IL RITORNO
DEL DONO
SERGE LATOUCHE
Ho intitolato la mia relazione "Il ritorno del
dono". Perché "Il ritorno del dono"? Perché oggi il
tema del dono è possiamo dire di moda. Ma non è sempre stato così:
il tema del dono - prima che il MAUSS (Movimento Anti Utilitarista
nelle Scienze Sociali) lo riscoprisse 20 anni fa dedicandogli diversi
numeri e numerosi articoli - non aveva, si può dire, alcun diritto di
cittadinanza nelle scienze sociali e nel dibattito politico, né
godeva di buona stampa. Infatti, lungi dall’essere considerato come
il fondamento dei legami sociali, il tema del dono evocava piuttosto
le Dame di Carità, la beneficenza. L’attuale moltiplicarsi di libri
e articoli su questo tema mostra che la situazione è radicalmente
mutata.
Fra le pubblicazioni in francese che conosco meglio, possiamo citare
Alain Caillé, ovviamente, e Jeacques Godbout., che è anche
abbastanza conosciuto in Italia, ma anche Jeacques Derrida, un
filosofo che al dono ha dedicato un libro. E poi Jean-Luc Marion,
Maurice Godelier, Michael Singleton, Emanuel Levinas, Guy Nicolas,
ecc. Anche fra gli anglosassoni si possono menzionare, fra gli altri,
Mary Douglas, Kris Gregory, ecc. In Italia ci sono molte traduzioni e
anche alcuni libri originali. Non li conosco tutti, ma conosco un
libro di Pier Paolo Donati, di Bologna.
Alla questione, si sono interessate anche alcuni economisti come
George Akerlof, ecc.
È come se l’invasione, la retorica, e l’inflazione editoriale del
tema del dono, fossero esattamente proporzionali a quelli del mercato
nel contesto di una mondializzazione, che non è altro che la totale
mercantilizzazione del mondo.
Il dominio dell’universo mercantile sulla sfera non mercantile è
ben illustrato dall’ultima opera di Jeacques Godbout sul dono, che
ha mostrato che il sistema ospedaliero canadese, fino ad anni recenti,
era dominato dal volontariato e i salariati provocano addirittura un
certo imbarazzo, sentivano il bisogno di giustificare il loro salario.
Oggi è completamente differente: un volontario che opera nel settore
ospedaliero è potenzialmente considerato come uno che usurpa il
lavoro del salariato. Il principio dominante non è più lo stesso.
Siamo in presenza di un paradosso sul quale vale la pena di
interrogarsi. Ma anche siamo in presenza di un abbozzo di risoluzione
di un’impasse sul quale ci siamo cacciati.
Allora ho diviso la mia relazione in due parti: la prima parte:
"L’onnipresenza paradossale del dono", la seconda:
"Il carattere sovversivo dello spirito del dono".
1. L’onnipresenza paradossale del dono
Questa presenza del dono tanto nel Nord quanto nel Sud
è paradossale. Perché è paradossale? Perché il dono è presentato,
generalmente, come un retaggio pre-moderno, una cosa arcaica. Per quel
che riguarda il Sud, è vero che da decenni gli esperti di sviluppo
criticano i legami di solidarietà, le spese ostentatorie, la scarsa
monetarizzazione del mondo rurale, l’assenza di dinamica, di
creazione di bisogni nuovi, l’insufficienza della produzione per la
vendita. Tutte queste cose vicine allo spirito del dono costituiscono,
secondo alcuni autori, resistenze arcaiche al libro gioco dei
meccanismi naturali, cioè dei meccanismi del mercato. Freni
insopportabili all’accumulazione produttiva del capitale e blocchi
inammissibili al sacrosanto sviluppo e al sacrosanto libero mercato,
libero scambio.
Or dunque: non è sicuro che l’onnipresenza del dono nelle società
africane sia soltanto una sopravvivenza provvisoria. La
scoperta dell’altra Africa, per riprendere il titolo del mio
libro, ci interroga su questo punto. La sopravvivenza di questo
Pianeta Nero fa supporre che vi regni solo la miseria: chiunque ci
rifletta in buona fede non può fare a meno di porsi la questione del
mistero di questa sopravvivenza. Si tratta di un problema sia
teorico che pratico.
Bisogna proprio constatare che questa terra africana alla deriva - il
cui prodotto interno lordo rappresenta, per quanto possa sembrare
ridicolo, meno del 2% del PIL planetario - conta circa 800 milioni di
persone. Non tutte sono scheletri famelici sfuggiti ai campi della
morte; non tutte vivono della sola carità internazionale. Questi
naufraghi dello sviluppo non sono indiani confinati in una riserva
conservati come le specie in via di estinzione a testimonianza di un
passato ormai finito per sempre.
C’è dunque, accanto all’abbandono dell’Africa ufficiale,
accanto alla decrepitezza dell’Africa occidentalizzata, un’altra
Africa ben vivente, se non in buona salute. Questa Africa degli esuli
dell’economia mondiale e della società planetaria, continua non di
meno a vivere e a voler vivere anche contro corrente. Quest’altra
Africa non è quella della razionalità economica: se il mercato vi è
presente non vi è onnipresente, non è una società di mercato nel
senso di una società "tutto mercato". D’altra parte non
si tratta nemmeno più di un’Africa tradizionale, comunitaria, se
mai questa è mai esistita. È un’Africa di bricolage, dell’arrangiarsi,
in tutti i campi e a tutti i livelli, tra il dono e il mercato. Tra i
rituali oblativi e la mondializzazione dell’economia. Per aver perso
la battaglia economica, l’Africa ha forse definitivamente perso la
guerra delle civiltà? Questa è la domanda. Penso di no: l’economia
è stata sconfitta, ma la società è sopravvissuta a tale disfatta.
Ciò significa che le funzioni che noi attribuiamo alle istanze
tecnica ed economica, la cosiddetta produzione delle ricchezze, sono
state in ogni caso assunte, bene o male, dalla società.
La spiegazione più plausibile è dunque che l’economia e la tecnica
sono confluite di nuovo nel sociale, sono state reincorporate", reinbedded.
Questo si vede sia nel fenomeno dell’economia informale, che nella
persistenza della solidarietà quotidiana.
Le Afriche dunque, attraverso la loro diversità, rappresentano un
caso certo complesso ma esemplare di incorporazione parziale dell’economico
nel sociale. Ciò che chiamiamo "economia informale" e che
in realtà è una vera società vernacolare o neoclanica, come scritto
nel mio libro, è la migliore illustrazione di questo fenomeno. Al di
là della pluralità, della pluri-attività e della non
professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai collegati,
come si chiamano a Grand Yoff, alla periferia di Dakar e che ho
studiato nel mio libro, è l’importanza attribuita al tempo, all’energia
e alle risorse destinate ai rapporti sociali. Anche se vi si osserva
una attività intensa, sarebbe improprio, nella maggior parte dei
casi, parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti,
le discussioni, prendono molto tempo: dare e prendere in prestito;
donare e ricevere; aiutarsi reciprocamente; fare una ordinazione;
consegnare; informarsi… occupano gran parte della giornata senza
parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno, gioco.
Come osservava un padre gesuita un po’ stregone - un nganga,
come si dice in Africa - Eric de Rosny che vive a Douala, nel Cameroun:
"La festa occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi
finanziari della popolazione". Tutti gli economisti lo dicono. Ma
questa festa è appropriata ai bisogni affettivi di questa
popolazione. L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai
collegati piuttosto di quello di essere un creditore che ci
rimette sempre.
Ora, come Jacques Godbout ha finemente osservato nel suo libro Lo
spirito del dono, se il dono funziona bene ciascuno degli attori
ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il
sistema funziona male, ciascuno ritiene di aver ricevuto di meno. È
come una coppia: quando funziona bene ciascuno dei due sposi, pensano
di ricevere più, ma quando uno pensa di dare più che ricevere,
allora il divorzio non è molto lontano.
Anche se qui non abbiamo il tempo di sviluppare tutto quello che ho
scritto nel mio libro L’Altra Africa sul funzionamento della
società vernacolare, su questa società neoclanica, non sarà
comunque difficile riconoscervi una logica molto diversa dalla logica
mercantile. È la logica del dono e dei rituali oblativi. Come
dovunque, il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma qui
lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato.
Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e
restituire così come lo analizza Marcel Mauss, famoso sociologo
francese. La cosa centrale, fondamentale in questa logica del dono è
il fatto che il legame sostituisce il bene. Risulta chiaramente a
questo punto che dire che nella società vernacolare l’economia è
re-incorporata nel sociale o dire che l’economia neoclanica funziona
secondo le logiche del dono significa dire la stessa cosa: le due
formulazioni sono del tutto equivalente.
Allora, questo funzionamento della società vernacolare si iscrive
nella persistenza, o meglio nel riemergere di una certa solidarietà
africana. Le società africane hanno ignorato a lungo l’individualismo
e continuano in buona misura a farlo, nonostante fortissime spinte dei
processi di individuazione.
L’imperialismo del sociale si manifesta attraverso l’importanza
dei rapporti di parentela. La parentela si estende non solo al gruppo
famigliare allargato, ma serve da stampo nel quale si prendono forma i
rapporti di amicizia, di vicinato, di associazione sportiva,
culturale, politica, religiosa addirittura i rapporti di lavoro e le
forme di potere. Essa è riattivata e rafforzata dalle cerimonia, dal
culto degli antenati, dai legami con la terra, dai rapporti con il
mondo dell’invisibile. Tutto ciò genera la famosa solidarietà
africana che non ha veramente equivalente altrove.
Questa solidarietà polimorfa resiste anche all’emigrazione e la si
può osservare fin nelle periferie delle grandi città: Parigi, ma
anche Roma, Bologna, ecc. Presso i maliani, i senegalesi, con l’ospitalità
obbligatoria per i fratelli, fratelli nel senso africano che è molto
allargato; con le rimesse che fanno vivere la famiglia rimasta in
patria; con le collette per costruire la moschea o la scuola nel
villaggio.
Questa fortissima pregnanza del sociale permette di rompere l’isolamento
e l’incognito. Nei casi più difficili essa è letteralmente ciò
che permette di resistere, di sopravvivere. Essa è anche la causa del
successo della specificità della società vernacolare africana. Gli
obblighi di donare, di ricevere e di restituire intessono i legami tra
gli uomini e gli dei, tra i vivi e i morti, tra i genitori e i figli,
tra i fratelli maggiori e i cadetti, tra i sessi, all’interno delle
classi di età, ecc. ecc.
Essi piegano fortemente le cosiddette leggi del mercato; limitano i
guasti dei rapporti mercantili; assicurano un minimo di garanzia
contro l’esclusione economica e sociale.
L’economista antiutilitarista constata quindi che il mercato
assoluto non esiste. In altri termini: il fondamento dello scambio
sociale non è e non può essere il mercato. Fondamentalmente il
rapporto sociale non si basa e non può basarsi sulla legge della
domanda e dell’offerta.
Certo, l’interesse è presente anche nei rituali oblativi, come nei
rapporti domestici. Ma ciò che interessa all’economista critico non
è dimostrare che il dono assoluto, la gratuità integrale non
esistono ma, al contrario, è mostrare che l’interesse, nel senso
stesso del calcolo economico, non è né esclusivo né onnipresente.
In breve il dono esiste e ciò può allentare la stretta dell’imperialismo
economico.
Le osservazioni dell’antropologo Guy Nicolas, in un libro che è
stato tradotto dalla Bollati Boringhieri, a proposito degli Haussa del
Niger che lui ha studiato e che chiama "i mercanti per
eccellenza" sono completamente trasferibili a tutta l’Africa e
si possono riprendere in parte le sue analisi.
Lungi dallo scomparire con l’irruzione della modernità, i rituali
oblativi conservono tanta più importanza in quanto rappresentano per
una società un modo di preservare la propria identità pur
inserendosi, per amore o per forza, nel mercato mondiale.
Scrive Guy Nicolas: "Le pratiche oblative in piena trasformazione
da noi osservate, non erano vestigia di un passato arcaico, ma una
risposta moderna a minacce contemporanee che mettono in gioco la
permanenza dell’identità di questa società. Esse avevano una
funzione politica manifesta, attestavano inoltre l’efficacia della
funzione simbolica, in quanto principio di base dello scambio
interumano contrapposto a quello del mercato. Egli precisa: è come se
una sorta di comprensione spontanea dei pericoli che essa corre [la
funzione simbolica n.d.r.) a causa del fascino esercitato su di lei
dalla moneta e dai beni di importazione, la portasse ad annullare
questi ultimi snaturandoli, trasformandoli in puri gettoni di
comunicazione: infatti sono proprio i soldi e il loro potere che
minacciano più direttamente le basi della organizzazione collettiva,
a cominciare dalla parentela. È per procurarsene che la sposa si
allontana dai legami del matrimonio, che il figlio abbandona il padre,
che il suddito si rifiuta di giurare fedeltà e che il signore multa
il suo cliente, il salariato, o lo spoglia. È perché alcuni vogliono
possederne di più che altri muoiono di fame e di miseria: situazione
impensabile in una collettività africana tradizionale.
Il ricorso al dono appare nello stesso contesto come la manifestazione
di una volontà di resistenza al potere esterno utilizzando le risorse
del rito oblativo al fine di opporre a tale potere un contropotere
popolare il quale impedisca al primo di realizzare i suoi fini ultimi,
cioè la distruzione di ogni quadro sociale estraneo al mercato e la
proletarizzazione totale delle popolazioni locali in vista di un loro
inserimento sul mercato in quanto produttori o consumatori, isolati,
atomizzati e concorrenti all’interno di un ordine omologante. Egli
conclude: il gioco oblativo ha acquisito pertanto un carattere
sovversivo e la consuetudine serve al produttore per mantenere un
contropotere. Osservazioni recenti sulle cerimonie di donne di Dakar
confermano assolutamente questa analisi, i rituali oblativi si
trasformano ma si mantengono e a volte si rinforzano.
A questo punto, a fianco dell’importanza del dono nei Paesi
sottosviluppati come forma di resistenza, all’imperialismo dell’economico
e del mercato, è interessante parlare della riscoperta del dono da
noi, in Occidente. Si può parlare di un’importanza sommersa del
dono che costituisce lo zoccolo della socialità primaria.
Non ci si è accorti finora che le osservazioni sul dono sono sempre
opera di persone estranee alla società interessata e che non
disponiamo di osservazioni etnografiche sistematiche sulla nostra
società. È evidente che il dominio mitico dell’economia ci rende
opaca l’onnipresenza, anche da noi, del dono. E non meno certo che
questa pregnanza dell’economico ci spinge ad essere più sensibili
al dominio del dono nelle società primitive e anche nelle società
tradizionali o nelle società moderne esotiche, come quelle di cui ho
parlato, gli haussa, i senegalesi, ecc.
L’esperienza della ospitalità mauritana, della quale ho parlato nel
mio libro L’altra Africa, e della società vernacolare mi ha
fatto prendere coscienza dell’importanza del dono in una società
straniera e arcaica, tra virgolette, per certi aspetti. Tuttavia,
anche qui in Africa, i miei interlocutori locali con i quali parlavo
di queste scoperte rimanevano scettici. Lo sguardo che portavano sulla
loro società non era molto diverso dal modo in cui noi consideriamo
la nostra. E questo tanto più in quanto fortemente occidentalizzati
gli intellettuali africani sono già molto toccati dalla propaganda
economica e tengono molto a mettere in risalto la modernità del loro
Paese. I rapporti mercantili e la legge della domanda e dell’offerta
sembrano loro la realtà economica dominante e l’economia del dono
un aspetto marginale, possiamo dire folcloristico, tutt’al più una
sopravvivenza, un insieme di buone maniere al di fuori della economia.
Non sembrava loro che questi rapporti di dono fossero diversi dai
nostri rituali di cortesia, con mazzi di fiori alla padrona di casa e
i regali di compleanno. Tutt’al più tendono trovarci tirchi,
meschini, individualistici non molto generosi. Riconoscono tuttavia,
non senza reticenza, che una parte importante di beni e servizi
circola al di fuori della sfera mercantile ma rimangono perplessi di
fronte a questa "economia non economica" e di fronte alla
coesistenza di quella realtà con le altre dure realtà della economia
monetaria.
Ciò pone a noi occidentali un interrogativo sulla nostra realtà,
nonché sul posto che vi occupa il dono e sul significato dell’economia
di cui siamo portatori.
Una parte considerevole della nostra morale e della nostra vita
risiede tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e insieme
della libertà. Osservava già Marcel Mauss, in conclusione dell’Essai
sur le don. E continuava, nella stessa vena, compiacendosi dell’esistenza
di persone e classi che conservano i costumi di un tempo ecc.
Questo riconoscimento da parte di Mauss dell’attualità del dono è
importante e interessante ma resta viziato dal sospetto di
evoluzionismo. Si tratta per lui soltanto di un retaggio da
considerare con nostalgia e non di un principio attivo sempre vivente.
Ma il dono e la sua logica sono stati sempre ben presenti nella
realtà occidentale. Alain Caillé ha a lungo insistito sul fatto che
tutta la base della socialità primaria si forma sul dono. Lui la
presenta così: Stato, mercato, scienza sono istituzioni reali
addirittura le istituzioni chiavi dell’ordine sociale moderno.
Tuttavia non incarnano affatto la società nella sua interezza, anzi
formano lo spazio di quella che proponiamo di chiamare socialità
secondaria in cui le relazioni tra esseri umani e sociali non sono
relazioni tra persone ma tra funzioni e in cui esse sono subordinate
ad un’esigenza di impersonalità, sia che questa prenda la forma di
uguaglianza davanti alle leggi dello Stato, sia che abbia la forma di
equivalenza sul mercato economico o quella della oggettività
scientifica. Ma sotto questa forma di socialità secondaria, a monte e
a valle, sopravvive nella società moderna, come in ogni società un’altra
società: quella della socialità primaria, quella dei rapporti
tra persona e persona e in quanto tale soggetta all’esigenza della
personalizzazione. È nel registro di questa socialità che si
sviluppano le alleanze, le parentele, la famiglia e quindi i rapporti
di vicinato, l’amicizia e buona parte della vita associativa.
Niente famiglia, niente riproduzione delle generazioni, niente
cittadinanza, perfino nessun spirito di corpo nei collettivi di lavoro
senza farvi ricorso. Anche Marcel Mauss invocava questa socialità
primaria contemporanea. Ne abbiamo un esempio nella vita di famiglia
attuale anche senza aver bisogno di risalire alle famiglie di tipo
gruppo politico domestico. Viviamo gli uni con gli altri in uno stato
al tempo stesso comunitario e individualistico, di reciprocità
diverse, di buoni servizi resi reciprocamente, alcuni senza spirito di
ricompensa altri con ricompensa obbligatoria, altri ancora a senso
rigorosamente unico poiché dovete fare per vostro figlio quel che
avreste desiderato che vostro padre facesse per voi.
Malgrado questa dichiarazione di Mauss provenga da un testo posteriore
al Saggio sul dono, egli non ne trae ulteriori conseguenze. Al
catalogo già impressionante delle sopravvivenze del dono
stabilito dagli autori evocati si possono aggiungere ancora alcune
osservazioni più personali per esempio sulla vita mondana, o sul
militanza. I sentimenti generosi non restano pure disposizioni, essi
nutrono interventi pratici importanti. La militanza politica,
umanitaria, sociale, religiosa è proprio il rimborso di un debito.
Questi buoni sentimenti si scambiano in raccolte di fondi,
partecipazioni a dei congressi - come questo - contributi, oboli,
versamenti di ogni sorta. Bisogna manifestare la propria solidarietà,
il proprio desiderio di fare qualcosa, di trasformare il mondo, di
lavorare ad un mondo altro più giusto, ecc. ovvero per l’Altro
mondo.
L’attivismo, l’impegno sono doni e controdoni. Ciò che nutriva i
gruppi o le sette di ieri, oggi ispira le Ong - tra l’altro
ribattezzate da poco Organizzazioni di Solidarietà Internazionale -
che si contano a migliaia. Fioriscono sullo stesso terreno. Le somme
destinate a questi investimenti dai rientri incerti, dalle scadenze
imprevedibili, sono lungi dall’essere trascurabili. Ci sarebbero in
Francia, secondo varie stime, circa 3 mila Organizzazioni Non
Governative di ogni dimensione, animate da 25 mila militanti, dotate
complessivamente di risorse vicine ad 1.300 milioni di franchi. Essi
costituiscono tuttavia soltanto la parte economicamente più visibile
di questa vasta economia invisibile. Un collaboratore del MAUSS ha
potuto quantificare il peso economico di queste risorse in tre quarti
del prodotto interno lordo francese. Nel Canada, secondo statistiche,
il valore monetario del lavoro non remunerato, incluso il settore dei
legami primari e quello del dono agli stranieri, rappresenta il 34%
del PIL. È degno di nota che questa stima non è inferiore alle stime
minuziose di Guy Nicolas sui rituali oblativi degli haussa del
Niger: questi ultimi rappresenterebbero circa un terzo delle spese e
dei ricavi nei bilanci degli attori. Per la Mauritania, secondo le mie
osservazioni, si otterrebbero cifre dello stesso ordine.
Così più di un terzo dell’economia sarebbe inclusa in un Terzo
settore, cioè al di fuori dello Stato e del mercato.
È noto che per rinforzare il loro debito nei confronti del Sole, gli
Aztechi gli offrivano il cuore palpitante di vittime a metà
consenzienti. Tutto lo sforzo dell’Occidente per negare l’esistenza
di un debito non sta forse per crollare di fronte al ritorno del
rimosso, stimolato dalla moltiplicazione delle catastrofi ecologiche e
dal profilarsi di minacce ben precise? Questa è la domanda.
Eccoci così giunti alla seconda parte del mio discorso.
2. Il carattere sovversivo dello spirito del dono.
Questa riscoperta recente del dono tanto nel
funzionamento della socialità primaria quanto come concetto teorico
che poteva far fronte al mercato mi sembra fondamentale nel momento
del trionfo esclusivo del capitalismo mondiale e del dominio arrogante
del liberismo economico.
Essa favorisce lo sviluppo di rimedi ai danni generati al sistema.
Tuttavia questi rimedi non sono privi di ambiguità. Consideriamo le
soluzioni proposte per combattere l’esclusione. Ricerche accurate
proverebbero senza ombra di dubbio la presenza dello spirito del dono
a fianco della società primaria in numerosi altri settori della vita
economica. Anche nel 21 Secolo la vita non è un gigantesco
supermercato, non è vero. L’insieme dei mercati non forma ancora,
fortunatamente, il Mercato la M maiuscola. Tuttavia la convinzione che
tutto si vende e tutto si compra produce gli effetti di una profezia
autorealizzantesi. È presso gli esclusi o presso coloro che con essi
sono solidali che si produce un comportamento reattivo: aspirazione a
ritrovare un po’ d’altruismo in una società senza pietà,
necessità di sostenersi a vicenda per resistere in appoggio agli
svantaggiati. Tutta l’economia solidale e l’economia cosiddetta
plurale si scrivono in questa riscoperta dello spirito del dono e
della necessità di aggiungere un supplemento di anima al mercato. I
sistemi di scambio locale sono un esempio interessante e
caratteristico di questa ricerca di un’alternativa.
Di che si tratta? I sistemi di scambio locale sono associazioni in cui
membri scambiano, al di fuori dal mercato e in base ad una moneta
appositamente creata e valida all’interno del gruppo, beni e servizi
di ogni genere. I prodotti scambiati vanno da lavori di riparazione
domestica, o di automobili a servizi di baby-sitter, passando
per corsi di lingua, massaggi, fornitura di ortaggi, prestito di
utensili, e ovviamente tutta la gamma di prodotti di seconda mano.
Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore
centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la
posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così persone escluse
dal lavoro le cui competenze sono state respinte dal sistema di
mercato possono ritrovare forme di attività e, quel che è forse più
importante, di riconoscimento sociale e al medesimo tempo complementi
di risorse non trascurabili.
Questi sistemi di scambio locale sono nati in una
società individualista. Il loro padre è rappresentato dai LETS (Local
Exchange Trade System) sorti nel mondo anglosassone, razionale e,
com’è noto, protestante. Il lato molto formale e in una parola
puritano di questa organizzazione contrattuale, democratica con tutta
la sua sottintesa trasparenza, senso del dovere, serietà di spirito -
tutte le incontestabili qualità dei nostri vicini d’oltre Manica -
non è in sintonia con lo spirito latino, più caldo, certo, ma anche
più clientelare meno scrupoloso, e certamente molto indisciplinato.
Benché anche nei LETS i partecipanti mettano l’accento sull’arricchimento
personale e sulla rottura dell’isolamento, l’obiettivo
utilitaristico resta prioritario.
I membri dei sistemi locali di scambio locali francesi, mi sembra
vanno più in là dei loro cugini anglosassoni: hanno subito collegato
la loro pratica allo spirito del dono. "La cosa più importante
del SEL" (Système d’échange local) - dichiara una
madre di famiglia - "sono gli incontri: ho conosciuto persone che
altrimenti non avrei mai frequentato". Per la maggior parte dei
membri dei SEL il legame è più importante del bene. Esattamente
secondo la logica del dono. C’è convivialità grazie alle riunioni,
alle fiere dei SEL. Sono occasioni di festa e costituiscono momenti
importanti della vita sociale così come le innumerevole feste degli
abitanti di Grand Yoff, questa grande periferia di Dakar che ho
studiato nel mio libro L’altra Africa. Questa aderenza alla
trilogia del dono, dare-ricevere-restituire, lo zoccolo duro delle
società olistiche, non è assolutamente evidente in un’organizzazione
che per prima cosa inventa una moneta di scambio e regola i suoi
movimenti col computer.
Così facendo i Sel devono fare i conti con la sanzione per gli abusi.
"Credo molto di più al controllo sociale" - dichiara uno
dei fondatori Alain Bertrand, animatore del primo SEL francese -
"Ci si conosce tutti. Chi si azzarda a indebitarsi senza
restituire i servizi dovuti alla collettività, sarebbe messo all’indice
dai suoi vicini". Lo studio di un italiano, un libro che è
uscito recentemente di cui ho fatto la prefazione, Paolo Coluccia, La
banca del tempo - Un’azione di solidarietà e di reciprocità,
analizza una delle forme più affascinanti della creatività popolare:
quella delle piccole comunità di scambio di beni, servizi, tempo e
saperi. Mostra tutti i vantaggi che tali iniziative possono apportare
per preservare e ricostruire il tessuto sociale di prossimità. L’inchiesta
che lui fa sulle banche del tempo italiane è piena, ricca di
particolari concreti.
Essa è completata da un panorama suggestivo delle esperienze
comparabili negli altri Paesi. Informazioni sulle esperienze certo di
importanza ineguale come quella di ITHACA negli Stati Uniti, i Tauschringe
tedeschi, i Sistemi di scambio locale francesi (SEL), i LETS in
Gran Bretagna e anche i SEC (Systèmes d’échanges communautaires)
in Senegal, questi ultimi fatti ad imitazione dei SEL francesi. È una
cosa molto interessante perché in una certa misura i SEC
rappresentano l’imitazione di una creazione popolare africana che
dopo è tornata in Africa in altra forma.
Tutte queste informazioni forniscono dati preziosi sulla storia, sul
funzionamento e sul vissuto di queste micro-società .
Ma tutto questo non è privo di ambiguità: c’è una ambiguità
della sovversione. Prendiamo il problema della portata del fenomeno e
del suo significato. Esso si limita a ricreare rapporti di buon
vicinato nelle zone di esclusione? La dimensione sociale di queste
esperienze non deve mascherare il loro eventuale effetto sovversivo
globale.
Si può attribuire ai vari LETS, SEL, banche del tempo, ecc. l’ambizione
non solo di rattoppare un tessuto sociale che si lacera ovunque e di
prolungare l’agonia di una megamacchina ingiusta e contraddittoria
che corre irrimediabilmente verso al catastrofe, ma anche di
costituire un vero e proprio laboratorio volontario del futuro
paragonabile a quello involontario delle cittadine di periferia
africane. In entrambi i casi si tratta di embrioni di società
alternativa alla modernità al di là del cataclisma dello sviluppo.
Bisogna riconoscere che i discorsi sull’economia plurale e, più in
generale, attorno a questo tipo di logica associativa per mezzo della
quale si pensa di risolvere le contraddizioni sociali attraverso l’impiego
di virtuosi dispositivi tecnici ed un appello alla buona volontà, non
si muovono su una linea veramente alternativa. Si tratterebbe di una
economia articolata su tre poli: il mercato, lo Stato ed un polo di
reciprocità. Questi poli corrispondono ai differenti principi di
organizzazione della società: il principio di mercato, il principi di
ridistribuzione e il principio di reciprocità.
È il loro riconoscimento ed è la loro ibridazione che, secondo
Jean-Luis Laville (un sociologo francese, anche lui tradotto da
Bollati Boringhieri), permettono di pensare la nozione di economia
plurale in opposizione al principio di unicità del mercato.
La costruzione sociale della struttura associativa che in condizioni
particolari tiene insieme e ibrida volontari, utenti e istituzioni,
ovvero reciprocità, mercato e Stato rappresenterebbe la possibilità
di reincarnare l’economia nella società.
Ora, con il capitalismo, con l’avvento del mercato come principio
sociale, si determina una vera rottura che fa della società una
società di mercato che assorbe o sussume gli altri principi. L’insieme
della vita sociale è sottoposta alla legge economica e alla pretesa
che il lavoro, la moneta e la natura, divengano merci.
Con la riaffermazione del liberismo nel corso degli anni ’80 il
mercato si presenta esattamente come astratto principio unico di
organizzazione sociale.
Il problema non consiste dunque in un eccesso di crescita economica
che si tratterrebbe di ricondurre a giuste proporzioni mediante la
costruzione di corpi intermedi tra mercato e Stato - come il
cosiddetto Terzo Settore o l’economia plurale - ma è la forma
stessa della società che diventa economia. È una forma di
socializzazione che si impone a tutta la società con una violenza
tanto più legittima quanto più appare generata dalla necessità.
L’economia non si sviluppa contro o fuori dalla società. Essa
piuttosto la ingloba e procede alla sua riorganizzazione secondo la
logica dell’efficienza. In tal senso la possibilità di
reincorporare l’economico nel sociale, cui sopra si è accennato,
resta problematica fin tanto che noi resteremo all’interno di questo
immaginario economico.
Assistiamo infatti ad una situazione paradossale: il ritorno del dono
può essere rivendicato con una certa verosimiglianza dagli
ultraliberisti. In effetti, smantellando lo Stato sociale, Margaret
Thatcher, e Ronald Regan non hanno rinunciato a fare appello allo
spirito di solidarietà dei loro concittadini per porre rimedio alle
insufficienze del mercato, ciò che gli economisti chiamano Market
Failure (fallacia economicista).
Certo, questa posizione non cessa di essere paradossale, poiché la
regolazione attraverso il mercato si fonda sulla fede nella armonia
naturale degli interessi e dunque sulla esaltazione dell’egoismo.
Come giustificare l’altruismo che autorizza la ritirata dello Stato?
D’altra parte i socialdemocratici devono affrontare un paradosso in
qualche modo simmetrico: lo stato sociale si base sulla affermazione
della necessaria solidarietà dei cittadini e si riallaccia ad una
visione altruista dell’uomo. Solo che rendendo obbligatorio il
finanziamento della previdenza sociale si impedisce allo spirito del
dono di manifestarsi.
In realtà, se lo Stato sociale rivendica la giustizia e non la
carità ciò implica certamente uno spirito del dono. Ed è infatti
questo spirito del dono che serve da fondamento alla solidarietà e
alla condivisione che presiedono alla previdenza sociale, agli assegni
famigliari, alla indennità di disoccupazione, alle pensioni sociali
ecc.
Tutte queste situazioni in effetti sono fondate su una relativa ma
reale mutua condivisione delle risorse di fronte ai rischi, secondo la
massima, "tutti per uno, uno per tutti".
Questo sistema costituisce il fondamento della moderna cittadinanza,
equivalente dell’antica filia, l’amicizia aristotelica. La
mondializzazione ultraliberale smantellando questo sistema, libera il
dono tanto nella forma della carità quanto come base necessaria di
una ricostituzione del legame sociale.
Il problema centrale è proprio una questione di
"immaginario": mi sembra che ci sia una contraddizione
insormontabile tra l’immaginario economico in cui siamo immersi e l’immaginario
che implica l’espansione di una autentica economia plurale, se noi
vogliamo che quest’ultima abbia una qualche consistenza.
Si tratta allora di pensare la compatibilità tra i tre poli della
triade scambio-ridistribuzione-recipricità. Come l’etica della
guerra economica ad oltranza può coesistere con l’etica della
solidarietà, della gratuità e del dono che dovrebbe animare il mondo
dell’associazionismo, con l’austerità della cittadinanza e l’uguaglianza
fraterna implicate dallo Stato democratico? Come possa trovar posto
alla Corte dei Grandi, fra i vari Bill Gates e soci?
Il gioco economico è fatto di darwinismo sociale accompagnato dalla
morale: "occhio non vede, cuore non duole", e i cui
ingredienti sono le offerte pubbliche di acquisto selvaggio, lo
spionaggio industriale, l’evasione fiscale di massa, la corruzione
attiva e passiva, mescolata ad un’etica protestante che sboccia
nella buona governance imposta dai fondi di pensionamento.
Questo gioco in ogni caso si fa sulle spalle dei lavoratori salariati
ed attraverso la strumentalizzazione di massa dei consumatori. L’etica
della solidarietà e della cittadinanza egualitaria sono con assoluta
evidenza condannati a restare la cattiva coscienza dell’etica degli
affari. Non si tratta di fare le verginelle timide ma il confronto
anche conflittuale non può esistere che nell’ambito di un rapporto
di forza relativamente equilibrato non certo in una giungla senza
principi. Come ci accingiamo a crescere i nostri figli e a fabbricare
i futuri attori della società del domani? Quali di queste morali ci
troveremo ad ascoltare e ad approvare con il plebiscito dell’Auditel
alla TV? Il successo recente in Francia di Love Story e altri Reality
Show non è di buon auspicio. La verità è che con il trionfo
della società del mercato e l’apoteosi della guerra economica viene
a mancare lo spazio per il dialogo, per un confronto pacifico tra
queste etiche. Persino la ridistribuzione, non necessariamente
altruista - e certamente conforme agli interessi a lungo termine delle
multinazionali - finisce per essere svalutata, schernita e
marginalizzata. I governi socialisti difensori naturali dei servizi
pubblici, partecipano allegramente al fatto che questi stessi vengano
fatti a pezzi e si rendono complici di un pensiero unico che tratta
come un cane rognoso i sistemi di pensione sociale, pur conformi al
buon senso e alla giustizia, per attuare invece fondi di pensionamento
all’americana.
In queste condizioni un vero ri-assorbimento, come dice Arnoud
Berthoud, dell’economico nel sociale non consisterebbe né in un
bricolage teorico e pratico con l’aggiunta di uno o due altri
settori, né in una buona volontà socialisteggiante. Il non
economico, la reciprocità, la ridistribuzione, il non mercantile in
un contesto di mercantizzazione totale del mondo rimangano totalmente
sottomessi all’immaginario mercantile.
Un vecchio proverbio che a me piace molto dice che quando si ha un
martello in testa si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi.
Gli uomini moderni si sono messi un martello economico nella testa:
tutte le nostre preoccupazioni, tutte le nostre attività, tutti gli
avvenimenti sono visti attraverso il prisma dell’economico. Non
succedeva così per esempio nel Medio Evo, quando tutto era piuttosto
immerso nel religioso - forse non era meglio ma era differente - né a
maggior ragione presso i greci che tendevano a ridurre ogni cosa al
politico filosofico e più ancora tra le popolazioni cosiddette
primitive per le quali i rituali e la parentela costituiscono la prima
preoccupazione. Finché il martello economico rimarrà nelle nostre
teste, questi tentativi di riforma saranno un vano e spesso pericoloso
agitarsi.
Come pensare che oggi possa bastare un Terzo settore per consentire
alla società di dominare nuovamente l’economia anziché esserne
dominata? Più che mai le miserie create, le crepe e le minacce che
appaiono nel corpo sociale, rendono necessarie misure di difesa e di
protezione della società per uscire veramente dalla Market Failure.
Occorrerà seguire la diagnosi del filosofo Cornelius Castoriadis:
abbiamo bisogno di una nuova creazione immaginaria di un’importanza
che non ha pari nel passato. Una creazione che ponga al centro della
vita umana significati diversi dall’espansione, della produzione e
dal consumo. Che proponga obiettivi di vita diversi tali da essere
riconosciuti dagli esseri umani come degni di sforzo. Questa è l’immensa
difficoltà che ci troviamo a fronteggiare: dovremmo volere una
società in cui i valori economici non siano più centrali o unici,
dove l’economia sia messa al suo posto come semplice mezzo della
vita umana e non come fine ultimo. Una società in cui si rinunci
dunque a questa corsa folle verso un consumo sempre crescente. Tutto
ciò è necessario non soltanto per evitare la definitiva distruzione
dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per liberarci dalla
miseria psicologica e morale propria degli uomini contemporanei. Non
si tratta dunque, e sarà la mia conclusione provvisoria, di bandire i
mercati o di escluderli, ma di limitare il mercato lottando contro l’evidenza
del suo spirito. E quindi in questo processo di liberazione delle
mondialità dall’economicismo, (dis-economicizzazione delle
mondialità) che un progetto di economia alternativa plurale e
solidale può acquistare senso e consistenza e non essere soltanto un
alibi, un’utopia, o, addirittura, un giochetto per ingenui. Non ci
si ritroverà più allora di fronte ad un tentativo di bricolage di
formule astratte (mercato, ridistribuzione, reciprocità), ma ad una
pratica ben contestualizzata di rifondazione. |