Un saggio di Krauss e Bois
L’informe persiste nel percorso dell’arte moderna
di Gian Luigi Verzellesi
Il percorso dell'arte moderna, così come si è
configurato alla luce dell'estetica settecentesca di Baumgarten e di
Kant, si mantiene fedele alla concezione dell'arte come forma: resiste
durante la difesa dell'Estetica del brutto (1853) svolta da Rosenkranz e
persiste nell'ambito dell'estetica novecentesca, sostenuta da Croce,
svolta da Brandi, Pareyson, Adorno... Quest'ultimo (nella Teoria
estetica pubblicata nel 1970) precisa: "ciò che un artista può dire, lo
dice solo col dare una forma", da non confondere con "ciò che l'artista
vuol dire", ossia con la sua intenzione, implicita o esplicita. Forma,
secondo Pareyson, è "la riuscita di un processo di formazione"
rilevabile in un'opera d'arte.
Queste conclusioni di ordine estetico sono state trascurate, e
contraddette, durante il secolo ventesimo, da artisti come Dubuffet e
Tapié: il primo ha aperto il discorso sull'informe (o Art Brut), il
secondo, nel 1951, ha difeso l'informel come "art autre", ossia come una
nuova specie d'arte, diversa da quella incentrata sulla forma. Da queste
radici ideologiche si sviluppa, in Europa e in America, con
denominazioni e caratteri diversi, la tendenza tipicamente novecentesca
verso un'arte sradicata dalla tradizione, obbediente all'inconscio,
avversa alla cultura e dunque devota all'antiforma.
"L'informe - precisa Rosalind Krauss - non è semplicemente una
cancellazione della forma ma un'operazione che disfa la forma, un
processo che genera una cattiva forma". Questa precisazione inquietante
si legge in un libro, intitolato L'informe (ed. Bruno Mondatori), in cui
la Krauss e Yve-Alain Bois offrono al lettore il frutto del loro
impegnatissimo lavoro, rivolto a spiegare la persistenza dell'informe
nella storia del modernismo, che risulta riscritta dai due docenti
(addetti ai lavori di storia dell'arte contemporanea a New York e a
Harvard) con l'intento di sottrarla alle consuete griglie di lettura
(formale e iconologica) e di sottoporla al vaglio dell'informe, così
come lo intendeva Georges Bataille (nelle voci del suo Dizionario): come
"un termine che serve a declassare", desublimare, far saltare le
gerarchie stabilite nell'ambito del modernismo prendendo posizione
contro l'"antica funzione catartica" dell'arte e a favore di un'arte
senza catarsi, rientrante nella scatologia come scienza dei rifiuti, che
si crogiola nel "disgusto come tale". Così nell'opera di Rauschenberg,
che, dal 1951 al 1955, "è una grande celebrazione del rifiuto non
dialettico, inarticolato": così nelle Combustioni di Burri, in certe
opere di Fontana e di Piero Manzoni, considerate da Bois come eccellenti
prove di feticismo materialistico, che non risponde più all'intento di
Dubuffet, di "riabilitare il fango" (1946), ma di trasformare in fango
la pittura declassandola. Come afferma la Krauss nel capitolo
conclusivo, il gusto dell'informe è costantemente rivolto a manifestarsi
"in termini di trasgressione della forma. È una forza investita nella
desublimazione".
È una specie di culto fiorente "in seno all'avanguardia americana
durante più di tre decenni" per opera di Pollock, Robert Morris, Warhol
e Cindy Sherman, che nelle fotografie sugli Antichi maestri si impegna,
con pungente diligenza, a desublimarli sghignazzando: come attesta la
foto costruita a dileggio della Fornarina raffaellesca e dei patiti di
Raffaello. E tuttavia - come risultato fotografico - molto meno peggio
di innumerevoli manufatti informi, sui quali la Krauss e Bois indugiano
sottilmente; quasi per confutare la massima di Toscanini: "non c'è
interpretazione illustre che possa rendere apprezzabile un'opera
inconsistente".
In realtà, gli artisti veri (pochi) parlano con le loro figure, fanno
sentire la loro voce (il loro idioletto); i ricercatori dell'informe
ciangottano oscuramente. Ma il loro ciangottare è diverso da quello dei
bambini, così ricco di inflessioni incantevoli, giustamente apprezzate
dai glottologi (oltre che dai genitori). Invece nei partigiani
dell'informe, la voce storpia le parole, le rende opache come suoni,
significanti, svincolati dal significato che li renderebbe
comprensibili. Ne risulta una sorta di insieme di rumori paragonabili a
cacofonie molto sgradevoli, lontanissime dall'armonia sonora di certi
uccelli canterini individuata da Konrad Lorenz, in passi indimenticabili
sulla sciama, "il più grande artista fra tutti gli uccelli canori".
Con la loro competenza scintillante, la Krauss e Bois, sapientissimi
avvocati, si dedicano alla difesa della "verve blasfema" di Bataille,
prediletto teorico dell'informe. E mirano alla riabilitazione degli
artisti più inclini ad abbandonarsi alle funzioni dell'inconscio: come
se davvero esistessero capolavori consistenti in detriti o deiezioni o
"sconcertanti raffigurazioni" (visibili, secondo Gombrich, nelle più
sensazionali opere di Pollock). Come sonno della ragione, l'inconscio
produce mostri; ma i mostri dell'informe, rispetto a quelli visualizzati
da Francis Bacon, permangono "in uno stato irrimediabilmente confuso" (Deleuze):
non danno figura alla "catastrofe", la rendono indecifrabile. Sono
prigionieri dell'estetismo dell'angoscia e talora finiscono nei giochi
insensati dell'arte che Arnheim chiama "semplicistica" o in tanti altri
giochi e giochini obbedienti alla regola del disordine puntualmente
predicata da Bataille con pervicacia maniacale. Anche Jean Arp, negli
anni trenta, si lasciò sedurre dall'informe; ma poi riconobbe che "un
ritorno a un ordine essenziale, a un'armonia è indispensabile per
salvare il mondo dal caos infinito". Sono parole dettate dalla
convinzione persistente negli artisti che lottano contro lo "sfacelo"
dell'emotività scatenata: perché sanno che, anche nell'ambito artistico,
"bisogna sempre di nuovo (così dice il motto del Warburg) liberare Atene
dai ceppi di Alessandria".
Martedì 6 Giugno 2006
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