche la personalità e le condizioni di vita dei malati per comprendere meglio lo stato dell’essere malato. Con il suo libro "Il medico, il paziente e la malattia" (1957), ancor oggi emozionante e meritevole di essere letto, Balint ha impressionato noi giovani medici, oltre che ad averci incuriositi......

…Sembra banale se dico che la cosa emozionante di questi seminari fu come Balint ci invitò sempre e con enorme ostinazione, a considerare la malattia e i malati, facendoci sempre percepire che non doveva essere trattata la malattia bensì il malato....

da http://www.abruzzobooks.com/schedelibri/prospettive/rohrbal.htm

 

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1. Che cos'e' un Gruppo Balint

I Gruppi Balint rappresentano una collaudata metodologia di formazione esperienziale di gruppo, creata originariamente dallo psicoanalista Michael Balint per l'addestramento psicologico dei medici di famiglia presso la Tavistock Clinic di Londra. Questo metodo - esteso e adattato successivamente a medici ospedalieri, infermieri, psicologi, assistenti sociali, studenti in medicina, educatori ed insegnanti - si è rivelato di particolare utilità per la formazione "clinica" di operatori e dirigenti di strutture residenziali, comunità terapeutiche e presidi riabilitativi, essendo centrato

- sull'indagine della relazione (di cura, educativa o d'aiuto) tra operatori e residenti/clienti;

- sull'azione del gruppo come strumento facilitatore del pensiero;

- su un apprendimento basato sull'esperienza e non solo sulla conoscenza intellettuale.

da http://www.psychomedia.it/ilnodogroup/prog02/grpbalint.htm

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Balint Michael (1896-1970) - Psicoanalista. Ha dedicato la sua attenzione e le sue esperienze soprattutto allo studio del rapporto medico-paziente ed alla conoscenza dei pazienti sofferenti di disturbi funzionali di natura psicosomatica. La preoccupazione fondamentale di Balint è quella di portare il medico a curare non la sola malattia, ma globalmente il paziente, comprendendo meglio le sue istanze psicologiche nonché le proprie reazioni controtransferali. Questo indirizzo ha portato, nella sua realizzazione pratica, alla costituzione dei gruppi Balint che si propongono di arricchire la formazione psicologica dei medici attraverso la comprensione delle dinamiche relazionali che emergono tra i partecipanti del gruppo e delle dinamiche professionali vissute dagli stessi partecipanti nel loro rapporto con i pazienti.

La prima condizione di un GRUPPO così modellato è quella di svolgersi in una atmosfera di libertà tale da permettere ad ogni membro di esprimere non solo il proprio parere, ma tutte le impressioni, le euforie, gli scoraggiamenti, dubbi, timori, senza alcuna preoccupazione e senza nessun assillo di giungere a conclusioni ben definite: si dovrebbe cioè « creare una atmosfera in cui ognuno possa parlare senza fretta mentre gli altri ascoltano con spirito libero e fluttuante, una atmosfera che permetta certi silenzi e dia ad ognuno il tempo di scoprire ciò che egli intende e vuole veramente dire » (Balint) .

Il training tipo Balint , permette di imparare ad usare un rapporto identificatorio equilibrato ed elastico con il paziente. Per Balint tale peculiare modalita' di approccio consente di situare l'aspetto tecnico della malattia in una reciprocità di personalità, in dinamica relazione, non sottovalutando i movimenti inconsci. La formazione psicologica dell'operatore rappresenta la finalità del gruppo Balint.

Recuperare l'umanità del rapporto medico/paziente, attraverso il rivelamento dei percorsi e degli intrecci disegnati dalle emozioni che attraversano l'uomo che cura, deve essere il compito fondamentale di una medicina che voglia dirsi globale, cioè psico-somatica. E' quanto si propone di fare il gruppo Balint, gruppo di medici per i medici, di terapeuti per i terapeuti, gruppo di uomini e donne che si cimentano nel racconto del "mestiere impossibile" di curare.


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