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La lezione di Cézanne agli artisti novecenteschi

di Gian Luigi Verzellesi

A 100 anni dalla morte si rievoca la sua figura che, nell’ambito della pittura dell’800-’900, spicca con un risalto etico-artistico netto come quello di Masaccio nel Rinascimento

Rievocare Paul Cézanne (1839-1906), a cent'anni dalla morte, è quasi impossibile: si rischia di sottovalutare che la sua figura differisce da quelle degli artisti d'oggi, così profondamente condizionati dalla predominante "insofferenza formale" connessa all'estetica del brutto.
E tuttavia bisogna rievocare la lezione del maestro provenzale perché nell'ambito della pittura otto-novecentesca spicca con un risalto etico-artistico altrettanto netto di quello giustamente riconosciuto a Masaccio nell'ambito della pittura rinascimentale.
L'influsso innovativo che le storie sacre raffigurate da Masaccio, nella cappella Brancacci, hanno esercitato sulla cultura del Rinascimento è indiscutibile; ma quello svolto da Cézanne - specialmente nel corso della prima metà del Novecento - meriterebbe d'essere ulteriormente studiato, riesaminato per verificare come "Cézanne è stato onorato quale progenitore" (Hess) dagli artisti novecenteschi: non soltanto dai cubisti (Picasso, Braque, Lhote...) ma da una cerchia di pittori in cui spiccano Monet, Pissarro, Matisse, Klee, Morandi, Boccioni.
Nei due italiani, la predilezione di Cézanne risulta ben differenziata se si rammenti che in Morandi le fasi della sua lunga e appartata ricerca sono radicate nella giovanile affinità elettiva col pittore provenzale; mentre in Boccioni, la predilezione per la speciale energia costruttiva cromatico-luminosa del maestro di Aix spunta in certe opere del 1914 e attesta una svolta, una specie di crescente insofferenza nei confronti della rumorosa cricca dei marinettiani, e l'avvio di una visione diversa, stimolata proprio dall'esempio di Cézanne, appassionato coltivatore d'una sperimentazione pittorica in continuo dialogo con la natura.
Nello sviluppo successivo delle tendenze artistiche novecentesche, questo dialogo è venuto meno: "la rappresentazione naturalistica ha perso la sua superiorità" cedendo il passo " all'astrazione e ai cosiddetti stili soggettivi " (Schapiro).
Invece Cézanne non ha mai pensato di snaturalizzare la figurazione svincolandola dal rapporto con la natura: fino a pochi giorni prima di morire, ha continuato a dipingere sur le motif (a contatto diretto col paesaggio prescelto) con la ferma convinzione che " dipingere dal vero non è copiare l'oggetto" ma "realizzare le proprie sensazioni", che "forniscono i mezzi di espressione" con i quali l'opera si determina progressivamente come immagine, in cui si manifesta "l'uomo aggiunto alla natura" (ossia la struttura formale, l'impronta stilistica emersa dal caos delle sensazioni senza forma).

"L'arte - diceva Cézanne a Emile Bernard - è un'appercezione personale. Io pongo tale appercezione nelle sensazioni e domando all'intelligenza di organizzarle in opera". Il frutto di questa lucida convinzione si coglie nei dipinti, che " danno l'impressione di un ordine nascente, di un oggetto che sta comparendo " (Merleau-Ponty) e si è trasfuso in una figura (talora una vibrante filigrana cristallina, come in certi stupendi acquerelli): tanto cresciuta, al di là delle prescrizioni antiche o moderne, fino a conseguire "lo strano potere d'insegnarsi da sé" grazie alla sua specifica trama visiva.

In tanti dipinti di Cézanne è proprio questa trama che ribadisce senza forzature il proposito programmatico di trasformare l'Impressionismo in " qualcosa di solido e duraturo come l'arte dei musei ". In qualcosa che, nelle opere più intense, raggiunge "uno stato di grazia colorata " per certi aspetti analogo a quello raggiunto da Paolo Veronese nelle Nozze di Cana del Louvre: opera contemplata da Cézanne "in estasi" (Gasquet) sussurrando parole d'ammirazione per quel maestro sommo nell'arte di trasfondere "la pienezza dell'idea nei colori" meravigliosamente modulati nel rappresentare figure che risultano "gioiose come se avessero respirato una musica misteriosa" o "rivestite d'una dolce gloria" sotto la "medesima luce attenuata e calda".

A queste note d'entusiastico consenso, Cézanne fa seguire un verdetto secco e tagliente: rispetto alla forza degli antichi pittori veneziani, "manca qualcosa nei moderni": David, Ingres, Degas, Manet... non reggono al paragone con Rubens, con Tintoretto, con "i quattro o cinque grandi di Venezia", con gli spagnoli più ricchi di talento. Queste predilezioni appassionate possono far intendere al lettore che la poetica di Cézanne (così sottilmente anticheggiante) è antitetica a quelle connesse alle disparate tendenze moderniste della seconda metà del Novecento: specialmente a quelle più eversive, riproposte di recente e portate alle stelle, sia nelle "fiere" d'iniziativa mercantile, sia nelle rassegne frettolosamente encomiastiche dedicate al Dadaismo, all'Informe e all'Informale.
All'ipotetica domanda ironica Che direbbe Cézanne di queste tardive imprese a tutela pubblicitaria dell'arte 'sfigurativa', teorizzata nel lontano 1853 da un professore hegeliano, Karl Rosenkranz, come sintomo di grave involuzione? La risposta più convincente proviene dai buoni studi: in particolare dal libro (edito da Donzelli) in cui Michael Doran, dell'Istituto Courtault di Londra, ha raccolto, in rigorosa edizione critica, documenti e interpretazioni che consentono di mettere a fuoco la figura di Cézanne usufruendo degli scritti dei suoi primi ammiratori (da Geffroy a Rivière, Denis, Gasquet...). Scritti preziosi, leggibilissimi, non meno degli interventi di Rilke (1907), Soffici (1908), Pica (1908), Fry (1917) e D'Ors (1921), che allontanano dai pregiudizi deformanti di Zola e Duranty e preannunciano lo studio accostante e il 'catalogo ragionato' di Venturi (1936). La successiva 'fortuna critica' (in cui emergono i molteplici fondamentali contributi di John Rewald) è sterminata.

Ma per rammentare l'apollinea autorevolezza di Cézanne (nella speranza che non si disperda nelle nebbie del relativismo d'oggi, rumoroso e spesso così povero d'inventiva), forse bastano due testimonianze soltanto. La prima è offerta da Matisse, che a vent'anni compra un dipinto di Cézanne, e tanti anni dopo, nel 1936, lo dona a un amico, direttore del Museo del Petit Palais, con queste parole: "quest'opera mi ha sostenuto moralmente in momenti critici; vi ho attinto fede e perseveranza"! La seconda testimonianza consiste nel giudizio emblematico espresso da un principe della critica d'arte, Erwin Panowsky (1892-1968), certamente inviso ai modernisti d'ogni specie, ma pronto a riconoscere (tra la silenziosa costernazione degli accademici e del pubblico svagato) che, per il flusso di energia che irradia sull'osservatore sensibile, "una natura morta di Cézanne non è soltanto bella quanto una Madonna di Raffaello ma è altrettanto ricca di contenuto" o senso espressivo.

Gian Luigi Verzellesi

da L'Arena di Verona
Mercoledì 1 Marzo 2006

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Gian Luigi Verzellesi è Socio effetivo dell' ANISA , http://www.anisa.it/ , sezione di Verona http://www.anisaverona.splinder.com/


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