La buona notizia di Ivan Illich
Il dopo-sviluppo e la decrescita come necessità della società
conviviale
di Serge Latouche
Bologna, 14 Giugno 2003
In un bel articolo intitolato "Ivan Illich ou la bonne nouvelle",
uscito nel giornale francese "Le monde" del 27/12/2002, Jean-Pierre
Dupuy scriveva :
"La bonne nouvelle est que ce n'est pas d'abord pour éviter les effets
secondaires négatifs d'une chose qui serait bonne en soi qu'il nous faut
renoncer à notre mode de vie - comme si nous avions à arbritrer entre le
plaisir d'un mets exquis et les risques afférents. Non, c'est que le
mets est intrinséquement mauvais, et que nous serions bien plus heureux
à nous détourner de lui. Vivre autrement pour vivre mieux".
Illich non ha usato esplicitamente, secondo la mia conoscenza, la parola
"decrescita", parola inoltre quasi non traducibile in inglese[1].
Tuttavia durante il convegno "Défaire le développement-Refaire le monde"
tenuto a l'UNESCO a Parigi in marzo 2002 e che fu la sua ultima comparsa
pubblica, mi sembra che l'hbbia implicitamente fatta sua.
Nel suo articolo, Jean-Pierre Dupuy ricorda che già negli anni 70,
Illich aveva mostrato che la nostra crescita e il nostro sviluppo non
sono sostenibili. Nel suo ultimo libro "Quand la misère chasse la
pauvreté", Majid Rahnema, lo richiama anche lui, evocando il testo di
Ivan, "Liberer l'avenir"(1971)[2].
Perché lo sviluppo e la crescita non sono sostenibili? O come dice
Jean-Pierre Dupuy, perché "notre de mode de vie est à terme
irrémédiablement condamné"? La risposta è semplice.
La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di
carico della terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come
l'americano medio, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente
superati[3].
Se si prende come indice del "peso" ambientale del nostro stile di vita
"l'impatto" ecologico di questo sulla superficie terrestre necessaria,
si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell'equità
rispetto ai diritti di prelievo sulla natura, sia da quello della
capacità di rigenerazione della biosfera.
Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per
assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi, e a ciò
si aggiunge l'impatto ambientale e delle infrastrutture necessarie, i
ricercatori che lavorano per il World Wild Fund (WWF) hanno calcolato
che lo spazio bioproduttivo dell'umanità è di 1,8 ettari a testa, mentre
un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese
7,2, un europeo medio 4,5.
Siamo dunque molto lontani dall'uguaglianza planetaria è più ancora da
uno stile di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi a 1,4
ettari, ammesso che la popolazione attuale resti stabile[4].
Queste cifre si possono discutere, ma esse sono sfortunatamente
confermate da un numero considerevole di indici. Come richiama ancora
Jean-Pierre Dupuy, le risorse del pianeta sono in via di esaurimento e
il clima in via di deregolamento a causa dell'effetto serra.
Ma se l'insostenibilità della crescita e dello sviluppo sono una buona
notizia è sopratutto perchè non sono auspicabili e non lo sono per
almeno tre ragioni:
1 generano una crescita delle diseguaglianze e delle ingiustizie mai
vista.
2 Creano un benessere largamente illusorio,
3 Non generano, anche per i ricchi stessi, una società conviviale, ma
un'anti-società ammalata della sua ricchezza (con stress, malattie di
ogni sorta: insonnia, obesita, ecc, e in fine la solitudine e il
suicidio).
Allora, parlare di dopo-sviluppo e di decrescita non è soltanto lasciar
correre l'immaginazione su quello che potrebbe accadere in caso di
implosione del sistema, fare della fanta-politica o esaminare un
problema accademico. E' parlare della situazione di quelli che
attualmente al nord ed al sud sono gli esclusi o sono in procinto di
diventarlo, per tutti quelli dunque, per cui il progresso, la crescita e
lo sviluppo sono un'ingiuria e un'ingiustizia e che sono indubbiamente i
più numerosi sulla faccia della terra, il post-sviluppo si delinea tra
noi e si annuncia nella diversità.
Il post-sviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della
ricerca delle modalità di rigoglio collettiva nelle quali non sarebbero
privilegiati un benessere materiale distruttore dell'ambiente e dei
legami sociali. L'obiettivo della buona strada/vita si declina nei
molteplici aspetti secondo i contesti. In altre parole, si tratta di
ricostruire delle nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l'umran
(rigoglio) come in Ibn Kaldûn, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle
condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene
assieme) come dicono i Toucouleurs, o "fidnaa/gabbina", "le rayonnement
d'une personne bien nourrie et libérée de tout souci" cher les Borana d'Ethiopie,
o in tutti i modi possibili l'importante e di designare la rottura con
l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo
oppure, come oggi diciamo, di globalizzazione.
Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, non si tratta che di
una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità
inaccessibile. Queste creazioni originali di cui possiamo trovare un po'
qui e un po' là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un
post-sviluppo. Bisogna di volta in volta pensare e agire globalmente e
localmente. Non è altro che nella mutua fecondazione dei due approcci
che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di
prospettive immediate.
Il post-sviluppo e la costruzione di una società alternativa non si
declinano necessariamente nello stesso modo al nord e al sud. Proporre
la decrescita serena e conviviale come uno degli obiettivi globali
urgenti e identificabile attualmente e mettere in opera delle
alternative concrete localmente sono complementari.
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare
l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale
senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza
sociale e sopravvivenza biologica sembrano così strettamente legate.
I limiti del "capitale" (patrimonio) natura non propongono soltanto un
problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità,
ma anche un problema di equità tra gli esseri viventi dell'umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La gran parte
dei saperi considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un
numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita
lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata
ben temperata, sempre adattata alle costrizioni naturali.
Preparare la decrescita significa, in altre parole rinunciare
all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che più è uguale a
meglio o per dirla con Majid Rahnema "rinunciare all'egemonismo del
principio della crescita a tutti i costi". Il bene e la felicità possono
compiersi con costi minori.
Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire delle relazioni sociali
conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella
frugalità, la sobrietà, una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine decrescita ha soprattutto come fine il segnare con
fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la
crescita, il cui motore è la ricerca esasperata del profitto da parte
dei detentori di capitale.
Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che
consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita.
In particolare la decrescita non va intesa come crescita negativa[5]. Si
sa che persino il rallentamento della crescita getta le nostre società
nel caos a causa della disoccupazione e del taglio dei programmi
sociali, culturali e ambientali, dai quali dipende un livello minimo di
qualità della vita.
Immaginiamo quale catastrofe produrrebbe la crescita negativa,
expression antinomique et absurde qui traduit bien la domination de l'imaginaire
de la croissance! Come non c'è niente di peggio che una società
laborista/occupazionista senza lavoro/occupazione (Arendt), cosi come
non c'è niente di peggio che una società di crescita senza crescita! La
decrescita non è del resto immaginabile se non in una società di
"decrescita".
Una tale società suppone un'organizzazione totalmente diversa, dove sia
valorizzato l'ozio al posto del lavoro, e dove i rapporti sociali siano
più importanti della produzione e del consumo di prodotti usa-e-getta,
inutili e spesso nocivi. Una riduzione drastica del tempo di lavoro per
assicurare a tutti un posto di lavoro ne è la condizione di partenza.
Ispirandosi alla carta "consumi e stili di vita" proposta dal forum
delle ong a Rio de Janeiro nel 1992, si può riassumere il significato
della decrescita nel programma delle 6 R : rivalutare, ricostruire,
ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Sono sei obiettivi
interdipendenti, che insieme generano la cancellazione delle esternalità
negative della crescita e innescano il circuito virtuoso della
decrescita serena, conviviale e sostenibile[6].
Rivalutare vuol dire rivedere i valori nei quali crediamo e sui quali
organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che vanno cambiati.
Ristrutturare vuol dire adattare l'apparato produttive e i rapporti
sociali in funzione del cambiamento dei valori. Ridistribuire si
riferisce alla ridistribuzione della ricchezza e dell'accesso alle
risorse o patrimonio naturale. Ridurre vuol dire ridurre drasticamente
gli orari di lavoro (meno di due ore a giorno secondo Jacques Ellul) e
diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e
consumare. Infine, riutilizzare le apparecchiature e i beni d'uso,
anziché gettarli in discarica e riciclare gli scarti indecomponibili
derivanti dalle nostre attività.
Semplicemente, per il Nord, la diminuzione della pressione eccessiva del
modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è un'esigenza di buon
senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale e
ecologica. Aspiriamo ad un miglioramento della qualità della vita e non
ad una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo il progresso della
bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle
falde freatiche che ci forniscono l'acqua potabile, della trasparenza
dei corsi d'acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento
dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C'è
ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore,
per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora
selvatica, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità,
senza parlare dei progressi da fare per la democrazia.
La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia
del progresso e presuppone il ricorso a delle tecniche sofisticate di
cui alcune sono ancora da ideare. Sarebbe ingiusto tacciarci come
tecnofobi e come anti-progressisti sotto il solo pretesto che noi
reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso e la tecnica. Questa
rivendicazione è un minimo per l'esercizio della cittadinanza.
Per quanto riguarda i paesi del Sud, frustati dalle conseguenze negative
della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di
crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo rotto dalla
colonizzazione, l'imperialismo e il neo-imperialismo, militare,
politico, economico e culturale, per riappropriarsi della loro storia e
della loro identità. Questo è un preliminare per dare ai loro problemi
le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di
certe culture destinate all'esportazione (caffé, cacao, arachidi,
cotone, ecc.) come invece può avverarsi la necessità di aumentare la
produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare anche a
rinunciare all'agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i
suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle
riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato
nell'informale, ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale
direzione può prendere per loro la costruzione del post-sviluppo.
In nessun caso, la rimessa in causa dello sviluppo non può nè deve
apparire come un'impresa paternalista e universalista che la
assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista,
umanitaria ...). Il rischio più forte è che i colonizzati abbiano
interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e
particolarmente l'immaginario sviluppista, è ancora più pregnante al Sud
che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere
altro rimedio alle loro disgrazie che in un aggravarsi del male. Pensano
che l'economia è il solo mezzo per risolvere la povertà quando è la
stessa che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la
soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del
problema.
Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione
nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa,
(ossia, dionisiaca).
La decrescita dovrebbe essere organizzata non solo per preservare
l'ambiente, ma anche per reinstaurare un minimo di giustizia sociale,
senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza
sociale e sopravvivenza biologica sembrano così strettamente legate. I
limiti del "capitale" natura non pongono solo un problema di equità
intergenerazionale nella divisione delle parti disponibili, ma un
problema di equità tra i membri attualmente vivi dell'umanità.
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[1] L'impossibilité où nous nous sommes trouvés de traduire "décroissance"
en anglais est très révélatrice de cette domination mentale de l'économisme,
et symétrique en quelque sorte de celle de traduire croissance ou
développement dans les langues africaines. Aucun des néologismes
proposés, ungrowth, degrowth, dedevelopment, n'est vraiement
satisfaisant.
[2] Majid Rahnema, "Quand la misère chasse la pauvreté", Fayard/Actes
Sud, Paris 2003, p. 281.
[3] Si troverà una bibliografia esaustiva dei rapporti e dei libri...
sul tema dopo il famoso rapporto del Club di Roma, in Andrea Masullo Il
pianeta di tutti - Vivere nei limiti perché la terra abbia un futuro -
Bologna 1998.
[4] Gianfranco Bologna - Italia capace di futuro, Bologna 2001, pp.
86-88.
[5] On notera l'absurdité de l'expression. Cela voudrait dire à la
lettre : "avancer en reculant".
[6] On pourrait allonger la liste des "R" avec : rééduquer, reconvertir,
reféfinir, remodeler, réinventer/repenser, etc. et bien sûr relocaliser.
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