JUGOSLAVIA, APPELLO ORTODOSSI PER RISPETTO VOTO
Nel giorno di chiusura della campagna elettorale jugoslava, giunge l'appello della Chiesa ortodossa.
Un comunicato del Sinodo esorta i partiti a evitare una conclusione cruenta della competizione elettorale.
"Se qualcuno tenterà di cambiare la volontà popolare, la patria sarà in pericolo", aggiunge la dichiarazione del
vertice ortodosso di Belgrado. "I risultati devono essere accettati da tutti", conclude il Sinodo.
23 settembre 200
--------------------------------------------------------------------------------
23 settembre 2000
da TELEVIDEO:
VOTO IN JUGOSLAVIA, SERBIA RIFIUTA OSSERVATORI UE
Le autorità jugoslave hanno rifiutato la presenza di 20 osservatori europei alle elezioni di domenica.
Secca la risposta dell'Ue attraverso la Francia, presidente di turno: "Questo testimonia il rifiuto di Belgrado di
far lavorare la delegazione in piena libertà.Tireremo le nostre conclusioni"
Il Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, ha ribadito che gli Stati Uniti non accetteranno un risultato elettorale truccato.
"Milosevic - ha detto- sta facendo di tutto per rubare le elezioni
ELEZIONI PRESIDENZIALI, LA JUGOSLAVIA AL BIVIO
Poco meno di 8 milioni di jugoslavi sono chiamati domani alle urne per rinnovare la Presidenza della Repubblica,
il Parlamento federale e le amministrazioni locali della Serbia.
Per la massima carica i candidati sono cinque, tra cui il presidente uscente Slobodan Milosevic e l'esponente delle
opposizioni Vojislav Kostunica.
Il voto si svolge in un clima di grande tensione, preceduto da intimidazioni contro l'opposizione che teme brogli,
dopo il rifiuto del governo alla presenza di osservatori Osce. L'esito della consultazione avrà un'importanza
cruciale per l'assetto dei Balcani.
KOSTUNICA, LA SPERANZA DELL'OPPOSIZIONE
Nazionalista moderato, Kostunica è l'unico esponente di primo piano dell'opposizione a non aver mai fatto parte
del partito di governo durante il regime comunista.
Nato a Belgrado nel 1944, Kostunica è professore di diritto e fu tra i fondatori del Partito democratico. Nel 1992,
decise di lasciare la formazione politica,alleandosi per poco con Draskovic.
Kostunica è appoggiato da un cartello di 18 partiti. Critico dell'intervento Nato, poco carismatico, è popolare perché
non ha fatto parte dei sostenitori di Milosevic e non è stato coinvolto in scandali.
IL KOSOVO ASPETTA E FINGE INDIFFERENZA
Gli albanesi del Kosovo boicotteranno le elezioni jugoslave, come hanno sempre fatto negli ultimi dieci anni.
Alcuni dirigenti kosovari auspicano, paradossalmente, una vittoria di Milosevic, convinti che questo risultato
possa avvicinare l'indipendenza della provincia.
La missione Onu ufficialmente ignora la consultazione, mentre si stanno preparando le amministrative kosovare per
la fine di ottobre. Gli oppositori serbi di Milosevic temono che dalla provincia provengano voti falsi a favore di Slobo.
RIFUGIATI E SFOLLATI NELLA JUGOSLAVIA DEL DOPOGUERRA
I conflitti dei Balcani negli anni '90 hanno costretto quasi quattro milioni di persone ad abbandonare le loro case.
Attualmente, sono circa 2 milioni le persone che ancora si trovano fuori dalle proprie abitazioni o sono comunque bisognose di assistenza.
Dalla firma degli Accordi di Dayton, oltre 650 mila persone hanno fatto ritorno in Bosnia-Erzegovina e oltre 110 mila in Croazia.
Nella Repubblica jugoslava si conta oggi la presenza di 220mila sfollati provenienti dal Kosovo e 500mila da altre repubbliche della ex Federazione.
Siti ufficiali jugoslavi sono quelli del governo e del ministero dell'Infor mazione: www.gov.yu e www.serbia-info.com
Per i partiti di opposizione, si veda www.srbijazajedno.org.yu www.spo.org.yu
Il movimento alternativo più temuto dal regime è al sito http://www.otpor.com
Un altro osservatorio delle elezioni si trova all'indirizzo http://www.cesid.org.yu
Spazio speciale dedicato al voto online dalle grandi reti tv come http://www.cnn.com
e http://news.bbc.co.uk
--------------------------------------------------------------------------------
IN RETE
Stralcio da un programma elettorale alternativo al regime
EDUCATION, CULTURE AND INFORMING
The renewal of the education is the crucial matter for the future of the state. All previous lies, half-truths and nonsense should be
taken out from the curriculums and textbooks, which would mean the avoiding of the ideology and politics and returning of the classic
disciplines, as well as introducing contemporary educational methods and free scientific expositions of different vantage-points.
The independence of the University is the strategic interest of the country and the crucial lever of its spiritual and moral renewal.
The freedom of the press and other media is guaranteed by the law.
Those radio and TV stations supported from the state budget must be equally open to all scientific, cultural and political options.
RELIGION
The SRM supports the equalling of the believers and non-believers and that they be allowed to work in all positions and services
(diplomatic, military, leadership, etc.)
Enable to the church the access to all media.
Proclaim the celebrating of Christmas, Sveti Sava, Easter and Vidovdan and repeal the holidays made from the ideological reasons.
--------------------------------------------------------------------------------
LETTURE IN RETE
--------------------------------------------------------------------------------
L'ULTIMA GUERRA DI RELIGIONE?
6, giugno 1999
Di Jim Cairns, da Confronti
Ortodossi contro musulmani? È davvero religiosa la radice di questo ultimo conflitto balcanico? Qual è stato il ruolo della Chiesa ortodossa serba? Come ha reagito la comunità islamica kosovara? Risponde Jim Cairns, dell'ufficio di Sarajevo della Conferenza mondiale delle religioni per la pace.
Oggi in Serbia non è possibile nessuna soluzione per il Kosovo o per qualsiasi altro problema, perché il regime antidemocratico di Slobodan Milosevic non
solo vìola i diritti umani degli albanesi kosovari, ma anche quelli della popolazione di etnia serba". Questa dichiarazione è stata resa non da un ministro
degli Esteri di un paese appartenente al Gruppo di contatto, ma dal vescovo serbo-ortodosso del Kosovo, che è stata una delle figure più critiche del
regime di Milosevic durante la crisi del Kosovo. Sebbene l'elemento religioso sia stato determinante nei conflitti che hanno provocato la disgregazione
dellíex stato jugoslavo, il ruolo delle religioni e dei leader religiosi in Kosovo è stato assai diverso rispetto a quello avuto nelle recenti guerre in Croazia e in
Bosnia-Herzegovina. Purtroppo, questo atteggiamento critico e i conseguenti sforzi dei vescovi per promuovere una soluzione pacifica per il Kosovo sono
stati le ulteriori vittime delle operazioni militari della Nato, almeno nel breve periodo.
Nellíesaminare le dinamiche religiose della crisi del Kosovo, è mia intenzione cominciare a denunciare il pericolo di una affermata analogia con
líesperienza bosniaca ñ analogia che io credo abbia alterato líanalisi della situazione e i presupposti per un intervento della Nato e dei governi occidentali in
risposta a questa situazione e che ha causato alcuni gravi errori di valutazione. Né il conflitto in Bosnia-Herzegovina né quello in Kosovo hanno alla radice
uno scontro di origine religiosa; e comunque il fattore religioso è stato ben più determinante nel conflitto bosniaco, che è stato caratterizzato da un uso
diffuso di linguaggi, simboli e metafore religiose. I gruppi etnico-nazionali coinvolti nel conflitto ñ bosniaci, serbi e croati ñ si sono distinti gli uni dagli altri
fondamentalmente per la propria identità religiosa. I leader religiosi sono stati identificati più spesso come figure nazionali piuttosto che religiose e sono
stati spesso manovrati (sia volentieri che contro la propria volontà) per sostenere e difendere le proprie rispettive comunità nazionali e i propri leader
politici. In Kosovo, invece, le tensioni che da tempo ribollivano tra i serbi e gli albanesi sono caratterizzate più da differenze di ordine etnico, linguistico e
storico, che da quelle religiose, benché queste due comunità abbiano differenti identità religiose.
Le religioni più diffuse in Kosovo sono le stesse tre che prevalgono in tutta la regione dei Balcani ñ islam, cattolicesimo romano e ortodossia orientale.
Tutte e tre le comunità hanno profonde radici storiche nella regione. Il cristianesimo è presente sin dalla tarda epoca romana, con comunità di fedeli
appartenenti sia al rito orientale (greco) che occidentale (latino). Dopo il grande scisma tra Roma e Costantinopoli del 1054, queste due componenti sono
diventate rispettivamente la Chiesa ortodossa e quella cattolica. La Chiesa serbo-ortodossa si è resa indipendente nei primi anni del XIV secolo (è
"autocefala" dal 1346 e la sede della chiesa madre è a Pec, nel Kosovo, ndr) e nei 150 anni successivi ha fondato numerosi monasteri e il proprio
patriarcato nel Kosovo, che allíepoca era il centro del regno medievale serbo. I cristiani albanesi si identificano principalmente nella tradizione
latino-cattolica, ma in Albania esiste una piccola Chiesa albanese-ortodossa.
LíImpero ottomano ha conquistato completamente il Kosovo tra il secolo XIV e XV, e durante la sua dominazione un gran numero di albanesi si sono
convertiti allíislam: ecco perché oggi la maggior parte degli albanesi sono musulmani.
La terra tra religione e ideologia
Sia i serbi che gli albanesi hanno cercato di utilizzare la storia per legittimare le proprie pretese sul territorio, ma è presente una dicotomia che ricorda il
conflitto israelo-palestinese. Per gli albanesi la terra è importante in quanto luogo in cui hanno vissuto per secoli e in cui sono convinti di avere il diritto di
potersi autodeterminare. Per i serbi la terra è importante non come luogo in cui abitare ma perché è impregnata di significati storico-religiosi ñ è "sacra"
sia per motivi religiosi che storici. Come risultato, la Chiesa serbo-ortodossa ha avuto, nella vicenda del Kosovo, un ruolo ben più determinante rispetto
alle altre comunità religiose.
Slobodan Milosevic, così come si è fatto strada nelle gerarchie del Partito comunista serbo, si è trasformato da funzionario comunista in leader
nazionalista. La sua abilità nel manipolare sia la storia del "sacro" Kosovo sia le ingiustizie subite dai serbi della regione gli ha fornito la spinta propulsiva
per diventare il presidente della Serbia. La leadership della Chiesa serbo-ortodossa lo ha seguito di proposito, avendo individuato in Milosevic chi poteva
liberarla dallíoscura prigione del comunismo, nella quale era stata confinata per più di quarantíanni. Questa alleanza
ha raggiunto il suo apice nel giugno 1989, quando líintera nazione serba, permeata da un folle fervore nazionalistico e
religioso, ha celebrato il 600 anniversario della battaglia del Kosovo. Lo stesso anno, Milosevic ha revocato al
Kosovo lo statuto di regione autonoma e líha posto sotto il diretto controllo di Belgrado. Da un giorno allíaltro la
popolazione albanese ha perso alcuni suoi diritti basilari, quali líoccupazione, líistruzione e líuso della propria lingua.
Essa ha organizzato un diffuso movimento pacifico di resistenza che ha creato istituzioni parallele, alternative a
quelle controllate dai serbi. Negli anni successivi, mentre scoppiava la guerra che avrebbe portato alla dissoluzione
della Jugoslavia, il Kosovo ribolliva in una calma apparente, con una frattura sempre più profonda tra la comunità
albanese e quella serba. Durante questíultimo anno il Kosovo è definitivamente esploso e abbiamo assistito al
degenerare della situazione fino al caos attuale.
Che ruolo hanno avuto le comunità religiose durante questi ultimi quindici mesi di conflitto? Sotto molti punti di vista la
Chiesa serbo-ortodossa ha avuto il maggior interesse, perché questa è una battaglia per il territorio che essa considera sacro.
Una spina per Milosevic
L'ironia dell'ultimo anno è che, se durante gli anni Ottanta Milosevic ha ottenuto il favore della Chiesa riguardo al Kosovo, lo ha gradualmente perso
quando, recentemente, la situazione è andata deteriorandosi. Nella primavera del 1998, Artemije, vescovo ortodosso della diocesi di Raska-Prizren (che
include il territorio del Kosovo), ha cominciato a parlare contro le violenze nella regione ñ sia mediante gli organi di informazione, sia durante regolari viaggi
nelle capitali straniere. Appoggiato dai monaci del monastero di Visoki Deciani ñ in particolare frate Sava Janjic (che ha creato un sito internet ed un
servizio di news tramite posta elettronica) ñ il vescovo ha sostenuto che sia i cittadini serbi che quelli albanesi del Kosovo soffrivano delle violenze
perpetrate dalle frange estremiste sia dellíuna che dellíaltra parte, vale a dire le azioni di guerriglia dellíUçk e il brutale, eccessivo ricorso alla forza delle
milizie serbe che hanno colpito le città e i villaggi albanesi. La sua azione a favore di pacifiche trattative che regolassero il conflitto e di denuncia contro le
atrocità commesse da ambo le parti è stata costante. Negli ultimi due mesi, Artemije si è concentrato ancora di più sul regime di Milosevic, dichiarando
che senza una democrazia in Serbia ñ e cioè finché Milosevic resta al potere, ndt ñ è impossibile una qualsiasi soluzione per il Kosovo.
Cosa c'è dietro la presa di posizione del vescovo? Io credo che, a suo merito, Artemije abbia anteposto la sua responsabilità di proteggere i serbi del
Kosovo e i santuari sacri per la Chiesa in Kosovo alla sua lealtà verso il regime. Egli ha capito che, senza un accordo politico che garantisca i diritti di tutti
coloro che vivono in Kosovo, il futuro della comunità serba sarebbe in grave pericolo. Ha inoltre capito che le politiche repressive del governo jugoslavo
hanno radicalizzato le posizioni della popolazione albanese e causato enormi sofferenze a tutti i kosovari (sia di etnia albanese che serba, ndt). In un
appello ha dichiarato che il problema del Kosovo "è prima di tutto una questione di diritti umani e di assenza di democrazia, non un problema territoriale
che possa essere risolto con lo spostamento dei confini".
Il patriarca e il Sacro sinodo della Chiesa ortodossa serba non sono stati così schietti. In parte questo riflette la struttura decentralizzata di una Chiesa
nella quale i vescovi hanno autorità assoluta allíinterno della propria diocesi. Artemije ha regolarmente dichiarato che egli agisce con il consenso e
líappoggio del patriarca e del Sinodo. Questo atteggiamento rispecchia anche una posizione strategica che ha permesso alla Chiesa di evitare un
confronto diretto con il regime e quindi di salvaguardare un certo grado di rapporti. Due avvenimenti, tuttavia, hanno dimostrato che la leadership
ecclesiastica ha appoggiato le posizioni del vescovo Artemije. Il primo, avvenuto allíinizio di gennaio, quando il patriarca ha invitato tutti i fedeli ad un
digiuno di una settimana prima del giorno di san Sava (forse la festa più importante per i serbi-ortodossi, in cui si celebra il fondatore della Chiesa), per
pregare e riflettere sulla situazione del Kosovo. Il secondo, avvenuto dopo che Artemije aveva pronunciato uno dei suoi interventi più duri contro il regime
di Milosevic, quando Vojislav Seselj ñ leader dellíala dura del Partito radicale serbo e vice primo ministro serbo ñ ha pubblicamente accusato il vescovo di
essere un traditore della nazione e del popolo serbi.
Minacce di scomunica
Per tutta risposta, il Sacro sinodo della Chiesa ha annunciato che stava prendendo in considerazione líidea di scomunicare Seselj. Líintreccio di queste
azioni ha rappresentato il più grave clima di tensione tra la Chiesa ortodossa e il regime da quando Milosevic è salito al potere, ed ha infuso una qualche
speranza che la Chiesa cominciasse lentamente a considerare i propri interessi istituzionali separatamente da quelli dello stato ñ almeno sulla questione
del Kosovo.
In altre due occasioni, la Chiesa serba-ortodossa ha rafforzato i suoi espliciti sforzi per trovare una soluzione pacifica in Kosovo. Nella prima, i monaci
ortodossi in Kosovo, in particolare quelli di Deciani, hanno fornito aiuti umanitari, rifugio e altri tipi di assistenza sia ai serbi che agli albanesi, per tutto il
perdurare della crisi. In più, i monaci di Visoki Deciani hanno organizzato un progetto istituito dallíIocc (Organizzazione internazionale di beneficenza dei
cristiano-ortodossi) per assistere la popolazione dellíarea di azione di Deciani ñ a predominanza albanese ñ nel ricostruire le abitazioni danneggiate dai
combattimenti avvenuti tra il maggio e líottobre del 1998. Nella seconda, il vescovo Artemije ha fatto numerosi appelli per il dialogo tra i rappresentanti delle
comunità religiose, finalizzato al lavoro comune per garantire pace e tolleranza a tutte le popolazioni del Kosovo. Questi sforzi hanno contribuito
notevolmente alla possibilità che i rappresentanti delle tre maggiori comunità si incontrassero. Nonostante tutto quello che stavano soffrendo per mano
delle milizie serbe, i rappresentanti albanesi conoscevano e apprezzavano gli sforzi che il vescovo Artemije e i monaci di Deciani stavano realizzando.
Cattolici e musulmani
Le alte sfere della Chiesa cattolica e della comunità islamica in Kosovo sono state coinvolte molto meno pubblicamente, durante la crisi. Esistono tre
motivi per questo loro relativo silenzio. Il primo, e più importante, è che per líetnia albanese la questione del Kosovo non ha quel significato religioso che
ha, invece, per i serbi. In più, gli albanesi non identificano la loro appartenenza alla nazione con la religione nella stessa misura dei serbi. I leader religiosi,
quindi, non hanno avuto un ruolo chiave nella leadership albanese e non sono stati coinvolti nella santificazione della lotta: è una lotta politica (e solo
recentemente militare).
Il secondo motivo è che le alte sfere religiose della comunità albanese si sono dovute occupare delle profonde sofferenze del loro popolo. I combattimenti
del 1998 hanno provocato decine di migliaia di profughi, tra i quali molti leader religiosi. Per esempio, la maggior parte degli imam della comunità islamica
sono stati dispersi e le loro moschee danneggiate dalle forze serbe. In un tale caos le comunità religiose hanno dovuto combattere per la sopravvivenza e
non potevano organizzare campagne di aiuto. La Chiesa cattolica è abbastanza piccola (5% della popolazione) e, di conseguenza, dispone di limitate
risorse umane, ed entrambe le comunità (cattolica e islamica, ndt) hanno risorse economiche risibili; tutto ciò che avevano è stato impegnato a lenire le
sofferenze delle loro comunità.
Terzo, i leader religiosi cattolici e musulmani generalmente simpatizzano con le aspirazioni della popolazione albanese in Kosovo ed hanno fronteggiato
una notevole pressione dallíinterno delle loro comunità affinché non si tentasse la via della cooperazione con i rappresentanti del "nemico", finendo così
per ignorare le posizioni assunte dalla leadership ortodossa. Questa paura reale di essere visti come collaboratori ha anche impedito al dialogo collettivo
di fare passi avanti fino al processo politico iniziato poi in Francia. Il mufti della comunità islamica ha, comunque, pubblicamente dichiarato nellíottobre
1998 di aver apprezzato gli appelli per la pace della Chiesa ortodossa e si è raccomandato affinché "tutti i credenti e le persone di buona volontà si
impegnino in un lavoro comune per promuovere una soluzione alla crisi pacifica e giusta".
Nonostante la crisi allíinterno del Kosovo andasse avanti, i leader delle tre comunità religiose si sono resi conto dellíimportanza di provare a cominciare un
processo di contatti diretti e di dialogo e, dal settembre 1998, la Conferenza mondiale su religione e pace (Wcrp) sta lavorando direttamente con loro per
facilitare questo processo. Proprio mentre i colloqui di pace ufficiali di Rambouillet e, poi, di Parigi fallivano nel loro intento di trovare una soluzione, i
maggiori rappresentanti delle tre comunità religiose si sono incontrati in due occasioni ñ la prima a Pristina, convocati dal Wcrp, la seconda a Vienna ad
una conferenza organizzata dalla Fondazione per líobiezione di coscienza. Essi si sono pronunciati per la fine di ogni violenza e per la necessità di
salvaguardare i diritti di tutti senza distinzione per la loro identità nazionale o religiosa. Hanno inoltre condannato il cattivo uso della religione per fini politici
e si sono impegnati per tentare, tra loro, la strada della cooperazione allo sviluppo. Questi incontri hanno rappresentato líunico contatto stabilito tra la
comunità serba e quella albanese nello sforzo di costruire ponti che superassero le fratture che le dividevano.
L'operazione militare della Nato ha bruscamente interrotto questo processo e distrutto qualunque slancio presente ñ almeno nel breve periodo.
I bombardamenti
Lo shock e lo sdegno per i bombardamenti sul loro paese hanno spinto la leadership serba-ortodossa a fare un passo indietro ed a sostenere il regime di
Milosevic fino a quando il loro paese continuerà ad essere attaccato. In mezzo a tale "sdegno" hanno avuto ben poco da dire sugli orrori che hanno avuto
luogo sul territorio del Kosovo. Il vescovo Artemije è stato zitto, mentre frate Sava di Deciani ha aspramente criticato gli attacchi Nato, e insieme hanno
espresso la propria frustrazione per non poter influenzare i leader politici nel trovare una soluzione pacifica. Nel frattempo, la leadership della comunità
islamica è stata dispersa. Il mufti e altri capi sono in Macedonia dopo essere stati costretti a fuggire da Pristina, insieme a molti altri che mancano
allíappello.
Non si possono fare ipotesi sul futuro del Kosovo fino a quando il fumo e la polvere della guerra non si saranno sedimentati. Tramite la loro seppur minima
influenza politica, i leader politici del Kosovo avranno un ruolo fondamentale se ancora rimane una benché minima speranza che serbi e albanesi
possano un giorno tornare a vivere insieme. Potrebbe essere troppo tardi, ma il coraggio e líimpegno che hanno dimostrato prima di questo conflitto per
tentare una via per la pace e la riconciliazione potrebbe ancora permettere di salvare qualcosa da questo processo. Nei conflitti che hanno devastato la ex
Jugoslavia, le sfumature allíinterno di ogni identità religiosa e politica hanno spesso messo i leader religiosi in una posizione impossibile, nella quale ci si
aspettava da loro una ben maggiore capacità di influenzare le loro comunità nazionali, rispetto a quanto in effetti abbiano fatto. Col risultato che sono stati
criticati quando hanno taciuto e allontanati perché inutili quando hanno parlato chiaramente.
John Alderdice, portavoce alla nascente Assemblea dellíIrlanda del Nord, ha avuto una saggia intuizione quando si è domandato quale fosse líinfluenza dei
capi religiosi nella situazione del suo paese. Egli ha detto che sebbene le etichette religiose definiscano le parti in conflitto, il conflitto di per sé non è
religioso. Quindi, líinfluenza dei leader religiosi è limitata perché questi non hanno líautorità per risolvere i problemi che hanno generato il conflitto. Al
massimo possono essere i portavoce di ragionevolezza e moderazione, cercando di impedire che un conflitto degeneri fino alle conseguenze estreme di
violenza e distruzione. Secondo questo modello, i leader religiosi in Kosovo hanno fatto benissimo il loro lavoro prima degli attuali combattimenti. Prego
affinché abbiano uníaltra possibilità quando tutto ciò sarà finito.
(Traduzione a cura di Paolo Fantoni. Copyright 1999 Christian Century Foundation.
Per gentile concessione, ripreso da "The Christian Century", n. 21-28 di aprile ë99)
http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/10/10b1-11.html
er gentile concessione della rivista CONFRONTI, mensile di fede, politica, vita quotidiana.
--------------------------------------------------------------------------------
Dopo aver giustificato gli eccessi in Kosovo la conferenza dei vescovi sollecita l'allontanamento del presidente
La Chiesa ortodossa a Milosevic: dimettiti
15 giugno 1999
BELGRADO - Dopo aver difeso la "guerra giusta" e giustificato gli eccessi delle forze serbe in Kosovo nel
corso della guerra, la chiesa serbo ortodossa "scarica" Slobodan Milosevic e sollecita le dimissioni del presidente
jugoslavo con l'intero governo "nell'interesse e per la salvezza del popolo". In un documento approvato dal Santo
Sinodo e diffuso dall'agenzia indipendente Beta, si afferma che "ogni persona sensibile deve comprendere che i
numerosi problemi interni del Paese e il suo isolamento sulla scena internazionale non possono essere risolti da
questa leadership".
Davanti "alla tragica situazione della nazione" e "convinto che la giustizia finale è nelle mani di Dio e non di una
strumentalizzata Corte dell'Aja", il Sinodo "chiede che il presidente in carica e il suo governo si dimettano
nell'interesse e per la salvezza del popolo", dice ancora il testo, che propone la formazione di un gabinetto "di
salvezza nazionale, accettabile per l'opinione pubblica interna e la comunità internazionale". La Chiesa serba
esprime poi la sua preoccupazione per la fuga dei civili serbi dal Kosovo e per la tutela degli antichi monasteri
ortodossi del Kosovo a Decani, Gracanica e Pec.
L'invito dei vescovi ortodossi arriva il giorno dopo le rivelazioni di Repubblica che riporta i dettagli di una
missione segreta Usa contro Milosevic. La riunione, svoltasi in Montenegro con l'obiettivo di liberarsi del
presidente jugoslavo, è confermata e raccontata da due dei partecipanti: Vladan Batic, presidente del partito
democristiano, e l'ex generale Vuk Obradovic, presidente del partito socialdemocratico.
Malgrado le sollecitazioni della Chiesa serba, il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic è in una fase di superattività:
oggi si è recato in visita alla città di Aleksinac, pesantemente danneggiata dai bombardamenti Nato, per
inaugurare la ricostruizone di alcuni edifici. Inoltre, in occasione della Giornata delle forze armate jugoslave,
nella sua veste di comandante supremo, ha decorato una serie di alti ufficiali, tra i quali il capo di stato maggiore
generale Dragoljub Ojdanic che, come lui, è accusato di crimini di guerra dal Tribunale Internazionale dell'Aja.
Ojdanic è stato elevato di grado e insignito dell'Ordine della Libertà. Tra le altre "promozioni", quella del comandante
del corpo militare di Pristina (Kosovo), Vladimir Lazarevic e del capo della difesa anti-aerea, Ljubisa Spasoje.
Milosevic si è presentato ad Aleksinac - colpita in due occasioni "per errore" dalla Nato in attacchi che hanno
provocato almeno 20 morti tra i civili - accompagnato dai massimi esponenti politici e militari jugoslavi e serbi, una
scelta che gli osservatori interpretano come l'inizio di una possibile campagna pre-elettorale. Gruppi di cittadni di
Aleksinac hanno assistito alla cerimonia di inaugurazione dei lavori con cartelli inneggianti a Milosevic e bandiere
serbe e jugoslave e più volte hanno gridato "Siamo conte!". Ieri Milosevic era comparso per la prima volta in
pubblico dopo la guerra a Beska, nel nord della Serbia (Vojvodina) per inaugurare la ricostruzione del ponte su cui
corre l'autostrada che collega Belgrado al restodell'Europa.
da
http://www.repubblica.it/online/fatti/15giu/milo/milo.html
--------------------------------------------------------------------------------
Storia del Kosovo
Le origini
Gli Albanesi, secondo alcuni storici, sarebbero gli abitanti antichi dei Balcani prima degli Elleni; secondo altri, nel loro movimento migratorio sarebbero discendenti
degli Elleni.
Comunque, finora i risultati delle ricerche linguistiche ed antropologiche, alle quali bisogna aggiungere anche le scoperte archeologiche degli ultimi anni, continuano a
dare testimonianze sempre più concrete della discendenza illirica degli odierni Albanesi.
Gli Illiri formarono sul loro territorio il regno degli Ardiani, che si estendeva da Trieste al Danubio, fino ai confini con i Greci e furono guidati da sovrani che si
distinsero per il loro coraggio; fra questi la Regina Teuta, che si oppose fortemente ai Romani; ed il Re Genzio, che venne sopraffatto in battaglia in prossimità di
Scutari nel 168 a.C.. Questultimo fu condotto prigioniero a Roma assieme alla sua famiglia. Da questa sconfitta ebbe inizio loccupazione romana, intercalata da
diverse sommosse e che durò per quattro secoli, fino alla divisione dellImpero Romano in due parti: in Impero dOccidente ed in quello dOriente nel 395 d.C.
Con la divisione dellImpero, lAlbania si trovò a far parte dellImpero Bizantino. Questo dominio durò fin quando venne insidiato dalla discesa dei Barbari, ultimi dei
quali furono gli Slavi, venuti in queste regioni verso il VI secolo e che in seguito si insediarono quali padroni assoluti, facendo emigrare gli abitanti autoctoni.
Verso lVIII secolo abitarono queste regioni gli Albanesi, come si riconoscono oggi, quali discendenti degli Illiri, di cui si conservano i costumi e soprattutto la lingua.
Le popolazioni slave, poi identificatesi quali serbe, si affacciano in Kosovo nel VII secolo, contestualmente alla loro invasione dello spazio balcanico. Il Kosovo è al
centro dello Stato medioevale serbo. Gli Albanesi del Kosovo ritengono di essere etnicamente discendenti delle popolazioni illiriche o dardane che avrebbero
abitato la regione prima della conquista slava (e vi sarebbero rimaste, secondo gli Albanesi, anche successivamente). Loriginale lingua albanese, di ceppo diverso da
quello slavo e greco, è in genere considerata lelemento più probante della discendenza degli odierni Albanesi da antichi popoli preesistenti nei Balcani.
A prova della radice slava del Kosovo, i Serbi si richiamano volentieri alla quantità di monasteri, chiese e monumenti medioevali della loro storia ben visibili sul
territorio. Da parte albanese si risponde che le fondamenta di tali edifici sono costituite dai resti di costruzioni illiriche.
La pulizia etnica del millenario conflitto serbo-albanese per il Kosovo sarebbe stata dunque compiuta, a cominciare dal VII secolo, ai danni degli Albanesi.
(Beninteso questo si può dire nella misura in cui è valida la tesi, generalmente accettata ma non dagli Albanesi, di unoccupazione slava del Kosovo iniziata nel VII
secolo). Si noti che in quellepoca né gli Illiri, progenitori degli Albanesi odierni, avevano conosciuto lislamizzazione, né gli Slavi avevano conosciuto la
cristianizzazione. Il possesso etnico del Kosovo da parte dei Serbi dura fino alla conquista ottomana inoltrata. Inizialmente infatti i Turchi non modificano gran che la
composizione della popolazione del Kosovo. E nel Seicento che si avvia la mutazione che riduce i Serbi, ai nostri giorni, ad essere minoranza inferiore al 10% della
popolazione del Kosovo.
La controffensiva austriaca, dopo il fallito assedio ottomano di Vienna del 1683, porta le potenze cristiane nel cuore dellimpero ottomano dEuropa, fin nel Kosovo.
I Serbi, cristiani ortodossi, collaborano attivamente con gli eserciti asburgici considerati come liberatori. Il patriarca di Pec, Arsenio III, è alla testa del popolo serbo
in rivolta. La ritirata delle armi austriache significa anche unondata di emigrazione dal Kosovo dei Serbi insieme al loro capo spirituale e politico Arsenio III. La
marcia verso il Nord, oltre il Danubio, di buona parte dei serbi del Kosovo campeggia nellepica del popolo serbo. Nel patriarcato ortodosso di Belgrado lepisodio
è raffigurato nellaffresco centrale della sala del Sinodo. Il Kosovo, parzialmente svuotato dei suoi abitanti, attira gli Albanesi delle regioni vicine, già parzialmente
islamizzati nel corso del Cinque e Seicento.
Altri esodi Serbi dal Kosovo, di minore entità, si avranno nel Settecento.
Lespansione del popolamento albanese del Kosovo, lungo lepoca moderna, è avvenuta per la graduale occupazione del territorio lasciato libero dai Serbi pressati
dalla dominazione ottomana. Ricorrente tra Ottomani e Serbi è la spirale oppressione-sconfitta-repressione-fuga. A seguito della repressione delle rivolte parte della
popolazione serba abbandonava le terre serbe del Sud per cercare rifugio nel Nord, possibilmente nei domini asburgici. Gli Albanesi, con il benvolere dei Turchi,
venivano a riempire i vuoti lasciati dai Serbi. Si trattava degli Albanesi delle zone circostanti il Kosovo, ossia i montanari dellAlbania del Nord-Est appartenenti a
tribù e clan di fede islamica e, secondariamente, cattolica. Albanesi ortodossi in numero consistente si trovano, infatti, nel Sud e nel centro dellAlbania, non nel
Nord-Est.
La teoria del "vuoto etnico" del Kosovo seicentesco colmato dagli Albanesi grazie al favore del dominatore ottomano non è accettata dagli albanesi. La risposta
delletnografia albanese alla tesi del "vuoto etnico" conosce due tempi.
Gli Albanesi non hanno, in un primo tempo, negato il fatto di essere subentrati ai serbi dopo gli esodi di questi ultimi, quanto di essere stati, nello spazio del Kosovo,
degli usurpatori. Si sarebbe infatti trattato di un "ritorno" degli Albanesi in casa propria, dopo esserne stati cacciati dai Serbi nei secoli precedenti, e non di una
prevaricazione. La discesa degli Albanesi dalle montagne dellovest nelle piane del Kosovo avrebbe "costituito semplicemente uninversione del secolare flusso
migratorio da quelle zone non protette".
Dagli anni settanta in poi, storici, geografi, demografi ed etnografi albanesi, i quali poterono finalmente formarsi ed aggregarsi intorno a propri centri di cultura
accademica, hanno contestato più radicalmente la teoria del "vuoto etnico".
I Serbi non sarebbero apparsi in Kosovo prima delXI secolo. Nei secoli successivi la maggioranza della popolazione del Kosovo sarebbe rimasta sempre albanese,
pur sotto il dominio serbo. Talora gli Albanesi avrebbero subito una slavizzazione. Nel medioevo sarebbero anche esistiti parecchi gruppi di albanesi di fede cristiana
ortodossa assimilati dai Serbi.
La religione per gli Albanesi è secondaria rispetto alla nazione. Tutti gli Albanesi conoscono le parole del vate ottocentesco dellalbanismo, Vaso Pasha: "la religione
degli Albanesi è lalbanismo". Scrive Christian Gut: "La situazione albanese è in effetti piuttosto eccezionale in Europa: è il solo Stato in cui la maggioranza della
popolazione si è convertita allislam ma, paradossalmente, è senza dubbio lo Stato in cui la religione ha giocato il ruolo meno importante nella formazione e nel
mantenimento dellidentità culturale e nazionale Sembra che in Albania la ricerca dellidentità culturale e nazionale non si sia fatta a partire dallislam come si
sarebbe potuto pensare, e tanto meno non si sia fatta a partire dalle religioni anteriori".
Anche il conflitto tra Albanesi e Serbi in Kosovo va inteso in senso etnico, non religioso. Islam e ortodossia sono utilizzati dalle due parti ma non sono la posta dello
scontro, che risiede piuttosto nella piena affermazione etnica degli uni o degli altri nella regione.
Come lislam in Kosovo corrisponde grosso modo alletnia albanese, la Chiesa ortodossa si identifica con letnia serba. Il fenomeno è per certi aspetti speculare.
Lortodossia in Kosovo ha seguito lo si è notato le fortune della popolazione serba. Non meno dellislam, lortodossia in Kosovo si nutre di nazionalismo. Anzi il
Kosovo stesso, considerato "terra sacra serba", costituisce uno dei "valori eterni" della Chiesa ortodossa serba, accanto a San Sava, alla dinastia dei Nemanja, alla
lotta contro i Turchi, ai monasteri medioevali. Sintende il cosiddetto mito del Kosovo, sia in riferimento al secolare travaglio del popolo serbo del Kosovo, sia in
riferimento alla battaglia del kossovaro Campo dei Merli del 1389. Sulla vicenda di questa battaglia si fonda lidentità serba.
Il cosiddetto spirito del 1389 è centrale nella comprensione che i Serbi, specie a livello popolare, hanno della questione del Kosovo anche ai nostri giorni. Questo
spirito è inteso come la resistenza serba allannientamento, secondo categorie non tanto storiche quanto mistiche. Si tratta di salvare il popolo serbo quale "popolo
celeste" in forza della sua fede e della sua tragica storia di martirio. Amfilochije Radovic, futuro metropolita del Montenegro, in tempi ancora sereni per la vecchia
Jugoslavia, scrive sul fatale 1389:"La battaglia di Kosovo, interpretata dallinizio come il Golgota del popolo serbo, ebbe ed ha tuttora unimportanza eccezionale
nella formazione della coscienza non solo nazionale ma anche religiosa del popolo serbo () levidente sconfitta e la catastrofe del popolo serbo furono interpretate
attraverso il prisma delle sofferenze del Cristo e del Golgota come pure attraverso lidea del martirio cristiano, cioè come una vittoria, come una perdita del regno
terreno e conquista delleterno regno celeste".
La tradizione popolare serba vuole che il re Lazar, prima di trovare la morte nella piana del Kosovo, abbia avuto una visione della "Gerusalemme celeste". Posto
innanzi linterrogativo su quale regno scegliere, il terreno o il divino, egli avrebbe scelto il regno celeste, ottenendo così insieme al suo esercito il martirio e la vittoria
(non delle armi). Questa scelta di Lazar è stata considerata dalla Chiesa ortodossa come il momento decisivo della storia serba. Per citare ancora Radovic:"Questa
trasformazione, sulla base della filosofia cristiana della vita e della storia, di una sconfitta in una vittoria fece sì che nel corso dei secoli il Vidovdan, il giorno della
battaglia del Kosovo, si mutasse da giorno di tristezza nella più grande festa nazionale serba. . In realtà la battaglia del Campo dei Merli aveva visto schierati insieme
Serbi ed Albanesi, allepoca tutti cristiani, contro i Turchi musulmani. Principi serbi erano alleati con principi albanesi: il fatto non stupisce se solo si pensa allaccanita
resistenza antiturca di Scandemberg, "lathleta Christi" albanese, nel secolo successivo. Si deve anche ricordare, dal momento che i Serbi non si accontentano del
mito ma affermano il fondamento storico di uno scontro esclusivamente serbo-turco, come sul Campo dei Merli, nel 1389, vi fossero anche reparti serbi schierati a
fianco degli Ottomani, poiché vi erano già vassalli serbi del sultano.
Nel medioevo anche lAlbania era uno stato feudale e tale rimase fino al XVI secolo.
Già si affacciava allorizzonte la grave minaccia dellinvasione ottomana, proprio nel momento in cui tra il tramonto della raffinata civiltà bizantina e i primi albori del
Rinascimento, il popolo albanese cominciava a prendere chiara coscienza della propria etnicità e si avviava verso le vie di un sicuro progresso.
In quel periodo in Albania si distinse leroe nazionale Giorgio Castriota, detto "Scandenberg" (1405-1468) il quale, assieme coi suoi fedeli albanesi combattè
ripetutamente contro i Turchi, impedendo loccupazione del Paese. I Turchi, essendo venuti qui sin dal XIV secolo ritornarono allattacco ben agguerriti e dopo la
morte di Giorgio Castriota dominarono lAlbania per cinque secoli.
Giorgio, figlio di Giovanni Castriota, signorotto di Kruja, sconfitto dai Turchi e costretto a diventare vassallo, fu dato in ostaggio con altri fratelli al Sultano Murag II.
Benvoluto da questi per la sua viva intelligenza e per le straordinarie doti di comando, fece rapida carriera militare distinguendosi nelle guerre di conquista che
lesercito ottomano conduceva in Oriente. Oscura rimane la sua giovinezza ed incerte sono le notizie sugli anni della vita che ne precedono il ritorno in Albania. Due
fratelli pare fossero morti avvelenati alla corte del Sultano, un terzo divenne monaco. Si sa soltanto che nel novembre 1443 tornò a Kruja dove si proclamò
indipendente dalla tutela della Sublime Porta turca. Nel 1444 ad Alessio riunì i principi ed i signori di tutta lAlbania e creò la Lega albanese. Fu nominato all'
unanimità comandante (Capitaneus Generalis) dellesercito composto dalle varie truppe messe a disposizione dai principi federati. Subito rivelò la sua genialità di
condottiero, addestrando le forze più che esigue e molto eterogenee dellesercito della Lega. Con esse pochi mesi dopo (giugno 1444) sconfisse ed annientò un forte
esercito turco nella stretta vallata di Torvjolli. Dal 1444 al 1468, anno della sua morte causata dalla febbre malarica ad Alessio, Scandemberg vinse 22 battaglie.
Due dei più potenti Sultani della Turchia, Murad II ed il figlio Maometto II, il famoso conquistatore di Costantinopoli, scesero in campo contro il piccolo principe
albanese, assediarono la capitale Kruja, tentarono con lintrigo, il denaro, gli attentati di sopprimerlo, ma invano. Finchè visse egli fece fronte ai terribili giannizzeri dei
Sultani che proclamavano pubblicamente di voler abbeverare le loro cavalle asiatiche alle fontane papali di Roma, centro della cristianità. Scandemberg, durante la
sua strenua lotta in difesa dellAlbania e dellEuropa (fu denominato "Atleta di Cristo") ebbe molte promesse e scarsi aiuti dallOccidente, di cui sera eletto
baluardo.
Lo appoggiò Alfonso dAragona, ma senza impegnarsi a fondo negli aiuti sia in denaro sia in uomini. Il pontefice romano Pio II promosse una crociata in suo favore,
lasciò Roma per imbarcarsi ad Ancona sulle navi già pronte in quel porto per accorrere in Albania e dar man forte a Scandenberg, ma il Papa morì ad Ancona il 14
agosto 1464.
Il principe di Kruja rimase solo contro la potenza degli eserciti ottomani che, luno dietro laltro, assalivano le città dAlbania. Alla sua morte , Giorgio Castriota
lasciò come erede Giovanni, il figlio ancora in tenera età avuto dalla moglie Marina Donica Arianìti. Madre e figlio si rifugiarono a Napoli, ospitati con affettuosa
premura da Ferdinando dAragona, figlio dAlfonso. Nel 1481, Giovanni Castriota sbarcò con alcuni suoi capitani e pochi soldati a Durazzo accolto con entusiasmo
dal popolo. Ma la ribellione fu soffocata dai Turchi. Nè migliore fortuna ebbero gli altri tentativi di scuotere il giogo dei Sultani.
Le sanguinose rivolte di Himare del 1492 e quelle del 1499 della vasta zona di Alessio finirono tragicamente provocando feroci rappresaglie dei giannizzeri.
Agli inizi del XVI secolo lAlbania cadde in possesso dei Turchi. Centinaia di migliaia di Albanesi emigrarono nelle Terre di San Marco e nel Regno di Napoli.
Nel corso di cinque secoli molti e continui sussulti insurrezionali scossero il Paese, ma poi scismi ed eresie che dilaniavano il cristianesimo a motivo del dissidio tra la
Chiesa di Roma e quella di Bisanzio, e laccorta politica dei Sultani, che lasciarono intatti il dominio ed i feudi delle casate aristocratiche albanesi convertitesi
allIslam, indussero la maggioranza del popolo ad abbracciare l'islam. Nellimpero ottomano, eretto su basi militari, non esistevano caste o classi sociali. I credenti in
Maometto si consideravano tutti eguali. Quindi la carriera rimaneva aperta senza alcun impedimento ad ogni suddito musulmano abile e volenteroso. Gli Albanesi,
amanti del mestiere delle armi, arruolandosi volontari nelle armate del Sultano, con le innate doti di coraggio si facevano strada fra i ranghi dellesercito e arrivavano
alle più alte sfere di comando. Dal settore militare a quello dellamministrazione civile breve era il passo. Così più di venti Albanesi giunsero, nei secoli della
dominazione turca, alla seconda carica dellImpero, cioè a quella di Gran Visir.
Mentre in Occidente lUmanesimo ed il Rinascimento, la scoperta dellAmerica e quella della stampa aprivano alle genti nuove ere di civiltà e di progresso, lAlbania,
separata dalla famiglia dei popoli europei e caduta nelloscurità, venne intristendosi nel letargico dominio turco.
LEuropa abbandonò alla sua tragica sorte il popolo albanese che laveva salvata dalle mire conquistatrici di Maometto II.
Il ricordo delle gesta gloriose di Giorgio Castriota rimase vivo nella memoria del popolo albanese. Ogni qual volta, nei cinque secoli di dominazione ottomana,
serpeggiava un improvviso fremito di ribellione, immediatamente risorgeva nellanimo di tutti la sua figura leggendaria. Nel 1878, la Lega di Prizren, che dette il
segnale davvio al movimento di liberazione nazionale, sorse e si organizzò nel fatidico nome di Scandemberg.
La Lega, che segnò il primo passo concreto verso unAlbania indipendente, coronò la paziente opera dei letterati e dei patrioti col dar corpo ad unazione
risorgimentale conscia dei suoi scopi e decisa a realizzarli. Il trattato di Santo Stefano, conclusione della guerra russo-turca del 1877-78, prevedeva una spietata
mutilazione del territorio albanese a favore degli Slavi del Sud (Montenegrini e Serbi) e dei Greci. Le Grandi Potenze europee non accettarono le durissime
condizioni di pace che la Russia voleva imporre al vacillante Impero dei Sultani. Si riunirono in un Congresso a Berlino presieduto dal Cancelliere tedesco Bismark e
modificarono sostanzialmente il trattato di Santo Stefano, non però in quelle clausole che riguardavano lAlbania.
Si sacrificavano le migliori regioni della sventurata piccola nazione adriatica per soddisfare le mire slave e greche. Il popolo albanese insorse come un sol uomo
contro lingiusto verdetto di Berlino. Combattè contro i Montenegrini e ne sconfisse lesercito, contro i Turchi che si erano impegnati a costringere i sudditi albanesi
al rispetto delle deliberazioni della diplomazia europea, contro i Serbi ed i Greci, contro la stessa Europa che nel 1880, inviò una potente squadra internazionale di
navi da guerra dinanzi a Dulcigno per costringere gli abitanti ad arrendersi ai Montenegrini. Anima e perno dellazione politica e bellica in difesa dei sacrosanti diritti
nazionali divenne la Lega di Prizren (città del Kosovo), di cui spiritus rector fu Abdyl Frashri , il grande Patriota dallintelletto illuminato e lungimirante. LEuropa
dovette rettificare alcune clausole del Trattato di Berlino. LAlbania ne usciva sempre malconcia, ma salvava alcune sue regioni. Usciva soprattutto temprata ed unita
dalla lotta e col deciso e preciso obiettivo di riacquistare la libertà e lindipendenza. Riuscì a sciogliersi dalle secolari catene il 28 novembre 1912, dopo i violenti moti
insurrezionali dei Malissori (montanari) del Nord nel 1911 e quelli del Kosovo nel 1912. Venne costituito un governo provvisorio a Valona sotto la direzione di
eminenti personalità, fra i quali primeggiarono Ismail Kemal Vlora e Luigi Gurakuqi.
Le due guerre balcaniche turbarono nuovamente la vita del popolo albanese, ma il 30 maggio 1913 nel Trattato di Pace fra la vinta Turchia e i vittoriosi Stati
Balcanici una clausola riconobbe alla fine il principio dellindipendenza della nazione albanese, affidandone la sua definitiva soluzione alle Grandi Potenze. La
Conferenza degli Ambasciatori il 29 luglio 1913 deliberò in modo positivo sul progetto di costituzione dun "principato albanese autonomo, sovrano, neutrale" sotto
la garanzia delle Grandi Potenze. I confini dello Stato albanese lasciavano fuori metà del territorio spettante per diritti etnici, storici e geografici alla nazione shipetara
(albanese).
Le frontiere del nord e dellest del nuovo Stato lasciarono almeno 500.000 Albanesi al di fuori della nazione. LAlbania era chiaramente vittima della geopolitica. La
Russia insistette che unarea considerevole dei territori abitati da albanesi dovesse essere annessa alla Serbia (Kosovo) ed al Montenegro. Vasti tratti di territorio
albanese furono incorporati nella odierna Macedonia e la Ciamura andò alla Grecia. Mentre il Regno Austro-ungarico sosteneva lindipendenza dellAlbania allo
scopo di utilizzare i confini dellAlbania come mezzo per limitare lespansione della Serbia e del Montenegro.
Nella comunità internazionale non ci fu mai una volontà reale per unesistenza dello Stato albanese. Dopo la guerra le dispute relative alle frontiere continuarono. Nel
1921 la Commissione degli Ambasciatori riconobbe lindipendenza albanese ed istituì una commissione speciale per delimitare i suoi confini settentrionali e di
nord-est (con la Serbia).
La commissione decise sulle concessioni da fare, ma Albania e Serbia ebbero delle obiezioni. Molte questioni sulle frontiere rimasero irrisolte addirittura dopo il
secondo incontro degli Ambasciatori, durante il quale il problema fu risolto parzialmente.
Da quel momento il destino dell'Albania prendeva il proprio corso, mentre il Kosovo diventava terra jugoslava, provincia della Serbia.
In Albania, dopo i vari tentativi dittatoriali e gli abusi preparati da Ahmet Zogu, Signorotto del Matì, nel giugno del 1924 si tentò di instaurare con una rivoluzione un
regime democratico, diretto dai patrioti albanesi Fan Nloli, Luigi Guraquci, Bairam Zarri ed altri; a loro si unirono le migliori forze della nazione. Poichè in quel
momento alle potenze europee un regime democratico in Europa era scomodo, Ahmet Zogu, con l'aiuto della Jugoslavia e delle bande russe (Wrangel), scalzava in
Albania (dicembre 1924) il regime democratico e dava inizio ad una repubblica presidenziale personale che nel 1928 trasformava in monarchia fino al 1989. In
seguito, nell'aprile del 1939 il re Zogu cedette il proprio Paese, senza opporre resistenza, al regime fascista di Mussolini. L'Albania veniva occupata dall'Italia, fino
all'8 settembre 1943, data in cui l'occupazione italiana veniva sostituita da quella dei Tedeschi, che durante la Seconda Guerra Mondiale l'avevano considerata zona
di passaggio per le loro truppe che dovevano recarsi in Grecia.
Dopo un anno di guerra fraticida, causata dai comunisti, questi ultimi, alla fine del novembre 1944 con l'aiuto degli Jugoslavi, si impossessarono del Paese,
instaurando un regime sanguinario, che è durato 47 anni, cioè sino al 1990, quando l'Albania tornava di nuovo nel consesso delle nazioni civili e democratiche.
Dal dopoguerra alla secessione slovena: da Tito a Milosevic
Attraverso i cambiamenti costituzionali, tra il 1945 e il 1974, la Jugoslavia si trasforma in Stato Federale, composto delle sue unità federali, in una federazione di
repubbliche: in effetti, in questo processo la sovranità si sposta dagli organi della federazione verso le repubbliche. Questa decentralizzazione sarà vista, da certi
politologi serbi, come una delle cause principali della sua esplosione. La versione centralista ed unitaria della Jugoslavia era considerata tradizionalmente dai politici
serbi come un modo di relalizzare l'unità degli interessi dei serbi abitanti delle diverse unità federali. Le classi politiche delle altre repubblihe, compreso Tito,
vedevano la stabilità della Jugoslavia, come complesso mosaico di popoli, in un modello federale più flessibile, che avrebbe evitato l'egemonia e assicurato una certa
uguaglianza della distribuzione del potere politico delle unità federali che la componevano.
Per ciò che concerne gli Albanesi, essendo un popolo non slavo , il loro status era ambiguo. I vertici jugoslavi erano coscienti del fatto che quasi metà del popolo
albanese nei Balcani si era trovato, contro la propria volontà, a causa delle decisioni delle grandi potenze, all'interno della Jugoslavia. Sull'esempio degli altri popoli
balcanici gli Albanesi avevano sviluppato un largo movimento nazionale (culturale politico e militare) nel XIX secolo, che aspirava alla creazione di uno Stato
nazionale. Uno dei focooai più importanti della resistenza contro l'Impero ottomano fu proprio il Kosovo e il movimento della Lega di Prizren (1878-1912).
Durante la seconda guerra mondiale , il PCJ, in una serie di comunicati invitò gli Albanesi del Kosovo ad allearsi alla lotta antifascista, promettendo loro la possibilità
di pronunciarsi, attraverso un referendum, sulla scelta del paese nel quale essi avrebbero voluto vedere il Kosovo (Jugoslavia o Albania).
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, questa promessa fu dimenticata, ed il Kosovo ebbe lo statuto di una provincia autonoma. Il periodo 1945-1966, è
caratterizzato da una politica di sospetto e di repressione contro gli Albanesi. Questa politica di repressione sarà oggetto di un'autocritica dei vertici Jugoslavi, cui
fece seguito la destituzione del capo della polizia politica, Alexandre Rankovic, nel quarto congresso del PCJ, nel 1966. Questa critica alla polizia politica annuncia,
d'altra parte, un periodo di disgelo e di moderato liberalismo nella vita pubblica in Jugoslavia. Questo cambiamento sarà favorevole alle rivendicazioni degli Albanesi
per una più ampia autonomia del Kosovo. Questa autonomia ottiene il suo riconoscimento più ampio nella Costituzione del 1974, che accorda di fatto al Kosovo, lo
statuto di repubblica.
La fragilità di un sistema non-democratico risulta più evidente in questa situazione di tensione tra le etnie, ma anche con l'aggravarsi della crisi economica. Una
considerevole parte del dibattito sullo statuto costituzionale della Serbia sarà accantonato dallo spazio pubblico. Ciò che è certo è che la Serbia non è riuscita a
convincere le altre repubbliche delle necessità dei cambiamenti costituzionali della Serbia e della riduzione, de jure, dello statuto del Kosovo, fino al 1989. I dirigenti
politici delle altre repubbliche avevano paura che un cambiamento costituzionale del Kosovo potesse aprire la via a cambiamenti verso il centralismo unitario, così
caro al nazionalismo serbo. Questi sforzi fatti dalla classe politica e dagli intellettuali serbi, per ristrutturare lo statuto della Serbia nella Jugoslavia, non potendo
trovare sbocco sul piano costituzionale-giuridico, si orientarono per ottenere i cambiamenti voluti verso strade e terreni "metacostituzionali". I dirigenti serbi
arrivarono ad imporre lo stato d'assedio al Kosovo, ed a far accettare la qualificazione più pesante sotto il profilo penale ed ideologico - "controrivoluzione" - della
situazione, per dare un'apparenza di legalità alla repressione sistematica e molteplice degli Albanesi.
Dopo essere riuscita ad imporre alle istanze federali le qualificazioni più pesanti, ideologiche politiche e penali della situazione esistente in Kosovo, la classe politica
serba intraprese la ridefinizione politica del periodo precedente (1966-1981), in particolare quella definita con la Costituzione del 1974, e non solo in Kosovo, ma in
tutto il paese. Attraverso le svariate forme che essa prende, questa ridefinizione si evolve a partire dalla "politica sbagliata" fino ad arrivare alla qualificazione di
"politica di tradimento degli interessi serbi" che sarebbe stata portata avanti da Tito e dalla coalizione anti-serba (croati, sloveni, bosniaci, ecc.). Questa evoluzione è
marcata da una dinamica della vita politica che diventa sempre più drammatica, investe non solo i quadri delle istituzioni statali e quelli del PC della Serbia, abbraccia
la "società civile" (tutte le associazioni culturali della Serbia, con in testa l'Accademia delle Scienze), e prende forme violente in giganteschi raduni di centinaia di
migliaia di persone, in tutte le città della Serbia.
Già all'inizio degli anni ottanta in Serbia diventa percettibile una ristrutturazione del campo politico: in partito comunista della Serbia non è più il solo attore della vita
politica. Alla sua azione si associa la Chiesa ortodossa, con la sua potente organizzazione propagandistica ed il suo storico prestigio di difensore "dell'essenza
spirituale e fisica del popolo serbo"; le varie correnti degli intellettuali, dall'estrema sinistra all'estrema destra, con tutte le loro associazioni, e le gerarchie superiori
dell'esercito divengono sempre più attive nello scenario politico. Tutti questi attori si trovano uniti sul problema del Kosovo, che assume il significato di una prova
storica decisiva per il popolo serbo. I differenti strati della società a lungo frustrati dalla mancanza di possibilità democratiche di articolare le loro rivendcazioni ed i
loro interessi, si lanciano nei raduni di massa, dando libero corso ai risentimenti contro i "nemici".
Uno dei più importanti concetti della ridefinizione del periodo 1966-81 in Kosovo è quello dell'"albanizzazione". Con ciò si designa, nella sua accezione generale,
l'espansione demografica e soprattutto "l'invasione" illegittima delle istituzioni pubbliche in Kosovo da parte di un popolo "straniero" in quanto non-slavo e non-serbo.
Questa "invasione" diventa tanto più insopportabile per gli ideologi del nazionalismo serbo, in quanto il Kosovo è definito la "culla del serbismo", definizione che
esclude la presenza secolare degli Alabnesi su questo territorio. Non si tratta di una definizione culturale: essa utilizza i monumenti storici e culturali come certificati di
diritto di proprietà esclusiva sul Kosovo.
In che modo si è realizzata l' "albanizzazione"? In effetti, il rafforzamento dell'autonomia del Kosovo, negli anni sessanta e settanta, aveva permesso l'apertura delel
scuole di lingua albanese a tutti i livelli (fino all'Università nel 1970), la creazione di case editrici, di istituzioni scientifiche, di giornali e di riviste, di radio e televisione in
lingua albanese, oltre che l'instaurazione dell'amministrazione bilingue (serba e albanese) in Kosovo. D'altra parte se queste conquiste erano garantite de jure dalla
prima Costituzione della Jugoslavia (1945), la realizzazione pratica di queste garanzie non avrà luogo che dopo la caduta del capo della polizia politica (A.Rankovic).
E' esattamente quest'accesso graduale degli Albanesi, dopo il 1966, nelle istituzioni pubbliche , che sarà considerato dagli ideologi del nazionalismo serbo come
"infiltrazione del nemico nelle istituzioni dello Stato". La propaganda si prefigge di mostrare dietro ogni forma di attività degli Albanesi, nel campo dell'insegnamento,
nella cultura, la scienza, l'economia, lo sport, ecc., l'ostilità agli interessi della Jugoslavia e soprattutto della Serbia. Le massicce campagne dei mass media durante gli
anni ottanta, tendono ad evidenziare all'opinione pubblica questo "tradimento degli interessi del popolo serbo". In parte della stampa apparivano, di tanto in tanto,
degli scritti che si opponevano a questa interpretazione, ricordando che proprio quel periodo (1966-81) era stato marcato non solo da un più intenso sviluppo
economico e culturale del Kosovo, ma anche da una relativa stabilità delle relazioni inter-etniche. Queste timide reazioni furono presto soffocate dall'assordante
clamore della potente macchina della propaganda, che era orientata al fine strategico di ridefinire lo statuto del Kosovo e della Serbia nella Jugoslavia (1).
All'inizio del 1980 Tito si ammalò seriamente. Il 4 maggio, a quasi 88 anni, morì in un centro clinico di Lubiana.
L'11 marzo del 1981 scoppiarono dei tumulti in Kosovo.
Nei dieci anni precedenti ci furono solo degli episodi sporadici.
Quindi ci fu una violenta rivolta a Pristhina ed in alcuni centri del Kosovo ad un anno appena dalla morte di Tito.
L'11 marzo '81 ci fu una vera e propria rivolta popolare con 10-20 mila Albanesi, soprattutto giovani, che gridavano "Kosovo:Repubblica!".
La pretesa non era priva di fondamento , considerato che gli Albanesi erano ormai, dopo i Serbi e i Montenegrini, quasi alla pari con gli Sloveni per consistenza
numerica nella Federazione.
Venne proclamato lo stato di assedio con 1600 morti e più di 1600 feriti.
Il governo di Belgrado , preso alla sprovvista , cercò dapprima di nascondere la drammaticità della situazione all'opinione pubblica interna ed internazionale e,
quando ciò non fu più possibile, tentò di minimizzarla assicurando ai giornalisti stranieri che il problema della minoranza albanese nel Kosovo non esisteva, essendo
stato risolto durante la guerra.
Dal punto di vista serbo, la situazione in Kosovo dopo la repressione della rivolta dell''81, non andava nel verso giusto.
La dura "differenziazione politico-ideologica" imposta nella provincia portò, negli anni successivi, secondo alcuni articoli, alla persecuzione di almeno un terzo della
popolazione albanese, inclusi i bambini delle elementari.
Ciò non spense , naturalmente, la volontà di resistenza degli Albanesi, per quanto in superficie, a parte scontri minori nel '83, sembrasse che nella provincia fosse
tornata la calma.
In questo contesto storico-politico, entra in scena la figura di Slobodan Milosevic, il quale nel maggio 1986 diventava presidente della Lega serba.
Nell'aprile dell''87 fece visita in Kosovo e si autoproclamò difensore dei suoi connazionali del Kosovo.
Aveva studiato in USA e possedeva buoni agganci soprattutto negli Stati Uniti ma anche all'estero.
Milosevic poteva presentarsi al suo popolo con diverse facce: era in grado di soddisfare tanto il desiderio delle grandi masse popolari di avere alla testa un salvatore,
quanto l'attesa degli intellettuali di un manager moderno, capace di trarre la Serbia dal marasma in cui l'avevano cacciata i suoi rappresentanti della vecchia guardia.
"Uomo carismatico, ma anche uomo senza qualità". dotato di facile oratoria, Milosevic seppe sfruttare le frustrazioni dei Serbi, che pur rappresentando il 36% della
popolazione jugoslava, erano costretti a dividere equamente il potere con le altre cinque repubbliche e le due province, ottenendo per di più salari mediamente assai
più bassi degli Sloveni e dei Croati.
"La Serbia che sarà grande o non sarà" (dal "Memorandum dell'Accademia delle Scienze").
Il 3 febbraio '89 gli Albanesi del Kosovo ripresero a protestare contro gli emendamenti alla Costituzione serba, tesi ad abolire l'autonomia della provincia.
A Pristhina e altrove si organizzarono scioperi che sfociarono in una serrata generale.
Il 20 febbraio 1300 minatori di Stari Trg nelle vicinanze di Titova Mitrovica, decisero di restare nei pozzi rifiutando il cibo e chiedendo l'allontanamento di Rahman
Morina, uno degli Albanesi "onesti", capo della milizia promosso a capo provinciale del partito.
Fu proclamato il nuovo stato di assedio.
Arresti, purghe di partito e persecuzioni di coloro che avevano partecipato agli scioperi.
Il passo successivo fu la modifica della Costituzione serba: essa prevedeva l'abolizione delle competenze che le due province avevano sul campo della sicurezza
interna, della difesa, dell'istruzione, della lingua, della giustizia e dell'economia.
Ma ciò solo se le assemblee parlamentari di Pristhina e di Novi Sad avessero a loro volta accettato di emendare le proprie Costituzioni trasferendo i relativi diritti
all'assemblea serba di Belgrado.
Nel Kosovo 215 intellettuali albanesi pubblicarono un manifesto con cui protestarono contro gli emendamenti, per finire immediatamente sulle liste di proscrizione,
mentre ai delegati dell'assemblea provinciale i servizi segreti, schieratisi apertamente con Milosevic, fecero sapere che avrebbero pagato di persona con le loro
famiglie, qualsiasi tentativo di resistenza.
Il 23 marzo dell''89, l'assemblea di Pristhina, circondata dai carri armati, votò dunque a grande maggioranza, la propria capitolazione politica. Cinque giorni più tardi
veniva proclamata a Belgrado, con grande solennità, la nuova Costituzione serba, che meritò a Milosevic la visita e le congratulazioni del patriarca della chiesa
ortodossa.
Il giorno stesso in Kosovo ci furono violenti disordini, domati, non senza difficoltà, nella successiva settimana.
Ci furono 140 morti e 370 feriti.
Le conseguenze di questo massacro furono oltre che arresti, il coprifuoco, la chiusura delle scuole e dell'università, l'invio di centinaia di persone al confino.
Nella provincia , in un'atmosfera di terrore da regime razzista, fu introdotta la legge marziale, giustificata dai media serbi con la scusa, inventata di sana pianta, che la
rivolta era stata organizzata dall'Albania, con la singolare tesi che nel Kosovo, come 600 anni prima, era in corso una lotta di difesa della cristianità e della civiltà.
Tali argomenti non riuscirono naturalmente a convincere il parlamento europeo, la cui commissione di controllo, nel maggio '89 non ebbe il permesso di visitare il
Kosovo e tanto meno ascoltare l'opinione pubblica slovena.
La secessione slovena, che segnava la fine della Lega dei comunisti jugoslavi, non bastò ad indurre i politici ed federali ad impostare una politica più accorta e aperta
al compromesso.
Il 24 gennaio scoppiarono nuovamente nel Kosovo dei disordini innescati dalla protesta degli Albanesi contro lo stato di assedio imposto alla provincia ormai da un
anno, essi costarono, a causa della brutale reazione, almeno 25 vite.
La situazione in Kosovo precipitò.
Il 3 febbraio la lega slovena si sciolse per rinascere come "Partito della Ricostruzione Democratica".
Dal nome della repubblica scomparve l'appellativo socialista.
Nell'aprile-maggio fu eletto a Zagabria presidente Franco Tudjman, ex generale di Tito, ma anche ex storico e dissidente.
In contrasto con l'impegno totale a favore delle proprie minoranze, la nuova Costituzione serba non garantiva alcuna protezione agli Albanesi del Kosovo, soggetti ad
un'oppressione sempre più dura. Verso la metà di maggio, il governo federale trasferì a quello serbo il controllo diretto sulla provincia, introdusse subito una serie di
leggi, che lo spogliavano delle poche competenze ancora rimastigli, sospendendo d'autorità, il 28 giugno, l'assemblea di Pristhina.
Il 2 luglio i membri dell'assemblea ed il presidente convocarono una seduta, in cui approvarono una dichiarazione secondo la quale il Kosovo era un'entità federale
pari alle altre della federazionae jugoslava e il suo popolo, costituendo una "nazione" era in possesso del diritto sovrano dell'autodeterminazione.
Belgrado reagì immediatamente abolendo, il 5 luglio l'assemblea e il governo provinciale e bandendo la stampa in lingua albanese.
Ci fu qunidi una successiva repressione scatenata in Kosovo con la cacciata di 15.000 persone di nazionalità albanese dai posti di lavoro, l'università di Pristhina
affollata da studenti serbi fatti affluire da fuori, la serbizzazione di tutti i posti direttivi.
I delegati albanesi, costituitisi in forum democratico, si riunirono allora clandestinamente il 7 settembre e proclamarono una Costituzione, che dichiarava
l'indipendenza della regione del Kosovo entro la Federazione jugoslava.
Seguirono arresti dei parlamentari, tradotti in massa davanti ai tribunali, con l'accusa di attentato all'integrità statale e nuovi licenziamenti da cui furono colpiti almeno
45.000 Albanesi.
Alle 8 di sera del 26 giugno '91 la bandiera jugoslava venne ammainata davanti al parlamento di Lubiana e sul pennone fu issato il tricolore, bianco, blu e rosso con il
nuovo stemma, raffigurante il mare, il monte Tricorno e le tre stelle gialle.
Fu questo l'inizio della tragedia dei Balcani che per 4 anni insanguinò l'intera Jugoslavia, lasciando fuori, ironia della sorte, proprio il Kosovo da cui era stata
originata.(2)
(1) Per la redazione della prima parte di questo capitolo, si è fatto riferimento al testo ' La Jugoslavia e la "storia serba violata" ' scritto dal filosofo politico,
Muhamedin Kullashi (1), mentre per la seconda parte si è preso spunto dal volume "Il giorno di San Vito - Jugoslavia 1918-1992 - Storia di una tragedia" di Joze
Pirjevec, edito da Nuova Eri nel novembre 1993 a Torino (2).
La resistenza nonviolenta
"Dopo la prima guerra mondiale, nella Conferenza degli Ambasciatori - Parigi 1912 - le potenze europee vittoriose diedero nuovi confini all'Albania ed il Kosovo fu
assegnato al Regno di Serbia, Croazia e Slovenia. Gli Albanesi discendenti dai grandi Illiri e terzi per numero dopo Serbi e Croati, insieme ai Greci sono il popolo
più antico dei Balcani; nonostante ciò sono trattati come una minoranza etnica, non riconosciuta giuridicamente e sottoposta a limitazioni ed ingiustizie a livello
politico, economico, sociale, religioso e culturale.
Fallito il tentativo di un dominio culturale, i Serbi cercano di eliminare fisicamente questo antico popolo o di allontanarlo dalla propria terra.
L'obbiettivo del presidente serbo Milosevic, è quello di applicare una norma che prevede l'uso della forza per sterminare almeno al 40% degli albanesi creando una
"Grande Serbia". Da sempre la Serbia aspira alla disalbanizzazione del territorio a qualunque costo, non avendo mai accettato l'esistenza degli Albanesi del Kosovo.
Il Kosovo è quindi il campo di concentramento più grande d'Europa dove si vive "come nelle catacombe: picchiati, torturati, incarcerati". "Ti prego, dì queste
cose che vedi nel mio paese agli Italiani": è la preghiera che un giornalista del Partito Democratico Albanese ha rivolto a Don Salvoldi.
Attualmente nella regione sono di stanza 60.000 serbi, molti dei quali sono criminali, ricercati dalla polizia internazionale, liberati dalle loro prigioni con l'intento di
esasperare gli Albanesi per giustificare un intervento armato.
Dal 1988 si contano 584 mila processi "ufficiali", mentre un Albanese su tre è bastonato, torturato ed incarcerato dalla polizia.
L'80% dei lavoratori albanesi è stato forzatamente sostuituito dai Serbi, i mezzi di comunicazione sono sotto controllo di Belgrado, sono negati i diritti alla scuola ed
all'educazione, è impedita l'attività sportiva sia sui campi che nelle palestre.
E' obbligatorio il servizio militare: per gli Albanesi disertori c'è la pena di morte; per chi accetta il servizio c'è il trattamento che porta all'esasperazione. Chi si ribella è
percosso a morte e, in caso di decesso viene comunicato ai famigliari che si è trattato di un suicidio. Il servizio sociale maggiormente compromesso è quello sanitario.
480 leggi imposte agli albanesi sono contrarie al diritto internazionale e mirano a "serbizzare" e colonizzare il Kosovo: è stata istituzionalizzata l'ingiustizia.
La propaganda serba cerca di screditare il popolo albanese e dividerlo facendo ricorso al fondamentalismo islamico. In realtà, come spiega il vescovo Nike Prela,
per gli albanesi conta l'albanesità, la cultura, la lingua: si definiscono musulmani-cattolici, psicologicamente e culturalmente sono più orientati ad Occidente.
Dell'Oriente non rimane che una fede imposta per 500 anni dalla domninazione turca.
Nonostante la vicinanza geografica del nostro paese ed i vantaggi di essere gli unici in Europa a non aver bisogno di visto d'ingresso, siamo disattenti ed indifferenti
alla folle aspirazione della "Grande Serbia".
Gergji lancia un appello all'Italia: "I nostri giovani hanno bisogno di contatti con i loro coetanei di altri paesi che vengano quì a fare campi di lavoro e di
studio sulle tematiche attuali, sui valori spirituali e morali e sulla non violenza che permetterebbe a noi di vincere, ma non subito.."
Un appello è rivolto anche alla Chiesa, ai mass media.
Alla stampa italiana si chiede in particolare di insistere presso le Nazioni Unite affinchè venga fatta conoscere al mondo la loro situazione. Si chiede inoltre di trovare
una soluzione politica non violenta ai gravi problemi di questo popolo in vista della sua sovranità e neutralità; d'inviare medicinali e maggiori aiuti umanitari. "Gli
albanesi si aspettano tutto questo da voi" - continua il sacerdote - "affinchè si prevenga il conflitto, evitando di correre in seguito a seppellire i cadaveri".
Ihbraim Rugova è la guida carismatica e politica degli Albanesi del Kosovo. Di ispirazione gandhiana, "presidente senza esercito e senza polizia" è "al servizio della
salvezza del suo popolo e dei popoli vicini".
La sua speranza è quella di avere un giorno il Kosovo indipendente e neutrale, aperto verso l'Albania e verso la Serbia per contribuire a risolvere il secolare conflitto
tra Serbi ed Albanesi.
La sua strategia è quella della nonviolenza: fino a ieri la vendetta era ritenuta un gesto eroico; oggi è condannata come un'assurdità. E' la Riconciliazione Universale
del popolo albanese avvenuta nel '90, dalla quale è nato il movimento politico della nonviolenza espresso principalmente dal Partito Democratico del Kosovo guidato
da Rugova stesso ed appoggiato da tutti i partiti albanesi. Il principio fondamentale è questo: "meglio subire che fare violenza".
Una madre molto giovane portava tra le braccia il figlio di 4 anni. Davanti al popolo disse: "Perdono il sangue di mio marito e mio figlio lo affido a Dio, al
popolo"; il figliolo andò spontaneamente in braccio all'omicida: lacrime ed applausi furono la reazione del popolo. Questo è uno dei tanti esempi della riconciliazione
iniziata prima di tutto all'interno del popolo albanese stesso.
Il Kosovo, reso invivibile dai Serbi, si è salvato finora solo per la saggezza popolare che fa della nonviolenza una scelta di fondo, anche per non cadere nella stessa
situazione della Bosnia.
"Le onde" - dicono i saggi del Kosovo - "turbano solo la superficie, mentre il profondo rimane tranquillo. Il volto può turbarsi, può lasciar scappare anche
una lacrima, ma nel profondo noi siamo tranquilli perchè crediamo in Dio".
Nonostante tutte le angherie subite, gli Albanesi non vogliono reagire con la violenza: sanno che un eventuale conflitto armato nel loro paese potrebbe scatenare un
conflitto mondiale, perciò accettano tutto. Ma fino a quando? (1)
(1) Dal libro "Resistenza non violenta nella Ex-Jugoslavia" di Don Valentino Salvoldi scritto, con la collaborazione del sacerdote cattolico albanese Lush Gergji, in
seguito al suo viaggio nel settembre 1993 in Kosovo, nel quale riportò le varie interviste ai testimoni.
Da Dayton all'inizio del conflitto
Nel maggio '96 la rivista "War Report" intitolava il nuovo numero "The Albanian National Question: The post-Dayton pay-off" - "La questione nazionale albanese: Il
risultato del dopo-Dayton".
Nel dicembre 1995, quando venne concluso il Trattato di Dayton per la risoluzione del conflitto dei Balcani, il Kosovo non era stato contemplato con grande
delusione degli Albanesi del Kosovo, che avevano riposto tutte le loro speranze in esso.
L'articolo ripreso dalla rivista Koha, scritto da Veton Surroi da Pristhina iniziava così:
"E' un momento di grande frustazione per il popolo albanese.
L'accordo di Dayton serve come esercizio di coercizione finale e "legale".
Le grandi potenze hanno detto che la questione del Kosovo deve essere risolta pacificamente - e attraverso un accordo che mantiene il Kosovo sotto il dominio di
Belgrado.
Eppure al tempo stesso, gli accordi bosniaci implicano precisamente l'opposto per le "parti in conflitto", ossia che i territori etnici hanno legittimità e possono essere
conquistati attraverso la violenza. Se si può ottenere l'attenzione internazionale solo attraverso la guerra, e se la guerra è meramente uno stadio intermedio sulla strada
del riconoscimento del diritto all' autodeterminazione, questo è un segnale sufficente alle forze scettiche rispetto ai metodi pacifici in Kosovo, forse in Macedonia e un
giorno probabilmente in Albania.
I leader albanesi nei Balcani sanno che nelle loro comunità ci sono persone che la pensano in questo modo e si stanno preparando ad agire.
L'articolo concludeva dicendo:
"Al momento può ben sembrare che il presente status quo sia sistemato in modo da durare per il futuro prossimo e che gli Albanesi stanno aspettando invano la
propria ricompensa. Ma allora, non è mai un gran sforzo organizzativo quello di avere gente che canta "una nazione, uno stato ed un fucile".
Infatti un'altro articolo "Broken April" scritto da Shkelzen Maliqi in Prithina confermava tutto ciò:
"L'ormai acquisito status quo è finito. Il delicato equilibrio in Kosovo, mantenuto mediante la repressione da parte della polizia e attraverso altri mezzi, è stato
distrutto nelle ultime settimane da una crescente spirale di violenza.
L'eruzione del terrorismo scoppiò, nella notte del 20-21 aprile, con la morte di Ardem Daci, uno studente albanese di 20 anni, assassinato da Zlatko Jovanic, un
serbo.
In precedenti casi analoghi, le autorità albanesi in Kosovo riuscirono ad assicurare il massimo controllo. Ma questa volta il controllo albanese si è rotto. Per la prima
volta in molti anni, a Pristhina si tenne una manifestazione di massa davanti all'edificio dove ebbe luogo il delitto. Circa 10.000 donne si radunarono senza chiedere il
permesso alla Lega Democratica del Kosovo (LDK), per protestare contro la violenza serba e la repressione di Belgrado."
Nel luglio 1997 "La Stampa" pubblicava questo articolo: "Il caso: Tirana, ucciso giornalista - aveva 26 anni, lavorava alla "Gazeta Shqiptare".
"Un giornalista del quotidiano italo-albanese G.S. è stato ucciso la notte scorsa nella sua abitazione in un quartiere malfamato di Tirana. Si chiamava Ali Ukaj, aveva
26 anni.
Lo hanno trovato in una pozza di sangue e con chiari segni di tortura su tutto il corpo. Prima di ammazzarlo ha evidentemente cercato di farlo parlare.
Originario del Kosovo, regione serba a maggioranza albanese, Ukaj si era rifugiato in Albania quattro anni fa. Una fuga in piena regola la sua e per motivi che Ukaj,
descritto come un ragazzo assai riservato, non ha mai fino in fondo confessato nemmeno ai suoi compagni di lavoro.
Arriva a Tirana nel '93, Ukaj con una laurea in geopolitica, conseguita all'università di Pristina. A Tirana il giovane si iscrive alla facoltà di giornalismo. E inizia a
frequentare la redazione della Gazeta Shqiptare, il quotidiano edito dalla Edisud Spa di Bari che pubblica in Italia la Gazzetta del Mezzogiorno. Carlo Bollino, ex
direttore della Gazeta, ricorda di averlo assunto nel '94.
"Un ragazzo serio - racconta Bollino al telefono - le circostanze della sua morte sono così misteriose che non riesco ancora a farmi un'idea del perchè sia stato
ucciso".
L'ultimo ad averlo visto vivo è un giovane di cui non si conosce il nome, venuto dal Kosovo. "Ha citofonato al giornale, ha chiesto di Ali, ha detto di essere suo
cugino", raccontano i suoi colleghi della Gazeta. Certo è che Ukaj il giorno dopo chiede un permesso, non va al lavoro ed è visto insieme al misterioso parente fare il
giro dei bar della capitale fino a tardissima sera. La polizia lo ha poi trovato cadavere intorno alle sette del mattino nella sua casa nel quartiere Ali Demi.
Ukaj lavorava per la redazione centrale del giornale prevalentemente come deskista e di recente non si era occupato di vicende politiche, se si escludono le proteste
di piazza svoltesi nella capitale alcune settimane contro le sanguinose manifestazioni anti-albanesi avvenute in Macedonia. E' opinione diffusa che il giovane, il primo
giornalista ucciso in Albania negli ultimi quattro anni, sia stato ammazzato per ragioni che nulla hanno a che fare con la rissa politica tiranese. Si sa solo che era molto
impegnato sul fronte dei problemi riguardanti la minoranza albanese nella regione serba del Kossovo. Che manteneva contatti con gli ambienti della dissidenza. Sul
Kosovo, Ukaj sapeva molte cose. E forse per questo qualcuno ha deciso di metterlo a tacere per sempre".
Il 28 Novembre 1997 appariva un altro articolo su "Il Corriere della Sera" :
"EX JUGOSLAVIA/La provincia governata da Belgrado tenta di scrollarsi di dosso il giogo di Milosevic
SCONTRI IN KOSOVO, PAURA NEI BALCANI
Tre morti negli incidenti fra Serbi ed Albanesi. Torna lo spettro della guerra.
SARAJEVO - Come una profezia si sente ripetere che la tragedia jugoslava è cominciata in Kosovo e laggiù deve finire. I sanguinosi scontri degli ultimi giorni
sembrano una conferma. Nella provincia dove vivono due milioni di albanesi e meno di duecentomila serbi (per lo più poliziotti e funzionari statali) sono state gettate,
nell'89, le basi del potere di Slobodan Milosevic. Da qui è partita l'intossicazione dell'odio etnico, con i sogni di "Grande Serbia" di un popolo ansioso di rivincite che
- unico al mondo - celebra come una vittoria la sconfitta di sei secoli fa contro il dominatore turco. "Slobo, ti amiamo come la terra arida invoca la pioggia",
cantavano un milione di serbi, mentre i fantasmi della "sconfitta vittoriosa" riapparivano per coprire di sangue la Croazia e la Bosnia.
Da allora,l'autonomia della provincia è stata schiacciata con un pugno di ferro da Belgrado. Arresti, processi sommari, torture, abolizione del diritto di usare la
propria lingua nelle scuole e nelle università, al punto che gli Albanesi hanno creato una sorta di apartheid sociale e istituzionale: un governo in esilio, rappresentanze
politiche non riconosciute, un sistema scolastico e sanitario. A Pristina, la capitale della provincia, Serbi e Albanesi camminano su marciapiedi separati e non
frequentano gli stessi ristoranti. I gruppi sociali più ricchi cercano di aumentare il distacco da Belgrado acquistando le case dei Serbi e avviando proprie attività
economiche.
Il conflitto ha impennate periodiche, di pari passo con le mediazioni internazionali (ancora vano l'intervento della Comunità di S.Egidio) e con i contatti infruttuosi fra
Belgrado e le rappresentanze locali. Milosevic ha ribadito che "il Kosovo è un affare interno alla Serbia", ha offerto diritti e autonomia, ma ha disatteso le
promesse,innescando la spirale degli incidenti.
Quelli di questi giorni seguono lo stillicidio di attentati a caserme, agguati contro le autorità serbe, ondate di arresti e processi sommari e le manifestazioni degli
studenti represse dalle cariche della polizia. Lunedì, un agguato a funzionari giudiziari nella zona di Serbica, dove si troverebbero basi dell'"Esercito di Liberazione del
Kosovo", ala armata del movimento albanese, la cui esistenza viene negata dai leaders del Kosovo. Qualcuno sospetta che l'"Esercito" sia una creatura dei servizi
segreti serbi per innescare provocazioni. Nei processi in corso a Pristina, alcuni giovani albanesi avrebbero ammesso di farne parte, ma sostenendo di essere stati
picchiati e torturati.
Alle sparatorie di Serbica sono seguiti attacchi a stazioni di polizia e la battaglia nel villaggio di Laush, dove le forze serbe, con blindati ed elicotteri, hanno risposto al
fuoco di mortai e kalashnikov albanesi. Sul terreno, diversi feriti, dopo ore di scontri. Altri attentati l'altra notte a Decanj. Morti due poliziotti serbi e un giovane
albanese.
L'ondata di violenza potrebbe essere il segnale di un cambio di strategia dei leaders albanesi, impossibilitati a tenere sotto controllo la rabbia popolare e le spinte
degli studenti. Finora, il leader Ibrahim Rugova, "presidente" della provincia, era riuscito a far prevalere la linea "gandhiana" della non violenza su quella, più
combattiva del "Mandela albanese" Adem Demaci che ha trascorso 27 anni in prigione.
La "polveriera" rischia di esplodere. La concomitanza di fattori è difficilmente controllabile, anche per la presenza di maestri di torbidi traffici che i Balcani producono
in quantità. Buona parte delle armi in circolazione in Albania verrebbero contrabbandate in Kosovo, focolaio peraltro non estraneo ai disordini di Tirana. In Serbia, il
potere di Milosevic vacilla sotto i colpi di elezioni perdute e della devastante crisi economica: molti Albanesi - come recentemente i Montenegrini - ritengono che sia
giunto il momento di dare una spallata decisiva. Domenica si vota a Belgrado per la presidenza serba e il candidato favorito è Vojslav Seselj, leader nazionalista
radicale ed ex capo delle milizie paramilitari in Bosnia. Un tipo che non esiterebbe a spegnere nel sangue i sogni degli Albanesi, considerando il Kosovo "sacra terra
serba".
Il Kosovo è sempre più una polveriera anche perchè qui sono stati ammassati migliaia di profughi serbi cacciati dalla Croazia e dalla Bosnia, gonfi di rancore e
vittime essi stessi di attacchi e provocazioni.
Infine, Milosevic, nel tentativo di spegnere i punti di riferimento esterni al Kosovo, ha recentemente raggiunto un accordo con il presidente albanese Fatos Nano, il
quale, date le condizioni dell'Albania, si è impegnato alla non ingerenza. Strumentalizzando gli incidenti, Milosevic potrebbe utilizzare ancora una volta il Kosovo per
ricompattare lo spirito serbo sconfitto e rinviare la resa dei conti del suo regime.
Massimo Nava"
Domenica 30 Novembre 1997, apparve un terzo articolo su "La Stampa":
"Kosovo, separatisti mascherati (e 20 mila dimostranti) al funerale di una vittima dei Serbi
INSORGE LA PICCOLA ALBANIA: I guerriglieri escono allo scoperto
SARAJEVO - Ventimila persone a un funerale, guerriglieri mascherati che sventolano la bandiera albanese, carri armati, elicotteri e truppe speciali alla periferia di
Pristina, un altro "collaborazionista" ucciso l'altra sera.
Le notizie che giungono dal Kosovo sono di quelle che annunciano l'esplodere di un'altra tragedia.
Se l'allarme può suonare scontato (soprattutto a quanti immaginano i Balcani come un'area che sarebbe bello abbandonare a se stessa) gli ultimi giorni segnalano un
fenomeno nuovo. Qualcosa che inserisce un elemento perverso perfino nell'antologia dell'orrore che la Jugoslavia ha fornito al mondo.
Quel che succede a Pristina innesta su un conflitto primitivo prospettive irlandesi, proietta di colpo un conflitto latente, una guerra cronica nella dimensione dello
scontro totale.
Dopo le sparatoie tra dimostranti e polizia,l'altra notte un maggiorente è stato ucciso nel villaggio di Prestanica. Si chiamava Dalip Dogoli, aveva 58 anni ed era
esponente del "Sps", il partito di Milosevic. Nella regione del Kosovo questo equivale all'unzione, segna l'appartenenza ad una casta, promuove a guardiani della
tradizione i 200 mila Serbi e assimilati che cercano di contenere la spinta di un milione e 600mila Albanesi sempre più giovani, numerosi, aggressivi, disperati.
Tre giorni fa c'erano stati altri morti, tre Albanesi ed un poliziotto serbo, ma in una regione che negli ultimi anni ha prodotto più di 200 vittime, questa non sarebbe
stata una novità.
La vera svolta si è espressa attraverso due funerali. Quello che nel villaggio di Reznice ha accompagnato verso il suo Dio Ismet Djocai (un albanese che aveva
partecipato all'attacco contro una stazione di polizia serba) e le esequie di Haliti Gaci, un povero insegnante di liceo morto a Lausa durante gli scontri fra dimostranti
e truppe serbe. Ebbene: a Lausa, villaggio di confine, senza telecamere della "Cnn" ad immortalare il momento, 6000 albanesi seguivano il funerale e quasi 20 mila
erano dimostranti che a Reznice erano dietro la bara del terrorista. Non solo. Fra i dolenti si sono viste persone mascherate che agitavano bandiere albanesi e si
dichiaravano esponenti dell'"Uck", Esercito di Liberazione del Kosovo.
Ecco un'identità della cui esistenza molti avevano dubitato e che ieri invece è uscita allo scoperto dimostrando come la diaspora albanese abbia potuto organizzarsi
negli anni acquistando sicurezza, contatti e grandi mezzi. Come accadde ai Baschi dell'"Eta" o agli Irlandesi dell'"Ira", gli indipendentisti albanesi adesso fanno sapere
di esserci ed annunciano una stagione di guerriglia.
Uno scontro che si riproduceva da quarant'anni, una guerra latente sormontata dagli altri eventi balcanici, torna dunque ad esplodere in versione ferocemente
"moderna", annunciando una stagione di terrorismo e repressione.
E' un meccanismo dal quale i moderati di entrambe le parti rischiano di rimanere esclusi. Il leader degli albanesi, Ibrahim Rugova, l'uomo che finora era riuscito a
contenere le spinte di una maggioranza sempre più ribollente, sembra fuori gioco.
Persino il leader che lo contestava a sinistra, Adem Demaqi, si scopre scavalcato dal misterioso gruppo clandestino. Cercando di contrastare le strategie
dell'"Esercito di Liberazione", corre ai ripari formando un partito trasversale che si definisce Forum democratico ma che deve fare i conti con spazi di democrazia
sempre più ridotti.
Dall'altra parte sono i Serbi, che nel Kosovo piantano le radici più profonde della loro tradizione. Fu quì, nel XIV secolo, che cedendo alle armate turche, i loro
antenati gettarono il seme di un'epoca dell'eroismo, del sacrificio, dell'isolamento, di uno stolido orgoglio che ancora pretende di resistere agli invasori ed ai
successori dei secoli.
Dal Kosovo, tornano ad alzarsi voci che chiedono al mondo di intervenire. Anton Nokaj, vice presidente del partito di Rugova, parla di "terrorismo di Stato" e
chiede una mediazione internazionale. Le reazioni serbe sono più dure che mai.
Milan Milutinovic fino a due mesi fa era il ministro degli Esteri di Belgrado e fra pochi giorni si appresta a contrastare nelle elezioni presidenziali un avversario
primitivo e feroce, il radicale Vojslav Seselj.
Se però si tratta di identità serba, la sua posizione è dura esattamente come quella del rivale politico interno. "Quello del Kosovo è un nostro problema", ripete senza
tentennamenti. Se si tratterà di contrastare il nuovo terrorismo albanese, la Serbia lo farà come solo i Serbi riescono a fare. Ed in un Paese che si sentiva già
circondato, il venir meno di uno dei pilatri dell'identità nazionale può condurre solo a reazioni sfrenate.
Giuseppe Zaccaria"
A questi primi segnali pericolosi seguirono gravi scontri tra la popolazione locale e l'esercito serbo, culminati il 28 febbraio scorso con l'eccidio di Drenica, costato la
vita ad oltre 80 civili, donne e bambini compresi. Sono state proprio le immagini sconvolgenti di quei corpi inermi, giunte con Internet in ogni angolo del pianeta, a
sensibilizzare la popolazione mondiale su un problema definito, fino a quel momento. di ordine interno.
La Mostra itinerante a cura della Campagna per una soluzione nonviolenta in Kosovo, che in un anno e mezzo ha toccato una quindicina tra le più importanti città
italiane, vuole essere un'ulteriore testimonianza ed un appello di pace e di speranza non solo per il Kosovo, ma per tutte le ingiustizie provocate o subite.
La Rassegna Stampa, che ripercorre l'ultimo periodo, dal novembre 1997 al maggio 1998, teatro di violenti scontri tra esercito serbo e UCK, l'esercito di
liberazione del Kosovo e di interventi diplomatici da parte della comunità internazionale, si propone come documento importante per una maggiore comprensione del
problema kosovaro.
da
http://www.arpnet.it/regis/storiakosovo.htm
--------------------------------------------------------------------------------
Riflessione
http://www.home.ch/~spaw2239/attuale/sfidaecumenica.htm
La sfida ecumenica