Una storia vera a Palermo di
Rita Bartoli Costa
(Sciascia editore, 148 pagine)
In ricordo del giudice Costa
di Giuseppe Zupo*
“ -Per questo io sono nato e per questo
sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità-. E
Pilato gli dice: -Che cos’è la verità?- ”.
Finita la lettura, sono rimasto a lungo con la bozza del libro tra
le mani, traversato da sentimenti e pensieri contrastanti,
tenerezza, rabbia, fiducia e sconforto. Poi ho riguardato il titolo,
pronunziandolo lentamente: “Una storia, vera, a Palermo”; e mi
è sembrato plasticamente che Palermo e le sue terribili storie
girassero come un’enorme elica, in cerca di uno spazio vitale,
intorno ad un asse solo, la “verità”. E sono andato a
riprendere quel passo del Vangelo secondo Giovanni, che segna nel
sangue di un innocente, il sangue del Cristo, il conflitto antico,
quasi immanente, sempre tragico, tra verità e potere.
Perché il libro di Rita Bartoli Costa, donna Rita, come la chiamo
io con affetto e deferenza naturali, è innanzitutto una
testimonianza di verità. Una verità sulla mafia e sui “grandi
delitti” di Palermo che il potere vorrebbe ignorare o nascondere,
e che qui viene conclamata con la forza di chi ha vissuto sulla
propria pelle e su quella dei suoi figli la tremenda tragicità
degli eventi, ma anche con quella razionalità positiva che vuole
ancora credere - malgrado tutto - nel valore profondo della
democrazia, e nel riscatto possibile delle nuove generazioni.
Perché il libro di donna Rita è anche un testamento spirituale ai
suoi amatissimi nipoti, uno dei quali porta il nome del nonno e ai
quali si rivolge direttamente, a più riprese, durante il racconto,
come se loro fossero lì, accanto a lei, voce narrante toccata
purtroppo dalla “grazia degli dei”: “conoscenza attraverso
dolore” (Eschilo, Agamennone - coro). Ai nipoti, ai giovani
rivolge la speranza; ma guai a nascondere loro la verità! allora
sì, veramente, la morte dei giusti sarebbe senza senso, e così la
vita di coloro che nella giustizia hanno creduto, e per la giustizia
hanno pagato prezzi a volte insopportabili, continuando a lottare
senza arrendersi.
A lottare contro chi? per che cosa? Contro l’oblio, innanzitutto,
definito “il più spietato strumento di potere”, uno strumento
che nei riguardi del potere mafioso “a tutti i livelli”, ha
steso il suo manto, ed “ha anche coinvolto la società civile e
quanti avevano e ancora hanno il dovere istituzionale di
, sempre, costantemente, fino al raggiungimento della verità”.
Non è un caso che la lotta cominci proprio da qui, da un recupero
della memoria, dei fatti e delle persone, negli aspetti anche più
minuscoli, “normali” e quotidiani, fino a quelli rivelatori di
scenari paurosi ben al di là dei confini dell’Isola. Perché la
verità, nel senso etimologico del corrispondente termine greco,
Jhia, nient’altro significa che negazione dell’oblio.
Ma anche contro la mistificazione, figlia dell’oblio, che ha fatto
passare per vera un’immagine soltanto granguignolesca, “fumettistica
dei films o dei romanzi”, della mafia; un’immagine comoda alla
perpetuazione di quel potere mafioso dalla cui testa, mai abbattuta,
si rigenera senza posa la catena di sopraffazione e di delitti che
tengono in ostaggio non soltanto Palermo, questa “bellissima e
infelice città”, ma l’intera democrazia italiana. Ed è questo
un punto molto serio da meditare, sul quale, pur con quella prudenza
e quello stile che le sono propri e che le derivano da una grande
tradizione familiare (non solo il marito, ma anche il nonno materno,
magistrato e “carbonaro”, cui dedica un commosso ricordo), donna
Rita ha detto cose chiarissime ed inequivocabili.
“Ho sostenuto da cittadina nata, cresciuta, vissuta e offesa in
terra di mafia, che essa è figlia della classe dominante siciliana
e ha avuto sempre, di conseguenza, rapporti privilegiati col potere,
che, strumentalizzandola, ieri come oggi, se ne è servito e,
perciò, la ha coperta”. “Dal Presidente Moro ai
siciliani corre, a parer mio, un unico filo di sangue, ininterrotto,
per condurre il Paese verso un certo equilibrio, là dove la mafia
o, meglio, l’ala militare della mafia, ha avuto il suo peso nella
organizzazione delittuosa, ma avrà avuto input e coperture in alto
loco, -là dove si puote ciò che si vuole- ”.
E proseguendo quel racconto ad alta voce, attorniata idealmente dai
nipoti e da “quelli che nel futuro verranno” e dovranno
conoscere la verità: “Io non posso, né sono tenuta, come ho già
detto, a fare discorsi da aule universitarie, non sono uno storico:
io racconto fatti vissuti in prima persona,
spiegandoveli in modo semplice, umanamente, e voglio anche dirvi
delle circostanze che hanno distrutto, sconvolgendola, la vita della
mia, della nostra famiglia…Per farvi ben capire debbo spiegarvi
che la mafia si presenta a noi in due momenti: l’ala militare, la
milizia armata e violenta che organizza ed esegue ogni sorta di
delitti, che vive, ormai, a livello di capi, in latitanza e in gran
parte, oggi, in carcere; l’altra parte, quella che Bocca scrive
con l’iniziale maiuscola, a cui si dice appartengano uomini
-invano colti-: capaci finanzieri, giuristi, professionisti, che
svolgono le loro certamente non specchiate attività in ovattati
studi o in ricchi salotti in un qualche elegante quartiere della
città. Alte personalità che hanno sempre avuto rapporti col
potere, sia nazionale che regionale, ai quali hanno dato e dai quali
hanno avuto, soprattutto, protezione, sostanzialmente d’accordo
che i morti sono morti e non servono, mentre è preferibile
occuparsi dei vivi che servono ancora e, spesso, molto”.
Poi, in quell’inusitato cenacolo dove una “sapientissima cara
vecchia nonna parla fanciullescamente a quell’eterno fanciullo che
è l’uomo quando si salva dall’ossessione della vita non vita”
(prendendo a prestito quel che Carlo Sagio dice di Omero, nella
prefazione all’Odissea da lui tradotta in prosa e dedicata a
Raffaele Mattioli), la voce s’alza d’un tono: “Ho tanto detto,
ho chiesto, ho scritto, ho gridato contro la mafia: mi sono rivolta
a tutte le istituzioni: ritardi, silenzi, garbata indifferenza, che
io ho configurato nella mancanza di volontà politica. Infatti dai
vari governi, e nazionali e regionali, malgrado le mie esplicite
sollecitazioni, mai ho avuto un cenno di vera attenzione. Non mi
ascoltarono mai attentamente, dimostrando chiara volontà di non
andare avanti, neanche i magistrati, che ho considerato fin dal
primo momento parte lesa come me e i miei figli”.
E non si tratta di un delitto soltanto, anche se ogni crimine invoca
giustizia; perché in “questa bella e martoriata città è
avvenuto quello che non è avvenuto in nessun altro paese civile
occidentale: sono stati decapitati tutti i vertici delle
istituzioni, sono stati assassinati giornalisti, avvocati, medici,
docenti universitari, uomini con una triste storia e anche un
innocente bambino, Claudio Domino, reo di aver visto qualcosa che
non avrebbe dovuto vedere”.
Ma di che cosa parla questa donna forte e decisa, “offesa ma non
sconfitta”, che ha preso “sulle spalle il peso opprimente della
solitudine di tanti anni” senza il marito accanto, decidendo di
restare in una città non sua, lì dove lui era caduto, per
mantenere il giuramento fatto in ginocchio, davanti al suo corpo
ancora caldo, di rendergli giustizia, senza nulla tacere?
E’ facile immaginare, in occasione di questo libro, la riedizione
di quei commenti a mezza bocca, intrisi di viltà, di opportunismo,
di falso pietismo (sembra di sentirli: “accuse senza fondamento
alcuno”, “fantasmi del cuore”, “farneticazioni e lamenti di
una povera vedova che non sa darsi pace”), che in questi anni, “tanti
anni”, troppi, sono riusciti ad opporre alle ragioni di questa
martoriata famiglia un “muro insormontabile” di indifferenza. E’
il gioco fin troppo scoperto di una classe dirigente “interessata
a non fare luce”, un gioco che punta sulla stanchezza, sull’oblio,
sulla ritualizzazione della vita e della morte, sulla prevalenza di
un giornalismo e di un sistema mediatico fondati sulla notizia
facile anziché sull’inchiesta difficile e laboriosa, su un’antimafia
di maniera che combatte solo gli aspetti truculenti della mafia “militare”,
lasciando sostanzialmente indisturbati i santuari.
Eppure non sarebbe difficile riprendere, ancora oggi, le fila di
quelle indagini riservatissime che il Procuratore Costa aveva
ordinato alla Guardia di Finanza il 14 luglio 1980, meno di un mese
prima di essere ucciso. Si trattava di svolgere a largo raggio, su
tutto il territorio nazionale, “approfonditi accertamenti” su
precisi intrecci di interessi, economici, finanziari, bancari e
societari, non solo dei gruppi mafiosi dominanti a Palermo in quel
momento, e cioè dei “soliti noti”, ma anche sui loro “soci
occulti”.
Gaetano Costa era ben consapevole della importanza e della
pericolosità di quelle indagini, che avrebbero potuto far luce
anche sull’omicidio del Presidente della Regione On. Piersanti
Mattarella: indagini di cui aveva certamente parlato con l’amico
Rocco Chinnici quando, per evitare orecchie indiscrete nello stesso
palazzo di giustizia, si davano appuntamento nell’ascensore
bloccato a mezza corsa. Erano le indagini che l’allora col.
Pascucci, comandante del nucleo di Polizia Tributaria,
aveva avviato con solerzia, e per le quali - come egli ha avuto modo
di testimoniare – la moglie era stata avvicinata per strada, alle
spalle, da persona sconosciuta, che le aveva intimato di non
voltarsi, e di “raccomandare al comandante di non approfondirle
troppo”!
Ebbene, prima della risposta a quelle indagini arrivò la mano del
sicario di via Cavour. Il colonnello Pascucci venne trasferito; dopo
di lui un balletto di altri trasferimenti, nei quali - come ha
testimoniato in aula un altro ufficiale, l’allora col. Pizzuti –
era intervenuta direttamente la loggia massonica P2, e che ebbero un
effetto del tutto scontato: la Guardia di Finanza non ha mai
completato quelle indagini.
Ecco quello che ha scritto in proposito la Corte d’Assise di
Catania: “E’ aleggiata su alcuni episodi (e ciò dicasi per i
continui avvicendamenti ai vertici della Guardia di Finanza di
Palermo) l’ombra nefasta della P2 di Licio Gelli. Occupandosi
quindi di tali moventi [quello della vendetta del boss Inzerillo per
la convalida degli arresti dei suoi gregari, e quello di chi, ben
più in alto, aveva assoluta necessità di fermare quelle indagini]
ritiene la Corte di non essere assolutamente nelle condizioni di
potere affermare che il primo (convalida degli arresti) costituisca
il vero ed esclusivo movente dell’omicidio e di potere escludere
che sussista altro movente alternativo o concorrente”.
E poco prima, dopo aver parlato dell’impegno e del metodo nuovo
che Gaetano Costa aveva portato nel lavoro della Procura di Palermo,
un metodo che – come dice donna Rita – privilegiava la sostanza
sulla forma e il riserbo sui facili successi dell’immagine
mediatica, ecco la precisa critica di quella Corte d’Assise ai
magistrati che avevano condotto la prima fase delle indagini sull’omicidio
del Procuratore: “E proprio prendendo le mosse da tale movente
[quello della vendetta del boss Inzerillo], e, può ben dirsi,
almeno con riferimento alla prima fase delle indagini, mantenendosi
nell’esclusivo ambito dello stesso (ed è forse questa la
principale censura che può muoversi agli inquirenti), particolare e
decisivo peso è stato attribuito, come si è detto, all’accertata
presenza sulla scena del delitto, appena due giorni prima della sua
consumazione, dell’odierno imputato, lontano parente del ben più
celebre boss Totuccio Inzerillo”. Uno straccio di prova che, in
mancanza di altre piste investigative ben più corpose ma anche ben
più pericolose, avrebbe portato quel processo, dai risvolti così
gravi e drammatici, alla sua necessaria conclusione, l’assoluzione
del “lontano parente”!
Sono farneticazioni anche queste? Vaneggiavano anche i giudici della
Corte d’Assise? E perché nessuno si è fatto carico finora di
questi precisi rilievi, che costituiscono altrettanto precise
indicazioni, sia rispetto alle indagini mai effettuate, sia rispetto
alle responsabilità in proposito di certi magistrati?
Ma a “farneticare” non sarebbero solo donna Rita Bartoli Costa e
la Corte d’Assise di Catania. Sulla stessa lunghezza d’onda si
trovavano persone che l’antimafia di maniera ha cercato di
imbalsamare, con riti ed officianti generosamente turibolati dal
sistema mediatico, ma con sostanziale soppressione del vero valore
della loro opera e delle ragioni vere della loro morte (come si
vede, è sempre intorno alla “verità” delle storie che a
Palermo ruota la questione mafia). Parliamo non soltanto di Cesare
Terranova, di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, di Carlo
Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, ed altri; ma soprattutto
di Rocco Chinnici e Paolo Borsellino.
Terranova viene assassinato nel momento in cui, con tutta la sua
esperienza di magistrato e di parlamentare, stava per riprendere le
sue funzioni inquirenti. I suoi ragionati convincimenti sulla mafia
erano noti. “Nel dopoguerra vediamo la mafia fare il suo ingresso
nel mondo politico e nel mondo degli affari”, diceva in un’intervista
a Il Diario del 23 settembre 1979. E nella sua dichiarazione di voto
sulla Relazione conclusiva della Commissione Antimafia (seduta del 5
gennaio 1976) così si esprimeva: “è indispensabile anzitutto
ripristinare la fiducia del cittadino nelle istituzioni, cominciando
con l’allontanamento da tutti i posti di potere di tutti coloro
che, non esito a dire, a torto o a ragione, siano stati in qualche
misura compromessi o invischiati con la mafia. E questo vale non
soltanto per gli uomini politici, ma per tutti coloro che, a
qualsiasi titolo, siano preposti ad uffici pubblici di elevata
responsabilità”.
Cose che non erano una novità: le aveva scritte, con dettagli
impressionanti ma anche a quell’epoca senza esito, l’allora
colonnello dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel capitolo
n. 9 del
rapporto su “Michele Navarra e la mafia del corleonese” inviato
nel 1970 alla Commissione Antimafia, rapporto pubblicato nel 1990
dalle edizioni La Zisa di Palermo.
Ma cose ancora più precise erano state dette da Rocco Chinnici, in
varie occasioni. Non è senza commozione che si rilegge, adesso, un
volumetto di quelle stesse edizioni (sempre 1990), dal titolo “L’illegalità
protetta”, nel quale una serie di interventi di Chinnici è
preceduta da una prefazione di Paolo Borsellino.
Premesso che la visione del fenomeno mafioso del collega assassinato
“non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo”,
Borsellino così prosegue: “Le dimensioni gigantesche della
organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi
capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltre
oceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le
peculiarità del rapporto mafia-politica…: c’è già tutto in
questi scritti di Chinnici”. E subito appresso, la stessa,
allarmata denuncia che ora si leva da donna Rita Bartoli Costa: “Eppure,
né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione
alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la
collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una
volta mi disse, la
”. Qualità che erano costate a Chinnici la vita, come già a
Gaetano Costa; e poco dopo allo stesso Borsellino.
E Chinnici non aveva certo taciuto sul rapporto, intimo e
necessario, della mafia militare con la politica a tutti i livelli.
“Chi scrive è convinto che, oggi più che ieri, la mafia inserita
come è nella vita economica dell’isola non può fare a meno di
tali rapporti…L’omicidio del presidente della regione Piersanti
Mattarella, caduto nel tentativo generoso di dare un volto nuovo
alle pubbliche istituzioni e nel momento in cui, predisponendo le
necessarie riforme, stava per passare dalla enunciazione di linee
programmatiche dirette ad estromettere mafia e sistemi mafiosi dai
gangli vitali della regione, alla realizzazione delle stesse,
costituisce la drammatica riprova della validità della tesi che qui
si sostiene”. Un rapporto, quello mafia-politica, che “è fatto
incontestabile, permane tuttora pur se, per ragioni contingenti,
esso sembra meno appariscente di quanto non fosse qualche anno
fa". E dopo aver accennato alle indagini di Falcone anche sui
traffici internazionali di armi (indagini di cui a noi sfuggono oggi
i risultati), e al fatto che anche Pio La Torre fosse caduto sulla
stessa frontiera (e Chinnici non parlava da sociologo, ma da
magistrato che conduceva le inchieste Reina, Mattarella e La Torre),
ecco il suo pensiero sulla vicenda Sindona: “E che cosa
costituisce la vicenda del banchiere siciliano se non un emblematico
esempio di intrecci non del tutto chiari tra potere
politico-finanziario e mafia?” (dal testo della relazione svolta
all’Incontro della Commissione ‘Riforma’ con i magistrati
impegnati in processi contro i mafiosi, in Castelgandolfo dal 4 al 6
giugno 1982, nel volume sopra indicato).
Ma Chinnici aveva detto di più. Il 25 febbraio 1982, al Consiglio
Superiore della Magistratura che lo sentiva sulla vicenda del “tradimento”
di Costa da parte di alcuni sostituti, che non avevano esitato ad
indicare agli avvocati dei mafiosi incarcerati il loro Procuratore
come l’unico responsabile di quelle decisioni, aveva parlato delle
famose indagini commissionate alla Guardia di Finanza.
Ad un consigliere che gli chiedeva di quegli “strani”
avvicendamenti ai vertici palermitani di quell’Arma, egli così
rispondeva: “A livello di diceria, come voci, non so da che parte
non si voleva che si facessero quelle approfondite indagini
bancarie. Ma noi malgrado tutto le abbiamo fatte” – “Con l’ausilio
della Guardia di Finanza?”, domanda il consigliere. “Io le ho
fatte senza l’ausilio della Guardia di Finanza” - risponde
Chinnici - perché le ho fatte direttamente. Falcone è stato molto
aiutato dalla Guardia di Finanza, io in minima parte, perché le ho
fatte personalmente…”.
E dopo qualche mese da questa deposizione, andato in visita da
Giuseppina La Torre di cui era buon amico, le aveva detto: “Siamo
arrivati al punto. Adesso il caso La Torre è chiaro. Dica alla sua
amica Irma Mattarella che presto la manderò a chiamare, perché
queste novità riguardano anche lei…Si tratta solo di aspettare
qualche settimana e saprà tutto. Finalmente ci siamo”
(deposizione della Signora La Torre nel relativo processo).
Ma di lì a qualche giorno, Chinnici era morto! Di quelle indagini
non si è saputo più nulla. Per gli omicidi politico-mafiosi a
Palermo sono stati sempre e soltanto condannati i “soliti noti”;
e nel caso di Gaetano Costa, neanche quelli!
Eppure “ il problema dell’inquinamento mafioso [del capitale
finanziario] è talmente grave che anche le imprese invitano a non
privarsi di uno strumento essenziale per combatterlo”. Lo “strumento
essenziale” era, addirittura, l’abolizione del segreto bancario;
e la persona che faceva letteralmente questa proposta, nientemeno
che il Presidente della Confindustria nel novembre 1990, Sergio
Pininfarina (articolo “Mettiamo il naso nelle banche”, pag. 2
dell’Unità del 13/11/90). Anche lui farneticava?
Del resto, certe “irrequietezze” a livello di organismi europei
rispetto a questi veri e propri “buchi neri” nella cosiddetta
accumulazione originaria e nel movimento del capitale finanziario in
Italia e oltre l’Italia, non devono avere una spiegazione molto
lontana da quella che muoveva l’allora Presidente degli
industriali italiani a fare quelle dichiarazioni e quegli auspici.
Né si tratta di indebite ingerenze: perché, in attuazione degli
artt. 1, 29-31 del Trattato sull’Unione Europea delineata a
Maastricht, in relazione a quello che viene comunemente denominato
il Terzo Pilastro dell’Unione (la cooperazione nel settore della
giustizia e degli affari interni - CGAI), è stato stabilito
innanzitutto un potere di informazione dei cosiddetti “ufficiali
di collegamento” su questioni di interesse comune, ed è stato
elaborato un apposito meccanismo di valutazione degli impegni
assunti dai vari paesi nel campo della lotta alla criminalità
organizzata. In particolare, l’azione comune n. 97/827/GAI ha
stabilito che il gruppo di lavoro multidisciplinare sulla lotta alla
criminalità organizzata (GDM) definisca ogni anno il settore
specifico da valutare, nonché l’ordine degli stati membri da
esaminare.
E noi ci chiediamo perché la Comunità Europea, che ha giustamente
stabilito parametri comuni in tanti settori dell’economia,
esercitando su di essi un rigorosissimo controllo di conformità,
non debba pretendere uguale rigore in un settore tanto delicato, e
di così vasti e dirompenti effetti dannosi, non solo sul piano
essenziale del mercato europeo e internazionale, ma sulla formazione
dei gruppi dirigenti che da quegli inquinamenti non possono non
uscire condizionati.
Ma a tutto questo non si perviene senza quella “insurrezione delle
coscienze” di cui parla, nella sua storia “vera”, donna Rita.
Non un’azione generica, né soltanto una rivolta morale, che pure
è premessa indispensabile; ma “una qualche forma di azione
inquadrata in una quanto più completa visione del complesso
problema”. Perché “il male è talmente profondo ed incarnato
che le sue velenose radici affondano in un terreno dove si
intrecciano da secoli - e vengono talora coltivati – torbidi
interessi, espressioni dell’egoismo e della prepotenza umana,
disancorata da ogni visione morale e religiosa della vita” (dall’omelia
del cardinale Pappalardo nella cattedrale di Palermo il 27 settembre
1979, in morte di Cesare Terranova).
Ecco, queste cose ci sentivamo di scrivere di fronte al bel libro di
donna Rita. Anche a noi, nel leggerlo, è sembrato di “cchianari”
con lei le scale difficili del dovere, dell’onore, della
solidarietà tra gli uomini di buona volontà. A testa inchinata e
scoperta, come si deve soltanto di fronte a chi ha parlato anche per
noi il linguaggio difficile e arduo della verità.
Premessa al libro “Una storia vera” Giuseppe Zupo
Roma, 13 aprile 2001
Cara donna Rita,
di meglio non ho saputo fare. Mi rendo ben conto che la mia
prefazione assomiglia più ad una comparsa conclusionale, che ad un
elaborato prettamente culturale; da troppo tempo sono lontano dal
dibattito politico-culturale, e quindi ho perso un po’ l’abitudine
alle forme più snelle. Ma poiché mi avete scelto, sarà giocoforza
accontentarsi.
Voglio dirvi però che siete del tutto libera di modificare a
piacimento non solo la forma, ma anche la sostanza dello scritto,
secondo quelle che riterrete le vostre opportunità.
Per quanto mi riguarda, spero non vi dispiaccia che io abbia svolto
una parte della prefazione, polemizzando contro quelle “voci a
mezza bocca” che tante volte hanno steso un cordone di vera e
propria quarantena intorno soprattutto a Michele. Ho cercato di
immaginare (ma qualche volta mi è toccato anche di sentirle
realmente, ed ho reagito!) alcune di quelle osservazioni; e, come è
d’istinto in un avvocato, ho polemizzato con esse.
La parte che vi raccomando di meditare, parlandone con Michele e chi
altri vi parrà opportuno, è quella in cui viene ventilato un
intervento della Comunità Europea. La questione è di forte
attualità, dopo le vicende che hanno riportato all’attenzione
della pubblica opinione l’oscura origine delle fortune di
Berlusconi. In realtà, mi sembrerebbe un buon passo rivolgersi con
il vostro libro direttamente al Presidente della Repubblica e al
Presidente Prodi, chiedendo che finalmente l’attenzione venga
concentrata su certo tipo di indagini. E non vedrei neanche come un
fuor d’opera, chiedere che voi e Michele veniste sentiti in sede
europea, su questi argomenti che riguardano – e minacciano – una
trasparente integrazione dei mercati finanziari. In questo, potrebbe
venire un aiuto forte e finora insperato proprio da quel mondo
economico che, pur con le sue magagne, però non ha nulla da
spartire, e nulla vuole condividere, con il capitale mafioso.
Tanti cari saluti e auguri di buona Pasqua
Pino
Box
Quel giudice deve morire
Aveva sessantadue anni il giudice Gaetano Costa quando, il 10 luglio
del ’78, da Caltanissetta approdò ad uno degli uffici giudiziari
più importanti del capoluogo siciliano. Già durante la cerimonia
di insediamento, il neo Procuratore Capo di Palermo ebbe l’ardire
di affermare che non avrebbe accettato spinte o pressioni,
sostenendo che avrebbe agito invece con spirito di indipendenza,
cercando di non farsi condizionare da simpatie o risentimenti.
Alcuni magistrati già allora pensarono che il Procuratore non aveva
ancora capito niente. Non gli erano serviti gli esempi di tanti
morti per mano mafiosa.
Il giudice, nato a Caltanissetta, aveva aderito a fazioni del
partito comunista clandestino e preso parte alla Resistenza. All’inizio
degli anni ’40 era entrato in magistratura a Roma, dove aveva
cominciato la carriera di sostituto procuratore, proseguendola in
seguito a Caltanissetta dal ’44 al ’65. E, proprio lì, dopo
aver indagato sulla mafia agraria che in quegli anni stava scoprendo
nuove forme di accumulazione illecita, divenne procuratore capo.
Ancora oggi molte banche siciliane ricordano quel giudice che,
scartabbellando inesorabilmente nei conti di tanti imprenditori
sospetti, spesso riuscì a mandare in galera clienti, banchieri e
funzionari.
Ai magistrati che giunsero a Caltanissetta nel ’69 presentò un
quadro chiaro dell’intreccio che si era determinato in Sicilia
negli anni ’60 tra la mafia e i pubblici poteri. Aveva capito che
anche lì stava nascendo la mafia imprenditrice, quella dei “colletti
bianchi”, una mafia che voleva a tutti i costi contrastare,
andando sempre fino in fondo nelle inchieste. Qualcuno cercò di
spiegargli che “il
garantismo è nato a Palermo”, ma lui lo ignorò e proseguì
dritto per la sua strada, pur sapendo ormai di essere solo e che
tale sarebbe rimasto. Nonostante tutto però, c’era pur qualche
magistrato che lo appoggiava, come il capo dell’Ufficio Istruzione
di Palermo, Rocco Chinnici. Con quest’ultimo era solito
incontrarsi in ascensore e andare su e giù, unico modo che avessero
per poter parlare liberamente delle principali inchieste antimafia
in corso, al riparo da orecchi indiscreti. All’epoca si indagava
sulla mafia siculo-americana e sulle famiglie degli Spatola, dei
Gambino e degli Inzerillo. Era il 1980, e il capitano dei
carabinieri della compagnia di Monreale, Emanuele Basile, riuscì a
chiudere il cerchio attorno ai clan che già erano finiti nel mirino
di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, nelle
indagini sulla pista dei corleonesi che, comunque, erano solo agli
inizi. Ma, proprio a causa delle sue scoperte, Basile trovò presto
la morte la sera del 4 maggio 1980, a Monreale. E, con questa
ennesima uccisione, era ormai innegabile che qualcuno aveva alzato
il tiro…. Giuliano – assassinato il 21 luglio del ’79 – e
Basile lavoravano insieme, indagando sulle stesse persone e sugli
stessi affari. Grazie ad intercettazioni telefoniche e prove
fotografiche i due erano riusciti a trovare i pezzi di un unico
mosaico e, così, a poche ore dall’uccisione del loro ufficiale, i
carabinieri furono in grado di arrestare una trentina di persone
presentando in procura il rapporto di denuncia. E, nonostante gli
avvocati palermitani avessero sottovalutato il lavoro delle forze
dell’ordine, Costa studiò quel rapporto che presentava i nomi dei
personaggi chiave della mafia siculo-americana, nonché tutta una
serie di intrecci di parentele e rapporti societari dai quali
sarebbero senz’altro scaturiti ulteriori sviluppi. Il 9 maggio
riunì nel proprio ufficio tutti i suoi sostituti avvertendoli che
quella catena di sangue non poteva essere ignorata da chi si
occupava di inchieste antimafia. Il suo accorato appello ad andare
avanti su quella pista non servì a smuovere i sostituti. Finì col
firmare da solo gli ordini di cattura, assumendo su di lui la
responsabilità di ogni possibile conseguenza di quell’azione e
sconcertando gli avvocati, che videro trattenere in carcere i propri
assistiti.
Gaetano Costa pagò a caro prezzo il peso di quella responsabilità.
Era solo quando, la sera del 6 agosto 1980, in via Cavour, morì
dissanguato, sfigurato dai proiettili di un killer che lo aveva
seguito da casa fin davanti ad un’edicola. Il giorno dopo gli
avrebbero dato una scorta, troppo tardi.
Jessica Pezzetta
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Liberazione - 3 novembre 2001
Rita Bartoli ricorda il marito magistrato nel libro “Una
storia vera a Palermo”
Morti ammazzati di mafia La vera storia di Gaetano Costa
Si chiama “Una storia vera a Palermo” (Sciascia
editore, 148 pagine, 9.30 euro, 18.000 lire) il libro d’amore
scritto da Rita Bartoli Costa, vedova del Procuratore Capo di
Palermo Gaetano Costa, morto ammazzato dalla mafia in via Cavour,
davanti al Supercinema Excelsior, sfigurato con un colpo di pistola
in faccia in un torrido pomeriggio del 6 agosto 1980. «E come
potevamo noi cantare / con il piede nemico sopra il cuore / fra i
morti abbandonati nelle piazze» è l’incipit nonché motivo
ricorrente di questo libro d’amore di Rita per quel marito che
sarebbe stato compagno e padre tenerissimo, ma anche magistrato
schivo e severo, a causa di quel mestiere “difficile” in una
città difficilissima e in anni da incubo. «La grande quercia
abbattuta» lei lo chiama ripetutamente, quasi a invocarne la
perduta capacità protettiva e la grande autorevolezza che lo aveva
reso tanto forte tra i magistrati e nell’opinione pubblica, e allo
stesso tempo, proprio per questo, tanto vulnerabile. E libro d’amore
per la città bella e dolente che ha visto morire massacrati tanti
suoi figli e cittadini onesti in un’orrenda scia di sangue: dalla
sparizione del giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro e dall’omicidio
del procuratore Scaglione, nel 1970, fino alle stragi del ’93 di
Capaci e via D’Amelio in cui furono fatti “saltare” Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino. In mezzo, l’infinita litania dei “misteri
dolorosi” di Palermo e la sfilza dei morti “eccellenti”: il 6
gennaio 1980 il presidente della regione Piersanti Mattarella, il 30
aprile 1982 il segretario del Partito comunista siciliano Pio La
Torre e il 3 settembre il superprefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa,
il 24 luglio 1983 il giudice istruttore Rocco Chinnici. E tanti e
tanti altri “onesti servitori”, come li chiama Rita Costa:
giornalisti come Spampinato, Francese e Beppe Fava; magistrati come
Livatino, Ciaccio Montalto e Cesare Terranova, investigatori come
Cassarà, Montana, Basile e Boris Giuliano. E i tanti dimenticati
delle scorte come Emanuela Loi, autisti come Rosario Di Salvo,
persino mogli come Francesca Morvillo ed Emanuela Setti Carraro. Una
“mattanza” durata oltre vent’anni.
Una donna forte e fragile Conosco personalmente Rita Costa, donna
fragile e forte assieme, che in questo libro dice senza odio ma con
ferma denuncia cose terribili. Me le aveva già dette, in un’intervista
che le feci per “la Repubblica”, in occasione del diciottesimo
anniversario della morte del marito, il 6 agosto del ’98. In quell’occasione
Rita si era detta molto amareggiata perché Costa era «uno dei
morti dimenticati in una città che di onesti servitori dello Stato
ne ha sacrificati tanti, fino a rimuovere anche quelli più recenti,
sotto il peso insopportabile e ripetitivo della mattanza». Nella
ricorrenza la famiglia fece pubblicare un necrologio da brividi:
«Mortificati dall’inaccettabile abbandono delle indagini sui
responsabili e le causali dell’omicidio di Gaetano Costa... i
familiari lo ricordano... chiedendo l’aiuto di tutti per impedire
che l’oblio e l’impunità degli assassini e dei mandanti rendano
inutile il suo sacrificio». E Rita nell’intervista sosteneva che:
«Non basta trovare i killer. Ci sono morti che vengono decise da
quella mafia che Giorgio Bocca scrive con la emme maiuscola e che le
indagini per i delitti Costa e Chinnici, Montana e Cassarà, ma
anche Falcone e Borsellino, non hanno nemmeno sfiorato». Si può
dire che il libro parta da qui. O comunque che su questo nodo si
arrovelli l’anima inquieta di una donna che intanto ha dovuto
affrontare da sola la sua vita, lungo vent’anni di una solitudine
ancora piena di struggimento ma senza rassegnazione: «In tutti
questi lunghi, amari anni ho preferito tacere su quanto mi bruciava
dentro, gelosa dei miei sentimenti e della appartenenza del mio
dolore, delle mie emozioni: i sentimenti e le reazioni ho pensato
appartenessero solo a me stessa e non potevano essere oggetto né di
commiserazione dai parte dei probi, né di soddisfazione da parte
dei reprobi». E ancora: «Contro la mafia mi rivolgo alle donne,
che sono state e forse ancora sono quella parte della società che
ha subito in silenzio le violenze e le prevaricazioni mafiose; che
sono state sempre coperte, spesso anche dirette, da chi ha retto le
sorti di questo Paese offrendo agli italiani, sicuramente ai
siciliani, l’illusione di vivere in una Repubblica di piena
democrazia nata dai valori della Resistenza... Alle donne, perché
in questa martoriata città sono state le prime a capire l’importanza
e la priorità della lotta alla mafia».
Il porto dei veleni Ma ci sono nel libro, tra le tante umanissime
testimonianze di quel “rosario” di ricordi, tre passaggi
cruciali, che non possono essere taciuti. Il primo riguarda «la
strana storia dell’anticipato possesso», come Rita chiama la
vicenda del subentro del marito nel ruolo di Procuratore Capo di
Palermo: «Solitamente per i posti direttivi, dopo la decisione del
Csm, si era soliti dare l’anticipato possesso del posto al quale
si era designati, per evitare che un ufficio direttivo rimanesse
senza la presenza del capo per i tempi lunghi dell’iter
burocratico. Al presidente Spadaro infatti lo avevano subito
concesso, a mio marito era stato negato e il Procuratore generale
dell’epoca, il dottor Pizzillo, non aveva fatto mistero di non
avere nessuna intenzione di sollecitare il Csm, non preoccupandosi
affatto di lasciare una Procura calda come quella di Palermo senza
il Procuratore capo designato, affidandola per un periodo così
lungo a un Procuratore aggiunto, buono per tutte le stagioni, di cui
preferisco non fare il nome per carità di patria... L’aggiunto
“facente funzione” telefonò a Caltanissetta chiedendo a mio
marito la cortesia di postergare di un mese il suo arrivo a Palermo
per dargli il modo di completare l’anno di reggenza, cosa che gli
avrebbe consentito di concorrere con successo alla direzione della
prima Procura che fosse rimasta libera e messa a concorso. Non mi
risulta che abbia mai concorso ad alcuna Procura». Seconda
testimonianza: «L’allora Questore di Palermo, in seguito al
delitto Basile (capitano dei carabinieri di Monreale, ammazzato
mentre era in processione con la figlia in braccio, ndr), aveva
fatto arrestare 55 personaggi, tutti dediti a traffici illegali, e
aveva chiesto alla Procura della Repubblica la convalida di tali
arresti, secondo la normale procedura. Per l’occasione, dopo
averne parlato con l’aggiunto che si era mostrato d’accordo,
Gaetano riunì nel suo ufficio i due sostituti ai quali era stata
affidata l’inchiesta per discutere la convalida di quei fermi. L’aggiunto
ritenne opportuno non andare alla riunione e i due sostituti, che
avevano interrogato gli imputati, dichiararono sic et simpliciter il
loro disaccordo per la convalida dei fermi... Si discuteva, e
animatamente, sull’opportunità della convalida, quando uno dei
due sostituti dichiarò che non avrebbe firmato. Allora Gaetano
firmò personalmente quelle convalide, e con esse firmò anche la
sua condanna a morte».
Una scorta di sola andata La terza, coraggiosa e precisa denuncia
che Rita Bartoli Costa fa nel libro riguarda quello che possiamo
chiamare “il mistero della scorta di sola andata”. Il 6 agosto,
giorno in cui il Procuratore fu ucciso, era per la famiglia Costa il
primo giorno di ferie, che sarebbero cominciate più precisamente il
giorno dopo, con la partenza per le vacanze all’isola di Vulcano.
«Alla Questura era stato deciso - scrive Rita - che durante il
viaggio per Vulcano saremmo stati scortati fino a Milazzo dalla
Polizia, dove quest’ultima ci avrebbe dato in consegna ai
Carabinieri di quella cittadina, che ci avrebbero dovuto scortare
fino a Vulcano consegnandoci infine ai Carabinieri dell’isola...
Ricordo che fu il capo della Squadra mobile a comunicargli quella
decisione di tutela per il periodo delle vacanze: non capivo,
qualcosa non era chiaro, come un vuoto, uno strano vuoto per la
mancanza di un progetto di tutela per il ritorno». Ecco, è questo
il “centro” del libro di Rita Costa, ed è anche molto di più.
Una testimonianza da lasciare in eredità ai nipoti, al piccolo
Gaetano che porta il nome del nonno. E da lasciare in dono ai probi:
ai tanti che continuano a battersi contro la mafia e per la
legalità in questa città di Palermo, che sta ritornando a una
triste “normalità”, dopo gli anni della “primavera”, del
riscatto e dei lenzuoli bianchi contro la mafia. E il libro arriva
al momento giusto, mentre i poteri occulti si vanno schierando per
la scelta del prossimo sindaco. Quel primo cittadino che può fare
la differenza tra un progetto per il futuro o un salto indietro di
vent’anni in un passato tetro e sanguinario come quello in cui
morì, su un marciapiede del centro, il Procuratore capo Gaetano
Costa, onesto servitore dello Stato. Il killer è ancora in
circolazione.
Gemma Contin
http://www.caltaweb.it/cobas/1_scuola/cesp/recensioni/recensioni.html
***
In Interlinea
https://www.edscuola.it/interlinea.html
stralci dai due documenti di Rita Bartoli
Costa:
....................."Questa
bella e martoriata città, un tempo felicissima, è stata per un
lungo periodo afflitta da violente prevaricazioni e traffici sporchi
di ogni sorta, quando, dalla fine degli anni settanta agli anni
novanta, sono stati fatti assassinare dalla mafia i vertici delle
istituzioni.
È avvenuto, come è
palese, in Sicilia , a Palermo in particolare, quello che non è
avvenuto in nessuna altra città del mondo occidentale, per cui, per
noi che fummo sconvolti e traumatizzati da tali avvenimenti - e
tenuto conto che la mafia per le sue origini e per la data del suo
divenire aveva ormai determinato una cultura di disvalori o una
subcultura - non rimase altro modo se non attaccare questa
subcultura, creando nel quotidiano una cultura dei valori, la
cultura prioritaria del rispetto della vita...............
https://www.edscuola.it/archivio/interlinea/iusp.html
Il 6 agosto 2000, dopo
venti anni, nel corso della celebrazione della Messa in
commemorazione dell’uccisione del Procuratore Capo della
Repubblica, della città di Palermo, Gaetano Costa, Rita Bartoli
Costa ha preso la parola, per la prima volta in pubblico e ha dato,
a tutti noi che eravamo presenti , il dono prezioso del suo
testamento spirituale.Sono parole che tagliano la cavità dei cuori
e che nulla concedono ai furbi e ai disonesti ……Sono
immensamente grata a Rita Costa per la sua stima , per aver
consegnato le "sue pagine" ad Educazione alla Legalità di
Interlinea.............
Palermo 6 agosto 2000
di Rita Bartoli Costa
Vent’anni fa, in un caldo pomeriggio di
Agosto, nella parte alta di via Cavour, senza scorte, mentre era
fermo a guardare i libri esposti in una bancarella, un killer di
mafia, indisturbato, in tutta tranquillità, aggrediva alle spalle,
uccidendolo, mio marito, Gaetano Costa, Procuratore Capo della
repubblica di questa città, colpevole di aver sempre fatto
rispettare le leggi dello Stato da ogni forma di prevaricazione
criminale, in difesa della società di questa Repubblica.
Ho deciso, in questo ventesimo anniversario
di prendere io la parola per commemorarlo, credo giustamente,
perché sono la persona che meglio di ogni altra ne ha conosciuto il
non comune spessore umano sia nel privato che nel pubblico.
Come i suoi colleghi ben ricorderanno,
Gaetano Costa è stato magistrato di grande valore e di indiscussa
preparazione e ciò malgrado non ebbe la dovuta solidarietà,
diciamo, dal suo ufficio e da chi aveva il sacrosanto dovere di
difendere il suo modo di amministrare la giustizia..........
https://www.edscuola.it/archivio/interlinea/6agosto.html
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