L'abecedario - del 16/01/2004
Nello studiare i casi di disagio mentale più
significativi negli insegnanti, mi sono accorto che alcuni termini
ricorrono più insistentemente di altri forse perché
rappresentativi di quel mondo di esperienze, sensazioni e timori
che accompagnano il vissuto dei docenti stremati. Ben lungi dal
ritenere l’elenco esaustivo – la lista sicuramente è da allungare,
magari col contributo dei lettori – condividerlo con gli
interessati può aiutare la comprensione e il dibattito
sull’argomento.
“A” come: allarme causato dal rilevante e sempre
crescente numero di richieste d’inabilità al lavoro effettuate da
insegnanti per questioni psichiatriche; assenze dal posto
di lavoro per malattia; alleanza, quella rotta con i genitori e
stabilita senza ritegno con i propri figli, ansia vissuta sulla
propria pelle; aggressività manifestata nei confronti
degli interlocutori; aiuto da richiedere per venirne fuori;
amore che rappresenta il vero e unico antidoto al
disagio psichico; antidepressivi: vedi alla voce
“farmaci”.
“B” come: burnout che solitamente precede la malattia
psichica ma già ne contiene il germe; biblioteca, dove
vengono confinati coloro che avrebbero invece bisogno di supporto
e cure; bizzarrìe come manifestazioni iniziali di un male
che “monta”.
“C” come: crollo psico-fisico; cura nella quale poter
sperare se intrapresa per tempo; colleghi che ti
emarginano anziché aiutarti a condividere il problema;
comunità scientifica, assolutamente latitante sulla
questione, al punto da non riconoscere nella classificazione
delle patologie psichiatriche (DSM IV) il burnout, rendendo
impossibile un intervento di prevenzione; censura come
provvedimento sanzionatorio che spesso colpisce chi avrebbe invece
bisogno di una terapia specifica; Collegio Medico, quello
che deve decidere se collocarti a riposo a fronte del tuo stato di
salute; crocifisso che talvolta è sinonimo di insegnante
ma nessuno sembra accorgersene; considerazione sociale,
oramai così bassa da doverla reinventare; conflitti - con
colleghi, amministrazione scolastica, studenti e loro genitori -
che spesso sottendono una situazione di disagio mentale avanzato;
counselling che rappresenta il primo livello d’intervento
da parte di un operatore sanitario; capacità critica,
quella che si perde col progredire della malattia; colpa,
ovviamente della scuola se il figlio mangia male a tavola e dice
le parolacce.
“D” come: diagnosi medica, spesso imprecisa,
incomprensibile e - talune volte - di comodo; dirigente
scolastico: colui che talvolta si improvvisa psichiatra (al
lettore immaginare le conseguenze); depressione, che
insieme all’ansia rappresenta il 70% delle patologie psichiatriche
degli insegnanti; denuncia, quella che spesso viene
sporta da studenti e genitori a carico d’insegnanti oramai
sprovvisti di ogni forma di autocontrollo; dispensa dal
servizio: è mèta agognata dei docenti spossati e ultima risorsa
per quelle amministrazioni scolastiche alle prese con veri e
propri casi psichiatrici.
“E” come: educazione, abbandonata dalle famiglie,
delegata alla scuola, in pratica inesistente; emarginazione,
come atteggiamento più comodo e immediato nei confronti di chi è
in grave difficoltà; evitamento, la più classica delle
sindromi per sfuggire a una situazione che procura ansia.
“F” come: famiglia, che accusa scuola e docenti di
tutto il male che è nei giovani (il bene promana ovviamente dalla
famiglia stessa); follia, il risultato di una situazione
di burnout trascurato; fobie immotivate, sono percepite
come reali per incombenti minacce; formazione, appare
indispensabile soprattutto quella di tipo pedagogico; farmaci:
un ottimo ausilio nel contrastare il disagio, ma solo se
somministrati con raziocinio e soprattutto se considerati supporto
terapeutico e non soluzione a tutti i mali; futuro, una
parola difficile da proferire con serenità alla luce della
situazione.
“G” come: Getsemani che ha dato il nome – per scontate
analogie con la storia del Maestro - al primo studio al mondo che
ha provato una relazione diretta tra patologia psichiatrica e
professione insegnante; Golgota, come conseguenza diretta
al Getsemani in ossequio all’attuale crocifissione del docente;
genitori: viene da chiedersi se non siano più in crisi
degli stessi insegnanti (non oso pensare poi la condizione poco
invidiabile di chi è genitore-insegnante); guarigione:
dopo il venerdì di passione, che ha condotto il Maestro attraverso
il Getsemani e quindi sul Golgota, non disperiamo ricordando che
l’epilogo è comunque rappresentato dalla Pasqua di resurrezione
(almeno per coloro che ci credono).
“H” come: hell cioè inferno, esattamente il posto dove
ti sembra d’essere quando ansia e depressione s’impadroniscono
della tua vita (professionale); help, proprio quello che manca
dalle istituzioni.
“I” come: Istituzioni (da compilarsi a cura del
lettore); inabilità al lavoro: il risultato di una
situazione misconosciuta o peggio negata; insegnante, sinonimo di
“poveretto”; ispettore, colui che è mandato dal MIUR - al
posto dello psichiatra - a dirimere controversie che scaturiscono
da problematiche mediche; isolamento, ciò che si ottiene
confinando i docenti “provati” in biblioteca.
“L” come: lavoro che in realtà si è trasformato in
lotta contro tutto e tutti; latitanza: quella di
Istituzioni e comunità scientifica di fronte al problema.
“M” come: mobbing o mania di persecuzione:
spesso – e non per caso – coincidono, cambia solo il punto
d’osservazione; manicomio: oggi ne non esistono più,
abbiamo le biblioteche che espletano la medesima funzione.
“N” come: negazione del problema da parte di tutti, in
fondo sta bene così.
“O” come: l’iniziale del prof. che provava una tale ansia
all’inizio di ogni giornata di lezione che si defecava
regolarmente addosso. Grazie alla segnalazione degli studenti al
dirigente scolastico giunse di fronte al Collegio Medico che lo
ritenne “idoneo all’insegnamento”.
“P” come: (sembra il titolo di una delle più belle canzoni di
Concato ma non lo è) psicopatie, esattamente quelle di
cui si parla nello studio Getsemani e che – guarda caso -sono
contemplate dal famigerato DSM: dunque, professori e studiosi
mettersi all’opera; prevenzione: quella che non si farà
mai se si va avanti di questo passo; pensione: rimane la
speranza dei più robusti che sopravviveranno al martirio della
docenza; preside e provveditorato: termini
desueti.
“Q” come: querulomania, dalla quale è affetto chi ha
predisposto la risposta all’interpellanza parlamentare urgente
presentata da 34 deputati sensibili al disagio mentale negli
insegnanti.
“R” come: rabbia per la riforma che non
prevede alcuna iniziativa di ricerca sull’argomento né
programmi di reinserimento e riabilitazione al
lavoro degli “scoppiati” (sempre e solo biblioteche).
“S” come: stereotipi nutriti dall’opinione pubblica
sul mestiere degli insegnanti; studenti come croce e delizia di un
milione di italiani (all’85% italiane); sintomi da
somatizzazioni fino ad arrivare anche al suicidio
nei casi più disperati (ricordate la Prof. dell’Istituto D’Oria di
Genova – per ironia della sorte porto lo stesso nome della scuola
- che alcuni anni fa si defenestrò a giugno durante l’ultimo
scrutinio?); e poi ancora sanzioni e solitudine come
unico destino per chi cede con la psiche stremata; e – dulcis
in fundo – sindacati, quelli in cui, per statuto, è
riposta, fino ad oggi invano, la speranza che qualcuno vorrà
proteggere l’incolumità psicofisica dei lavoratori.
“T” come: trasferimento (per incompatibilità
ambientale), soluzione cui più spesso ricorrono i dirigenti
scolastici passando la “peppa” ad altro istituto ignaro del
“pacco” in arrivo: perdono tutti – insegnante disagiato compreso –
ma chissenefrega; TSO, che in gergo medico significa
trattamento sanitario obbligatorio, cioè ricovero coatto in
reparto psichiatrico; terapia, quella che talvolta
precede ma spesso segue il TSO; tardi, esattamente ciò
che stiamo rischiando di fare.
“U” come: usurante sembra essere la professione
nonostante i “3 mesi di vacanza all’anno e la mezza giornata di
lavoro”. Figuriamoci se la vacanza fosse ridotta a 25 giorni. Non
resta che provare se ciò ci aggrada.
“V” come: verità da ricercare sulla questione
restituendo valore e dignità al mestiere.
“Z” come: Zorro, non rimane che sperare nel suo
salvataggio visto come stanno le cose
Scuola di follia del 31/12/2003
“Sono gli insegnanti a diventare pazzi o solamente i pazzi
vogliono fare gli insegnanti?”. Questa era la domanda-battuta che
oramai circolava tra colleghi, al termine di ogni collegio medico
che stabiliva l’inabilità al lavoro dei dipendenti appartenenti
alla Pubblica Amministrazione. Infatti, quando era tra noi lo
specialista psichiatra per analizzare i casi di sua competenza, la
metà dei pazienti risultava essere inevitabilmente “insegnante”.
“Poveri studenti” commentavamo all’unanimità, ma la cosa finiva lì
in attesa della successiva convocazione. Fu solamente quando
cominciai ad insegnare – per passione s’intende - che mi sorse
l’atroce dubbio: che non si tratti di un mestiere “psichicamente”
usurante? Infatti un giorno, rientrando a casa da una
interminabile giornata di docenza, per rilassarmi, avevo preparato
le mie due figlie per uscire a mangiare un gelato. La cosa sarebbe
stata del tutto normale senonchè, sull’uscio di casa, mi fu fatto
notare dalla maggiore che, avevo scordato il terzo fratellino di
pochi mesi (da me totalmente rimosso per stanchezza), che giaceva
addormentato nella culla in sala da pranzo. Ci levammo tutti il
cappotto e facemmo dietro-front.
Per evitare simili dimenticanze oggi lo screensaver del
mio computer mostra una foto di famiglia dove al momento
risultiamo essere in sei (ultimo aggiornamento settembre 2003).
Quell’episodio mi indusse a prendere sul serio la questione e a
studiarla in modo approfondito. Ma più studio e più mi rendo conto
che nessuno conosce il fenomeno né tantomeno sa come fare ad
affrontarlo. Gli insegnanti - ad esempio - non sanno cosa
significhi la parola burnout e quando lo scoprono pensano che
riguardi solamente il collega. I medici di famiglia - che in media
hanno tra i propri assistiti 20 insegnanti ciascuno - spesso
dimenticano addirittura di chiedere quale mestiere esercita il
paziente (pur rientrando, tale domanda, nella cosiddetta
anamnesi fisiologica), ritenendo di pote r passare
direttamente alla prescrizione del Prozac di turno.
Relativamente agli psichiatri basti ricordare quanto mi disse un
esimio primario quando gli mostrai i risultati dello studio
Getsemani: “Ora capisco perché molti dei miei pazienti sono
insegnanti”. Studenti e famiglie poi vanno alla personalizzazione
dello scontro col docente in difficoltà, tirando in ballo
l’immancabile avvocato che minaccia denunce e querele.
Chi è dunque chiamato a tirare le somme per venire a capo di
un’intricata vicenda come quella del docente “pazzo”? Ovviamente
colui che, per legge e in quanto manager, è chiamato a gestire il
personale docente, salvaguardando il numero degli iscritti e
soprattutto il buon nome della scuola: il dirigente scolastico.
Questo pover’uomo (anche se di sovente è “donna”), solo di fronte
a un problema non suo (o almeno “non del tutto suo”), talvolta
s’improvvisa psichiatra azzardando diagnosi mediche, oppure chiede
l’intervento dell’ispettore del Ministero, o più furbescamente
invita il malcapitato a chiedere il trasferimento per non vedere
macchiato il proprio stato di servizio, o ancora avvia
provvedimenti disciplinari che di terapeutico hanno assai poco.
Vediamo dunque nella realtà due comportamenti tipici di un
dirigente scolastico (DS) alle prese con un insegnante
problematico.
DS: “…ho richiesto più volte la visita medico-collegiale in
quanto convinto che il caso di ZA non sia trattabile a livello
disciplinare. Si tratta di comportamenti che hanno un’origine non
tanto in una volontà di violare alcune regole o doveri
professionali, ma in una patologia mentale: l’insegnante è
intimamente convinta di essere chiamata a combattere contro
l’ingiustizia e per queste sue battaglie è disposta a tutto. Vive
e rifiorisce solo se tutti la trattano come pecora nera, diffida
di chi cerca di aiutarla. Non può mai fermarsi perché nuove cause,
nuove denunce la sospingono. Le stesse sanzioni disciplinari nella
loro esasperante ritualità di deduzioni e controdeduzioni, ricorsi
e audizioni in qualche modo la gratificano permettendole di
attivarsi, malassistita dal suo avvocato, in denunce che spesso
raggiungono tutti senza sortire effetto alcuno. In nove anni non
ha saputo presentare un solo ricorso gerarchico o amministrativo
sia per il trasferimento d’ufficio, sia per le varie sanzioni
disciplinari subite…”.
Tuttavia, dopo aver sostenuto che si tratta di caso psichiatrico,
il DS esasperato si contraddice affermando di “… non ritenere
possibile perseguire la strada della dispensa dal servizio per
inidoneità all’insegnamento” e invoca “sanzioni
disciplinari adeguate per i comportamenti di ZA, tenuto conto che
vi è anche l’aggravante della recidiva”.
Nel caso analizzato la diagnosi non è mai stata posta in quanto
l’insegnante non si è mai presentata a visita medica ed ha
raggiunto l’età pensionabile.
In un altro caso il DS stesso finisce per restare vittima
dell’intervento dell’ispettore m inisteriale - richiesto a carico
di una docente - che scrive: “…la compromissione del profilo
professionale della docente FMA è da ricercare in problemi
verosimilmente collocabili sul versante dell’equilibrio
psicofisico ed è pertanto opportuno disporne in via cautelativa la
sospensione provvisoria”. Vengono però mossi addebiti anche
al dirigente scolastico in quanto ritenuto responsabile “…d’imperizia
nell’affrontare il caso, che avrebbe determinato in buona misura
il grado di tensione e di preoccupazione riscontrato nella scuola.
Basta leggere le accorate richieste indirizzate al dirigente
dell’ufficio competente del Provveditorato per capire la totale
inadeguatezza a gestire un siffatto caso: “… Questo è un
problema di fobie e di relazione. FMA ha delle fisse e delle manie
per cui, anche se si cerca di spiegarle alcune cose, non capisce.
Genitori ed insegnanti si attendono risposte da me: cosa fare?
Come muoversi? Come cercare di non perdere altra utenza? Chi edo
pertanto un vostro supporto, attraverso suggerimenti e procedure,
al fine di gestire al meglio la situazione. Chiedo infine, se
possibile, di sollecitare chi di competenza, per la definizione
del caso”…”.
Non occorrono altre parole per sottolineare la delicatezza dei
casi e la totale impreparazione ed impotenza ad affrontarli, ma
aggiungerò soltanto che lo stesso collegio medico, senza
un’adeguata segnalazione da parte dell’amministrazione scolastica
di competenza, rischia di assumere un provvedimento inadeguato
alla circostanza.
Si tratta dunque di un gioco a perdere se non si apre il dibattito
tra le parti – tutte quelle in causa - per trovare una soluzione
dignitosa per insegnanti e utenti del servizio scolastico.
Chi vuole dire la sua, raccontando esperienze o suggerendo
soluzioni, è, al solito, il benvenuto.
La psicotèca
Ho dovuto riflettere un po' prima di decidermi a dare il titolo a
questa nuova rubrica che Proteo - coraggiosamente - mi ha proposto
di ospitare. In seconda battuta ho pensato a come avrei dovuto
esordire, nel tenere la rubrica, per partire col piede giusto.
Senza dubbio non sbaglio - mi sono detto - se chiarisco i termini
del problema, che poi danno il titolo alla rubrica stessa,
mostrando gli elementi di contiguità che esistono tra loro.
La prima parola - burnout - è inglese e significa
letteralmente "bruciato fuori", ma in italiano la traduzione
corretta è "scoppiato". Si tratta di una condizione - non una
sindrome - che è oramai descritta in modo approfondito da numerosi
lavori scientifici pubblicati nel mondo anglosassone. Essa è
caratterizzata da:
- affaticamento fisico ed emotivo (emotional exhaustion and
fatigue)
- atteggiamento distaccato e apatico nei confronti di
studenti, colleghi e nei rapporti interpersonali (depersonalisation
and cynical attitude)
- sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione
delle proprie aspettative (lack of personal accomplishment)
- perdita della capacità di controllo degli impulsi (reduced
self-control).
La seconda parola - psicopatie - non necessita di
traduzione perché è italiana e tristemente nota.
Quello che è ignoto, infatti, non è tanto il suo significato ma il
fatto che abbia qualcosa a che fare con i professionisti per la
quale questa rubrica è pensata: gli insegnanti. Mi spiego meglio.
Le pubblicazioni scientifiche che parlano di burnout negli
insegnanti e nelle professioni di aiuto (le cosiddette helping
professions) sono ad oggi più di 6.000 nella letteratura
internazionale. Ben diverso è lo scenario riguardo alle psicopatie
nella classe docente. Uno solo - al momento - è lo studio che pone
in diretta correlazione l'esordio di psicopatie con l'esercizio
della professione insegnante. Al momento - ma ancora per
poco - lo studio Getsemani (così l'ho voluto chiamare per
le numerose analogie con la storia del Maestro) è l'unico a
soste nere che, in controtendenza con gli stereotipi diffusi
nell'opinione pubblica, la categoria degli insegnanti è soggetta a
una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella
della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del
personale sanitario e tre volte quella degli operai.
Un secondo studio, con i medesimi risultati, sta per essere
pubblicato quasi ad indicare che non si tratta di una sfortunata
coincidenza, ma di una disgraziata realtà che abbiamo
volutamente ignorato.
Si, volutamente e non per una fatale dimenticanza. La prova?
Eccoci serviti: dall'unico studio italiano, condotto addirittura
nel 1979 dal sindacato CISL con l'Università di Pavia, emergeva
che mediamente il 29% dei 2.000 insegnanti intervistati nell'area
milanese faceva uso di psicofarmaci (ma i docenti della periferia
urbana sfioravano il 34%) mentre il 32% ricorreva a prodotti
"ricostituenti". Aggiungiamo inoltre come gli psicofarmaci di
allora fossero decisamente meno "ma neggevoli" di quelli che oggi
sono sul mercato e come negli ultimi tre anni sia praticamente
raddoppiata la vendita degli stessi anche per lo scivolamento
prescrittivo dal medico specialista al medico di base. Il seguito
della scoperta è stato un silenzio assordante.
Antidoti è il terzo termine che si ritrova nel titolo della
rubrica. Il significato è chiaro, ma i contenuti sono tutti da
immettere. Qual è infatti la soluzione a questa difficile
condizione professionale? Chi riguarda? Cosa la genera? Chi è
titolato a metterci le mani? Chi la deve riconoscere e validare
scientificamente per affermarne l'esistenza (passaggio chiave)?
Chi la deve curare e chi ancora prevenire e studiare? Insomma, a
chi spetta pelare questa gatta? All'insegnante? Ai
colleghi? Al dirigente scolastico? Ai sindacati? Al MIUR? Al
Ministero della Salute? Allo psichiatra? Allo psicologo? Al medico
del lavoro? Al medico di famiglia? Alla famiglia stessa? Allo
studente? O non piuttosto a tut ti - stando però attenti a non
pasticciare la già delicata materia - stabilendo prima del
dibattito priorità di questioni e ruoli per un proficuo
approfondimento? La sola cosa certa è che nessuno può tirarsi
indietro, ignorarla né tantomeno credere di poterla risolvere da
sè. Dopo anni di studio sull'argomento, abbozzo un sorriso amaro
di fronte alla questione se mantenere il crocifisso appeso nelle
aule, mentre non ci accorgiamo che questi gira tra i banchi
insegnando. Tutti i docenti - così come i collegi medici per
l'inabilità al lavoro ai quali appartengo - sanno bene che quando
un insegnante è irrimediabilmente bollito, lo si manda in
biblioteca lavandosene le mani e isolandolo in una sorta di
Cayenna dalla quale non riemergerà facilmente. Basaglia ha chiuso
i manicomi e le biblioteche si stanno riempiendo. Forse un giorno
- se continueremo a ignorare il problema - avremo il coraggio di
essere meno ipocriti chiamandole più correttamente psicotèche. Ma
la prospettiva non mi confo rta e questa rubrica nasce per
condividere i risultati degli studi sull'argomento, le riflessioni
e quelle poche certezze che costituiranno una base sulla quale
costruire. Chi vuol partecipare col proprio contributo è il
benvenuto. Critiche, insulti e congratulazioni sono parimenti
stimolanti. Bestemmie no, il Maestro ha ricevuto fin troppi
insulti gratuiti. Nel Getsemani appunto.
vittorio.lodolodoria@fastwebnet.it