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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Ospedale « S. Cuore - Don Calabria » - Negrar (Verona)

Dipartimento di Riabilitazione

"La coscienza è qualcosa di cui conosciamo il significato finchè nessuno ci chiede di definirla"

W. James (The principles of psychology)

Convegno di approfondimento

Venerdì 1 Ottobre 2004

La : COSCIENZA

linea di confine?

Il significato del termine coscienza interroga quanti hanno a che fare non solo con la malattia, ma tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’uomo. In fondo la coscienza può essere identificata con l’essenza stessa dell’uomo.

Definirne i confini, la fenomenologia, le modalità per comprenderla dal punto di vista biologico ed etico, interrogarsi sull’esistenza o meno di forme diverse di coscienza, comprendere cosa avvenga quando essa si "affievolisce" o "riappare": questi gli obiettivi del convegno. Un incontro per quanti a vario titolo desiderano confrontarsi con un tema affascinante e ricco di implicazioni in molti ambiti professionali.

8.45 Registrazione dei partecipanti

9.15 Saluto del Presidente dell’Ospedale "Sacro Cuore - Don Calabria"

MODERATORI :R. Avesani - M. G. Gambini

Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione dell’Ospedale "Sacro Cuore - Don Calabria"

9.30 Vi può essere una scienza della coscienza?

A. Zeman Dipartimento di Neuroscienze di Edimburgo

10.10 La coscienza tra il sé e l’altro

M. Chiodi Facoltà Teologica del Nord Italia

10.50 Coffee Break

11.10 Verso un’epistemologia della coscienza

A. Paternoster Facoltà di Filosofia dell’Università di Torino

11.50 La coscienza e l’inconscio: tra psicoanalisi e neuroscienze

M. Mancia Istituto di Fisiologia Umana II dell’Università di Milano

12.30 Buffet

----- MODERATORI:

A. Bricolo - Dipartimento di Neurochirurgia di Verona

C. Morosini - Milano

14.00 Proiezione del filmato : "L’inquietante sguardo di Monica"

14.20 L’affievolirsi della coscienza nelle demenze

M. Trabucchi Università Tor Vergata - Roma

14.40 Il black out della coscienza negli stati di coma

P. Boldrini Dipartimento di Riabilitazione di Ferrara

15.10 Difficoltà cognitive ed autodeterminazione

A. Canevaro Università di Bologna

15.40 Il ruolo dell’ordinamento giuridico nella tutela dei soggetti deboli

A.M. Creazzo Giudice Tribunale di Verona Sezione Famiglie

16.00 Chi è Monica adesso?

R. Ghiozzi Bolzano

16.20 Discussione

17.00 Chiusura dei lavori

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SEGRETERIA SCIENTIFICA

Renato Avesani - Maria Grazia Gambini - Gianfranco Rigoli

Dipartimento di Riabilitazione

Ospedale "Sacro Cuore - Don Calabria"

COORDINAMENTO ORGANIZZATIVO

Martina Speri

Ufficio Formazione - Ospedale "Sacro Cuore - Don Calabria"

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA

Ufficio Formazione

Ospedale "Sacro Cuore - Don Calabria"

Via Don A. Sempreboni,5 - 37024 Negrar (VR)

Telefono 045 6013208 • Fax 045 7500480il

Patrocinio di:

• Ordine dei Medici di Verona

• SIMFER (Società Italiana Medicina Fisica e Riabilitazione)


LA COSCIENZA TRA IL SE' E L'ALTRO

Maurizio Chiodi


Una riflessione etico-antropologica

C’è una linea di confine tra il prima e il dopo la ‘coscienza’?
E che cos’è coscienza?


Questa è una domanda ricca di implicazioni pratiche. Sotto questo profilo, nella prassi medica e nella riflessione bioetica, la questione della coscienza è di drammatica attualità, quando ci si trova di fronte a soggetti che vivono nel cosiddetto stato vegetativo permanente o persistente, e che hanno perduto – o sembrano aver perduto – la coscienza, in seguito a trauma o a lesione cerebrale, in modo permanente e forse definitivo.

Una situazione assai diversa, e tuttavia simile per altri aspetti, è quella di soggetti con disturbi di coscienza, come nel caso di pazienti afflitti da progressivo stato di demenza senile. Quel che ci si chiede è se, con la definitiva scomparsa della coscienza – nel caso del malato in coma o di un paziente affetto da demenza senile o di un disabile grave –, siamo ancora effettivamente in presenza di un uomo.

Svolgerò la mia proposta di riflessione in tre momenti: 1) dopo aver fatto cenno al dibattito scientifico e filosofico, 2) mi soffermerò soprattutto su una teoria della coscienza come sé, cosa che mi sembra il compito più urgente per una riflessione etico-antropologica oggi (per la filosofia e la teologia); per concludere infine 3) con alcune osservazioni relative soprattutto alla cura del malato terminale.

1. Cenni al dibattito scientifico e filosofico sulla coscienza


L’intento che sta alla base di questo mio intervento oggi è di poter contribuire al recupero di un significato di coscienza che non appaia ridotto soltanto a essere una capacità’ o una ‘facoltà’, e comunque una componente parziale dell’uomo. Ed è invece quanto accade oggi, con notevole frequenza, nei dibattiti scientifici e anche filosofici. Di rimando, questo accade anche nei discorsi del linguaggio ordinario.

La coscienza, a mio parere, non è qualcosa d’altro rispetto alla totalità della libertà del soggetto, nella sua relazione all’altro.
In ambito filosofico, la coscienza viene volentieri ridotta a una proprietà dell’uomo e precisamente alla sua facoltà o capacità di conoscenza e autocoscienza. Per questo motivo essa viene ritenuta importantissima, in quanto appunto è considerata decisiva e determinante per il riconoscimento della dignità umana dell’uomo. Su questo sfondo, i sostenitori (prevalentemente in ambito cattolico) del cosiddetto ‘personalismo ontologico’ affermano che si deve riconoscere una «determinazione sostanziale prima che attualistica dell’essere persona».

E così essi ritengono che l’uomo sia persona anche quando attualmente esso non sia capace di coscienza. E per ciò, paradossalmente, mentre si riconosce che la persona è caratterizzata da determinate caratteristiche, come la capacità di coscienza e la relazione, la loro assenza – e in particolare l’assenza della ‘coscienza’ – non pregiudica il riconoscimento del carattere personale di un determinato soggetto: «non è possibile inferire l’assenza della persona dall’assenza dei tipici signa personae o di sue operazioni ... L’esser persona non è un dato di natura empirica, ma una condizione ontologica radicale, non dipendente dall’età, dalle condizioni di sviluppo fisico-psichico, dal livello di coscienza, ecc.».


Sempre richiamandosi al concetto di persona, ma al contrario del personalismo ontologico, partendo dalla famosa definizione di Locke e riprendendo questa posizione empiristica – che opera una netta de-sostanzializzazione del concetto di una persona (umana), sostituendovi un approccio empirista –, molti studiosi (di bioetica) sostengono oggi una posizione attualistica e funzionalistica, secondo la quale il venir meno nell’uomo della sua coscienza (e relazionalità), in modo prevalentemente definitivo, determina anche la sua fine come persona e dunque la sua morte.
Il problema della ‘coscienza’, nel Novecento, si è ulteriormente allargato con l’introduzione dell’approccio psicanalitico di Freud, che, criticando la riduzione dell’uomo a coscienza, ha elaborato la teoria dell’Io (che in sostanza è l’equivalente di quel che qui denominiamo Sé), dell’Es e del Super-Io. La psicanalisi di Freud – e di tutti i succedanei –, al di là della critica elaborata alla nozione di coscienza come consapevolezza e come senso morale, è un invito forte a proseguire una riflessione che approfondisca una teoria della coscienza, nel riconoscimento anzitutto che questa non può assolutamente ridursi a consapevolezza di sé.


A proposito dell’attuale dibattito sulla coscienza mi pare importante sottolineare come oggi sia viva, in ambito scientifico, la discussione e il confronto tra la neurologia e la psicanalisi. C’è infatti tutto un filone di interpretazione delle neuroscienze che propone di superare nettamente una concezione ‘meccanicistica’ della neurologia, aprendola ad approcci clinici più attenti alla dinamica della vita mentale o psichica. Questo approccio evidentemente è fortemente critico verso il metodo di una neuroscienza che ritenga che un fenomeno ‘mentale’ non sia nient’altro che un fenomeno biologico, appunto riducendo gli stati mentali a stati organici; ugualmente, in quest’ottica si ritiene riduttivo pensare che un processo mentale sia adeguatamente compreso individuandone l’origine in strutture genetiche o nei processi anatomico-fisiologici o nei meccanismi biochimici corrispondenti.

Un esempio tipico di un simile riduzionismo è rappresentato da Crick – lo scopritore della struttura a doppia elica del DNA –, il quale, andando alla ricerca dell’anima secondo un metodo rigorosamente scientifico, alla fine non poté trovare ciò che fin dall’inizio si era impedito di scoprire (con questa sua limitazione di metodo) e dunque non poté concludere – secondo quanto prescriveva l’ipotesi iniziale – se non che «tu non sei altro che ... le tue cellule nervose e le loro molecole».


Contro ogni riduzionismo, e aprendosi a nuove prospettive interdisciplinari, soprattutto tra i cultori delle scienze neurologiche o neuroscienze, si moltiplicano i segnali di apertura e di superamento di un metodo rigidamente positivistico. In questo senso mi sembra interessante la neuropsicologia del profondo, o neuropsicoanalisi, una scienza che si propone di articolare l’interesse per i meccanismi cerebrali alla base dei dinamismi psichici – cosa che ha registrato grandi sviluppi in questi ultimi vent’anni – con l’attenzione al vissuto del mondo psichico e mentale del paziente.
Le questioni metodologiche (epistemologiche) sollevate dai sostenitori di questa nuova disciplina, sono paradigmatiche per illustrare il tentativo, in ambito scientifico, di trovare nuovi percorsi e modi di intendere la vita mentale o psichica e il suo nesso con il corpo.

La domanda fondamentale, da cui parte la neuropsicanalisi, è: qual è la relazione tra corpo e mente?

Quali sono i correlati fisiologici e neurologici (corporei) del ‘mondo interno’ (mente)?
La questione, è evidente, nasce per superare il dualismo tra lo studio oggettivo della vita mentale tipico delle neuroscienze e lo studio soggettivo della psicanalisi. L’obiettivo è anche di superare l’accusa che neuroscienze e psicanalisi si rivolgono reciprocamente: secondo le neuroscienze, la psicanalisi non sarebbe realmente ‘scientifica’ e, secondo la psicanalisi, la neurologia sarebbe troppo semplicistica. Senza facili irenismi, la neuropsicanalisi cerca di andar oltre lo storico fossato tra neurologia e psicanalisi.
Certo, la domanda da cui parte la neuropsicanalisi – qual è la relazione tra corpo e mente – è interessante e istruttiva. Ma a mio parere essa ne richiederebbe un’altra, più alla radice, che metta a tema – ancor più che il problema epistemologico – la questione antropologica di fondo:

che cos’è il corpo? e che cos’è la mente? e chi è il soggetto uomo? e che cos’è ‘coscienza’?

Nella neuropsicanalisi invece la questione rimane in fondo ferma al livello epistemologico. Dopo una breve ricognizione dell’approccio filosofico al problema complesso del rapporto tra mente e corpo, Solms e Turnbull riconoscono con forza e giustamente che si deve andare oltre una risposta puramente scientifica, sostenendo che la questione scientifica (del rapporto tra corpo e mente) non può situarsi se non entro una più complessiva teoria o visione del mondo: «la scienza si limita a rispondere a domande che possono essere formulate entro una particolare concezione del mondo; la scienza, però, non è in grado di controllare la concezione del mondo, in quanto tale». E il riconoscimento è senza dubbio un passo e un tentativo assai interessante, per uno scienziato!
Ma di fatto la loro proposta rimane soltanto a un livello epistemologico. A questo livello, essi parlano di «monismo dal duplice aspetto percettivo» (dual-aspect monism) e in quest’ottica la distinzione tra corpo e mente viene considerata legittima – poiché ci è impossibile sfuggirvi –, ma artificiale. Ma la differenza dei saperi rimane legata solo al punto di vista: osservando il cervello dall’esterno, come un oggetto, la materia ci appare ‘fisica’, e osservandolo dall’interno, dal soggetto, esso ci appare ‘mentale’. Esso è insieme l’osservato e l’osservatore. Tutto lo studio, allora, va alla ricerca della ‘combinazione’ o ‘correlazione’ di questo duplice punto di vista.

La proposta, pure interessante, andrebbe ampliata e superata elaborando un’antropologia. Non c’è in gioco solo la correttezza di una conoscenza, ma l’interpretazione dell’esperienza stessa. In effetti, è ancora troppo poco parlare della realtà, e cioè dell’esperienza umana, come di una ‘materia’ che sarebbe semplicemente osservabile, e conoscibile, da un duplice punto di vista. Nonostante tali limiti, risultano molto interessanti le affermazioni di Solms e Turnbull a proposito della unicità del Sé, che è insieme osservatore e osservato. L’affermazione mi pare interessante proprio perché introduce una prospettiva molto simile alla fenomenologia, nella quale, oltre la distinzione tra oggetto e soggetto, si mostra l’inseparabilità della ‘cosa’ dall’esperienza che io ne ho: l’oggetto appare a me, e tuttavia è proprio esso che mi appare. Io ne sono toccato. La prima attività del soggetto consiste nel riconoscere di essere passivo e affetto da. Ma, con queste affermazioni, stiamo già elaborando un’antropologia. Per questo è necessario andare oltre una semplice epistemologia, e cioè il livello della conoscenza, per accedere alle ‘cose stesse’, e cioè all’esperienza umana nella sua originaria qualità attivo-passiva, autonoma e dipendente, e dunque permanentemente debitrice.

2. La coscienza come Sé


La ‘coscienza’ è il termine che designa l’uomo nella sua identità personale. In tal senso esso coincide con quello che nel linguaggio diffuso noi designiamo come persona o soggetto. Coscienza, dunque, è molto più di ‘consapevolezza’ e autoconsapevolezza, o autocoscienza. Riprendendo un orientamento diffuso nel mondo fenomenologico mi pare sia da sottolineare con chiarezza che coscienza è la nozione che identifica il soggetto, nella sua totalità e unicità singolare. Oltre che di coscienza, si potrebbe anche parlare, equivalentemente, di Sé, sottolineando così la sua differenza con la nozione, più riduttiva, di Io (nel senso di Ego).
Ovviamente, con questa proposta, non si tratta qui soltanto di proporre un’operazione di maquillage linguistico. Quel che più è necessario è interpretare in modo adeguato e organico l’esperienza singolare e personale di ciascun uomo. Al di là dei giochi nominalistici, il compito impegnativo è di svolgere effettivamente una teoria della coscienza, individuando i tratti caratterizzanti e specifici della condizione umana. In questa linea, e in modo estremamente sintetico, propongo questa breve riflessione.

(a) La coscienza è sempre intenzionale, e tale intenzionalità è, come si dirà, una esperienza pratica. La coscienza è sempre coscienza-di. Essa è dunque in rapporto a un senso che le è dato, o donato, nelle molteplici esperienze della vita. Per questo originario rapporto alla passività, e all’alterità, che costituisce la coscienza, si può dire che il Sé (= coscienza) è l’Io nel suo rapporto all’altro, il quale a sua volta è pure un Sé, da sempre impegnato in un’originaria relazione all’altro. Il Sé è l’Io come un altro. Il Sé si differenzia dall’Ego proprio a ragione dell’altro.

(b) Procedendo nella riflessione circa la ‘passività’ inscritta nella coscienza, si deve sottolineare che affermare la passività della coscienza non implica affatto la caduta in una teoria meccanicistica o deterministica. Ma, per evitare questo pericolo, occorre precisare il nesso tra passività e attività. L’attività, come azione e decisione di sé (o autodeterminazione), non va intesa come pura libertà, ma come quella determinazione di sé che proprio dalla passività è suscitata e istruita. Noi infatti siamo istruiti, nel nostro volere, proprio da quanto ci accade. Non sarebbe dunque possibile per la coscienza attuare la propria libertà e dunque se stessa nella sua unità singolare, pratica e teorica, determinandosi nella relazione al mondo-della-vita, se questo non le venisse dischiuso, in una originaria passività, proprio nelle esperienze che le aprono un senso da volere.
La coscienza è attiva proprio perché essa è ‘passiva’ ed è da-sempre-legata alle ‘esperienze’ di sé, nel corpo (c), nella relazione all’altro (d) e agli altri (e). Approfondiamo brevemente questi momenti dell’esperienza – come passività e alterità –, che tuttavia non vanno concepiti come livelli sovrapposti, ma trasversali. Essi non esistono, fin dal primo istante, se non tutti e tre insieme, pur essendo possibile, sotto il profilo teorico, separarli concettualmente.

(c) Che il Sé sia come un altro appare in esperienze molteplici, che si possono in prima battuta unificare nell’esperienza del corpo. Il corpo per l’uomo è l’esperienza del proprio corpo: esso è sentito non come un oggetto (Körper), ma come il corpo proprio del soggetto (Leib), la sua carne (chair). In tal senso si può anche parlare di un Sé corporeo: io sono il mio corpo, anche se il Sé è trascendente e va oltre esso, ma non è dato a sé se non nel corpo e come corpo. C’è per questa ragione un nesso indissociabile tra il Sé e l’esperienza del proprio corpo, come originaria esperienza di una passività donata, che ci antecede costituendoci. Il corpo attesta alla coscienza che c’è un patire originario che l’affetta e che è la forma originaria di ogni umana passione.
Il proprio corpo, la carne, diventa così la prima e fondamentale forma di esperienza dell’alterità.

Molte osservazioni delle neuroscienze in generale e della neuropsicanalisi in specie confermano con forza questa linea di riflessione: anzitutto, per cominciare, il fatto che la coscienza sia tale perché essa è relazione al corpo. In secondo luogo, è interessante notare che l’organo corporeo centrale, il cervello – che è costituito da un tipo particolare di cellule, quelle nervose, caratterizzate non solo per la loro costitutiva comunicazione l’una con l’altra, ma anche per il condizionamento che esse subiscono in rapporto alle esperienze legate al sistema del mondo ‘esterno’ –, assicura una funzione di mediazione essenziale tra il mondo ‘al nostro interno’ (le funzioni vegetative e organiche del corpo) – e perciò c’è una relazione centrale tra coscienza e corpo – e il mondo ‘all’esterno’, con la relazione a tutto ciò che accade ed è altro da sé. Per questa ragione la coscienza è intenzionale: essa è infatti riferita a una coscienza del sé corporeo e al suo vissuto, ma non chiuso in se stesso, bensì sempre nel suo costante rapporto a ciò con cui è in relazione: «la coscienza è qualcosa di più che una mera consapevolezza dei nostri stati interni; essa consisterebbe piuttosto in una funzione continua di accoppiamento, che congiunge, in una costante oscillazione, gli stati attuali del Sé con quelli correnti del mondo degli oggetti».
In terzo luogo, la neuropsicanalisi sottolinea in modo assai interessante – mettendo in luce il ruolo e decisivo dei lobi prefrontali del cervello in rapporto a tutta l’attività cerebrale – un decisivo legame tra l’agire progettuale e la coscienza, a partire dal suo centrale ruolo di mediazione tra il vissuto corporeo e le relazioni.

In quarto luogo, è assai istruttivo il legame inestricabile tra tempo, memoria – che è il ricordo e l’interpretazione delle esperienze di sé nel tempo – e coscienza.

Nella neuropsicanalisi infine, altrettanto importante appare il nesso – andando così oltre qualsiasi artificiosa separazione tra facoltà – tra emozioni e coscienza, come coscienza di sé. La coscienza non sta infatti solo nell’avere delle percezioni, ma nel poterle pensare, sia nel presente che nel passato (e questo è legato al linguaggio). E questo la caratterizza come coscienza riflessiva. Tale consapevolezza, proprio in quanto consapevolezza della percezione, è fondata sulla percezione, e su quello che Solms e Turnbull chiamano consapevolezza emozionale.

Delle emozioni, Solms e Turnbull propongono una interessante ‘fenomenologia’, sempre a partire dalle strutture cerebrali che ne costituiscono i sistemi ‘generanti’.

Anzitutto, essi distinguono tra le strutture legate alle sensazioni piacevoli e altre legate a sensazioni di dispiacere, differenziando queste ultime da quelle legate al dolore.

Altra cosa interessante è che le nostre emozioni non sono solo delle percezioni, ma sono anche delle ‘scariche motorie’ o meglio delle forme di azione, che spingono sempre ad agire. In questo appare evidente l’inscindibile nesso tra l’aspetto percettivo e quello motorio, interno alle emozioni stesse.

Sempre in questa ‘fenomenologia’ delle emozioni, Solms e Turnbull distinguono quattro «sistemi di comando» o di attivazione delle emozioni di base:

il sistema di ricerca del piacere, che parte dalla rilevazione del bisogno e interagisce col sistema di memoria, in una strettissima e continua dipendenza tra corpo, emozioni e azioni;

il sistema della rabbia, che, quando viene ostacolato il raggiungimento di una meta, reagisce a stati di frustrazione generando reazioni di aggressività (di combattimento e attacco o di fuga);

il sistema della paura, che produce fuga o immobilità;

infine il sistema del panico, o angoscia da separazione, legato al comportamento materno e all’angoscia da separazione.
Tutti e quattro questi fondamentali tipi di «sistemi di comando delle emozioni di base» o ‘spinte emozionali’, che stanno alla base della vita quotidiana, per un verso sono legati a comportamenti stereotipati – e fissati geneticamente – e per altro verso sono suscettibili di continue modifiche e apprendimenti: essi «non sono pre-determinati (hard-wird) al punto da essere immodificabili».

E questo sottolinea ancora il nesso circolare tra le emozioni e l’apprendimento legato all’esperienza.

In questo indissociabile legame tra esperienza del corpo e esperienza di Sé, tra coscienza e corpo, coscienza ed emozioni, coscienza e azioni, coscienza e memoria, coscienza ed esperienze, la coscienza appare – anche grazie al contributo della neuropsicanalisi – ben più che una semplice funzione di vigilanza, di attenzione, o di consapevolezza di sé.

Dal punto di vista fenomenologico, essa è propriamente la sintesi di passività nell’attività e di attività nella passività: ove la passività propria, legata al corpo, è il momento determinante per l’attività e l’attuazione di sé.

(d) La coscienza si identifica come tale nella sua relazione al tu dell’altro. Le riflessioni sin qui svolte sul corpo proprio, o carne, come prima forma dell’esperienza di passività inscritta in modo originario nella coscienza, chiedono di essere ora sviluppate approfondendo la nozione dell’alterità, di cui è esperienza la passività. L’esperienza del corpo è quindi già, nella e per la coscienza, esperienza dell’altro. Tra il sé e l’altro c’è una relazione originaria. Senza l’altro io non ci sarei e perciò gliene sono grato. Questo appare nella sua lucente verità nella relazione filiale, che è in questo senso forma paradigmatica della relazione buona (anche se non sempre tale relazione è davvero tale).

È a un altro, anzi all’amore di due altri – un uomo e una donna – che io devo dire grazie, se ci sono. Io sono debitore di me ad altri. Non mi sono fatto da solo. Questa è la condizione universale di ogni uomo.
Pensare il soggetto come un individuo, esistente a monte e prima della sua relazione ad altri, significa cadere in un falso individualismo, che dimentica come la relazione ad altri – il tu, o il volto – sia costitutiva per il sé personale.

Ma per altri aspetti è altrettanto pericoloso pensare all’altro come colui che annulla e spossessa il soggetto, cadendo così in un oblativismo che, sotto le mentite spoglie della dedizione, non riconosce che se l’altro mi chiama e mi costituisce responsabile, è perché sono io che sono interpellato. Il soggetto non è coscienza di sé se non nella relazione con altri e in questa relazione si costituisce la sua identità (della quale dunque sarebbe meglio parlare in termini di ipseità). L’altro, per la sua stessa presenza, mi ingiunge di riconoscere in lui un altro Sé, come me: non uccidermi! Uccidere significa invece pretendere di annullare la sua irriducibile e insostituibile differenza a me, volendone essere padrone e despota. La vita buona consiste nel vivere con l’altro e per l’altro, in quella attiva relazione di sollecitudine e di prossimità nella quale è proprio prendendomi cura dell’altro che io decido di me e della qualità eticamente buona della mia libertà. Non uccidere significa, radicalmente: amami!.

(e) La ‘cultura’, o costume socio-civile, o ethos, è la terza forma di passività che costituisce la coscienza personale. L’altro non è soltanto il tu. È ogni altro ed è dunque l’altro senza volto, dove il tu diventa il ciascuno.
A questo livello ci incontriamo con quella forma delle relazioni umane che si caratterizza non per la prossimità, ma per la socialità.

La coscienza, in questo suo rapporto all’altro, è dunque inscritta da sempre in rapporti sociali, civili, istituiti, come appare in modo paradigmatico nel caso della lingua di un popolo. In questi rapporti si dischiude per la coscienza un progetto unitario di senso, la forma buona della vita di un popolo. Nei confronti dell’ethos condiviso la coscienza personale, nella sua storia concreta, è quindi radicalmente debitrice.

Lungi da essere solo ‘convenzionali’, i rapporti sociali hanno un’ineludibile e originaria qualità etica, come appare, ad esempio, nell’esperienza del linguaggio e della parola. Questi rapporti sono cioè carichi di senso: sono la esperienza (forma) della vita buona che, in prima battuta, plasma le relazioni e prospetta alla coscienza il suo stare/esserci al mondo come possibilità buona, carica di senso e di promessa.

Questo senso è figura storica, e dunque sempre parziale, di quel bene assoluto e trascendente che interpella in modo incondizionato la mia decisione e che mi chiede, in forza del suo appello, di decidermi per esso.
All’interno di questa trama sociale, nascono tutte le relazioni personali e singolari: l’altro che io devo amare è sempre un tu-con-gli-altri. Egli non è mai solo, ma la sua singolarità si dà sempre dentro rapporti di fraternità universali, nei quali si inscrive la possibilità della relazione personale, che è alla fine il senso di ogni relazione sociale.
Una riflessione, questa, che appare chiara, ancora una volta, se pensiamo ai rapporti tra genitori e figli. Questi infatti appartengono sempre a un più ampio contesto sociale di relazioni effettive. La famiglia non è un’isola, rispetto a una convivenza sociale che sarebbe neutra rispetto ad essa, suonando quasi come la sua smentita. Al contrario, è solo entro i rapporti sociali istituiti che si costituiscono le stesse relazioni parentali e filiali. E tuttavia è solo in forza di questa presenza personale, della cura ricevuta al momento del suo venire al mondo, che il piccolo dell’uomo diventa capace di camminare nella vita, entrando a sua volta in relazioni più ampie – al limite, ‘universali’ – e ricche di senso. Se per un verso non si dà nessuna relazione personale senza rapporti sociali, per altro verso il senso effettivo dei rapporti sociali non apparirebbe senza rapporti affettivi, necessari all’identificazione del Sé.

3. La cura e l’accanimento terapeutico
È evidente che, come accennavo sopra, questa riflessione sulla coscienza – che è originariamente ‘patetica’ – si libera d’un colpo del problema di ‘definire’ l’umanità in base alla capacità attuale di ‘coscienza’ di un soggetto. Che un malato in coma (o un demente, al di là sia del problema di definire i vari livelli del coma, sia di stabilire se davvero abbia perduto ogni forma di coscienza di sé) sia una persona – e dunque ‘coscienza’, in senso fenomenologico – a mio parere non deve essere messo in discussione. Alla domanda se davvero si tratti ancora di un uomo, pur in assenza della presenza di sé a sé, non si può rispondere con un dubbio, almeno finché quell’uomo è (organismo) vivente.
E tuttavia va sottolineato che questo riconoscimento non risolve a priori, anzi pone la questione, delle cure mediche che siano davvero ‘proporzionate’ all’effettiva condizione del paziente e rispettoso della sua dignità singolare. La domanda non è peregrina, perché è sempre in agguato la tentazione, fortissima nella medicina tecno-scientifica, di un ‘accanimento’ diagnostico e terapeutico, che non solo è una grave forma di abuso del potere del medico nella sua relazione con il paziente, ma che soprattutto nasconde la pretesa di divenire padroni della morte, procrastinandola indefinitamente – in maniera simile, anche se rovesciata, rispetto all’eutanasia –.
Tutto ciò non sminuisce, anzi la richiede, la necessità di proseguire nel progresso medicale. Il contributo parziale della scienza medica, e per altri aspetti di quella psicologica, rimane decisivo allo scopo di determinare i danni neurologici, le forme di ‘coscienza’ (come consapevolezza) di sé di cui un soggetto è o potrebbe essere capace, la ragionevole previsione delle possibilità di recupero motorio e funzionale. Ma queste conoscenze tecnico-scientifiche non sono affatto sufficienti per prendere una decisione saggia (phronesis). Esse, insieme ad altre condizioni relative alle risorse, anche economiche, della società e della famiglia – e tenendo conto in modo dirimente della volontà del soggetto, nel caso in cui egli sia ancora consapevole (competent), oppure delle direttive anticipate da lui eventualmente espresse quando ancora si trovava in uno stato di salute che non pregiudicava le sue capacità di decisione – debbono essere tenute in considerazione perché le ‘cure’ mediche (to cure) siano effettivamente forme della ‘cura’ (to care) dell’altro e dunque di una buona relazione di prossimità.


don Maurizio Chiodi

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Il significato del termine coscienza interroga quanti hanno a che fare non solo con la malattia, ma tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’uomo. In fondo la coscienza può essere identificata con l’essenza stessa dell’uomo.
Definirne i confini, la fenomenologia, le modalità per comprenderla dal punto di vista biologico ed etico, interrogarsi sull’esistenza o meno di forme diverse di coscienza, comprendere cosa avvenga quando essa si "affievolisce" o "riappare": questi gli obiettivi del convegno. Un incontro per quanti a vario titolo desiderano confrontarsi con un tema affascinante e ricco di implicazioni in molti ambiti professionali.

ANTICIPAZIONE degli ATTI del Convegno
La : COSCIENZA, linea di confine?
Svoltosi a Negrar ( VR), Venerdì 1 Ottobre 2004

Per gentile concessione del:
Dipartimento di Riabilitazione
Ospedale « S. Cuore - Don Calabria »

Programma

Testo concesso dall' Autore , don Maurizio Chiodi

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Maurizio Chiodi

http://www.teologiamilano.it/chiodi.html

In rete

INTERPERSONALITÀ E LIBERTÀ

http://www.edizionimessaggero.it/ita/catalogo/risultato.asp

Dalla bioetica una sfida positiva per il pensiero cristiano

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/030516.htm


 

Mauro Mancia

MEMORIA E SOGNO, INCONSCIO E COSCIENZA:

LE NEUROSCIENZE IN DIALOGO CON LA PSICOANALISI

Introduzione

La grande sfida di questa fine secolo riporta, a schemi invertiti, la grande sfida di fine ‘800: allora la psicoanalisi sfidava, con Freud, le neuroscienze rappresentate dalla neurologia e psichiatria ancorate al pensiero organicista e positivista. Ora, sono le neuroscienze a sfidare la psicoanalisi in quanto sono in grado di offrire un substrato anatomo-funzionale ad alcune funzioni che costituiscono i cardini intorno ai quali ruota la teoria psicoanalitica della mente.

E’ di primaria importanza il concetto di inconscio in rapporto alla memoria e al lavoro del sogno così come quello di inconscio in rapporto alle funzioni della coscienza. La psicoanalisi, oggi, non può non tener conto dei grandi progressi che le neuroscienze sperimentali e cliniche hanno fatto in questi ultimi 30 anni, contribuendo a chiarire il linguaggio dei neuroni e le capacità plastiche del cervello che hanno un ruolo fondamentale nei processi che riguardano le funzioni di base della mente umana.

Articolerò la mia relazione sui seguenti punti: 1) La memoria e l’inconscio; 2) La organizzazione anatomo-funzionale dell’inconscio; 3) L’inconscio non rimosso nella clinica; 4) Il sogno e l’inconscio; 5) L’inconscio e la sua relazione con la coscienza.

1) La memoria e l’inconscio

Memoria e inconscio sono due funzioni della mente che non possono esistere separate l’una dall’altra. La memoria infatti è il luogo del nostro inconscio, come aveva già intuito Freud nel 1912. Le ricerche neuroscientifiche sulla memoria possono quindi portare un contributo significativo alla conoscenza delle funzioni inconsce della mente. In particolare, le neuroscienze sono in grado ora di individuare quelle strutture corticali e sottocorticali indispensabili per la memoria e possono quindi offrire indirettamente ipotesi sulla organizzazione anatomofunzionale dell’inconscio.

Le neuroscienze hanno scoperto in questi ultimi anni che nel nostro cervello opera un doppio sistema della memoria: il sistema della memoria esplicita o dichiarativa e il sistema della memoria implicita o non dichiarativa (Squire, 1994; Schacter, 1995). La prima può essere evocata coscientemente e verbalizzata. Essa riguarda la propria autobiografia e permette attraverso il ricordo un processo ricostruttivo della propria storia personale. Essa appare come una funzione indispensabile perché il processo della rimozione possa avere luogo e necessita dell’integrità del lobo temporale mediale, delle aree orbito-frontali e dell’ippocampo bilateralmente.

La memoria implicita, per contro, non è cosciente né verbalizzabile. Essa non necessita delle strutture sopra menzionate e coinvolge, oltre all’amigdala, aree temporo-parieto-occipitali dell’emisfero destro (almeno riguardo alla parola), nuclei della base e strutture cerebellari. Essa non permette il ricordo e riguarda diversi apprendimenti. Le dimensioni della memoria implicita che più interessano la psicoanalisi sono: quella procedurale e quella emozionale ed affettiva che caratterizzano le prime relazioni del bambino con la madre e che partecipano all’organizzazione del suo Sé (Stern, 1985). Il contatto fisico con la madre stimola emozioni e veicola affetti che costituiranno elementi centrali di un apprendimento relazionale depositati nella memoria implicita del neonato. Un ruolo fondamentale è giocato dal corpo del bambino e dal suo equipaggiamento genetico, ma dove ha grande importanza la capacità di rêverie e di contenimento della madre. La sua voce rappresenterà un veicolo affettivo estremamente significativo, in grado di far rivivere al neonato un’esperienza prenatale dove la voce della madre con i suoi ritmi ha caratterizzato le funzioni di contenitore del feto. E la stessa voce, presente alla nascita, permetterà una continuità nell’esperienza relazionale ed emotiva del bambino a fronte della inevitabile discontinuità fisiologica nel passaggio dall’ambiente uterino all’ambiente esterno.

Le esperienze di cui sto parlando partecipano nel neonato alla organizzazione di un Sé preverbale nelle sue varie forme descritte da Stern (1985). Il neonato conserva dunque i suoi schemi motori impliciti e le sue percezioni ad alto contenuto affettivo, collegate al piacere o al dolore, alla gratificazione o alla frustrazione. Si inserisce qui, in questa fase presimbolica e preverbale, il problema del "trauma relazionale" precoce che condizionerà la vita affettiva, emozionale, cognitiva e sessuale del bambino e che sarà presente anche da adulto. Anche se molte delle esperienze del neonato devono poter essere positive ed essenziali per la sua crescita mentale e fisica, altre potranno essere fortemente traumatiche, come negligenze da parte dei genitori, loro inadeguatezza, patologie mentali, incapacità di capire i bisogni e i desideri del bambino, violenze fisiche e psicologiche, abusi ai danni del bambino. Ma anche frustrazioni e delusioni continue, ripetute nel tempo, potranno contribuire alla organizzazione nel bambino di fantasie e difese che saranno depositate nella sua memoria implicita preverbale e presimbolica e costituiranno gli elementi strutturali di un nucleo inconscio del Sé non rimosso (Mancia, 2003; 2004).

Queste esperienze (insieme alla fantasie e difese che producono) non possono infatti andare incontro a rimozione in quanto le strutture della memoria esplicita indispensabili per il processo di rimozione non sono mature prima dei 2-3 anni di vita (Siegel, 1999). Pertanto, in epoche preverbali e presimboliche, caratterizzate da una reciproca identificazione madre/bambino, dalle forme proto-linguistiche di comunicazione, da stati affettivi condivisi e da uno stato relazionale in cui l’intersoggettività implica interfantasia, il neonato sarà in grado di crearsi delle rappresentazioni affettive e depositarle nella sua memoria implicita. Esse costituiranno la struttura inconscia non rimossa della sua mente.

Il concetto di inconscio non rimosso qui proposto è molto diverso da quello descritto da Freud nel 1923 in cui una parte dell’Io è inconscia come derivazione dall’Es ad opera della realtà esterna attraverso il sistema percezione-coscienza (P-C). Nella mia elaborazione, esso è il risultato di una archiviazione nella memoria implicita di esperienze, fantasie e difese che appartengono ad un’epoca presimbolica e preverbale dello sviluppo e pertanto non possono essere ricordate pur condizionando la vita affettiva, emozionale, cognitiva e sessuale anche dell’adulto.

2) La organizzazione anatomo-funzionale dell’inconscio

Le moderne scoperte neuropsicologiche relative alla organizzazione della memoria ci offrono l’opportunità ora di ipotizzare dei circuiti sinaptici corticali e sottocorticali quali sedi delle funzioni mentali inconsce. La possibilità di identificare nella memoria esplicita ed implicita l’inconscio rispettivamente rimosso e non-rimosso apre prospettive stimolanti per una integrazione tra neuroscienze e psicoanalisi e per una possibile localizzazione anatomo-funzionale delle diverse forme di inconscio.

Questo è possibile sulla base di un presupposto: che le esperienze, i vissuti, le emozioni, le fantasie e le difese che hanno contribuito alla organizzazione della realtà psichica inconscia dell’individuo, a partire dalla nascita (e forse anche dagli ultimi periodi gestazionali con la maturazione della corteccia cerebrale) e nel corso dell’intera vita, siano archiviate nelle strutture nervose deputate alla memoria (implicita ed esplicita).

Su questa linea possiamo ipotizzare che l’inconscio rimosso trovi una sua localizzazione nelle strutture della memoria esplicita o autobiografica. A favore di questa ipotesi esiste anche l’osservazione recente di Anderson et al. (2004) che la dimenticanza volontaria di esperienze mentali che essi paragonano alla rimozione freudiana si accompagna ad un aumento di attività delle aree prefrontali ed una parallela riduzione dell’attività ippocampale. Un fenomeno questo opposto a quello "de-rimotivo" del sogno (in sonno REM) durante il quale si è osservato un aumento di attività dell’ippocampo e una de-attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (Braun et al., 1998).

L’inconscio non rimosso troverebbe invece con la memoria implicita una sua organizzazione favorita dalla attivazione dell’amigdala che presiede alle emozioni (LeDoux, 2000; Damasio, 1999) e una collocazione nelle aree corticali associative posteriori (temporo-parieto-occipitali) dell’emisfero destro. Anche sinapsi cerebellari possono partecipare alla memorizzazione di esperienze affettive, in particolare della paura (Sacchetti et al., 2004). A favore di questa ipotesi esistono le seguenti prove sperimentali e cliniche: a) Le esperienze implicite hanno una componente emozionale cui partecipa l’amigdala e il cervelletto. Per la dimensione procedurale sono coinvolti anche i gangli della base (Siegel, 1999). b) Le aree temporo-parieto-occipitali archiviano le esperienze depositate nella memoria implicita e in particolare le informazioni legate alla parola (Gabrieli et al., 1995). c) Queste aree sono più attive durante il sonno REM (e quindi nel sogno) rispetto alle corrispondenti aree dell’emisfero sinistro (Antrobus, 1983; Bertini & Violani, 1984). d) Esse includono in parte il giro angolare e sopramarginale (aree 39 e 40 di Brodman) in cui si osserva il massimo di integrazione sensoriale (somatica, uditiva, visiva). e) Queste aree partecipano ai processi più sofisticati relativi a funzioni simboliche, gnosiche e prassiche (Geschwing, 1965; Critchley, 1966; Bisiach et al., 1978; Hyvarinen, 1982). f) Inoltre, in pazienti commissurotomizzati, esse presiedono alle funzioni geometrico-spaziali, artistiche e musicali (Sperry, 1974) e la loro lesione può abolire l’attività onirica (Solms, 1995; Bischof & Bassetti, 2004).

3) L’inconscio non rimosso nella clinica

Il problema che si pone a questo punto è come si manifesta l’inconscio non rimosso nella clinica. I momenti privilegiati per il suo recupero sono il transfert e il sogno. Il transfert va colto essenzialmente nelle sue componenti formali extra- ed infra-verbali. Le prime riguardano il comportamento del paziente, la sua postura, il suo modo di porsi in relazione con l’analista. Le componenti infra-verbali riguardano invece il modo di comunicare del paziente in cui assume un’importanza fondamentale la voce. Questa costituisce il veicolo con il quale le parole creano i suoni. In queste misura, la voce è una esperienza di sé che si realizza nell’atto di parlare ma è anche un’espressione del Sé in relazione con l’altro. A questi elementi aggiungerei il ritmo, il tono, il timbro, la musicalità e i tempi del linguaggio. Ciò costituisce la dimensione musicale del transfert (Mancia, 2003; 2004). Questa dimensione si collega alla musica in quanto linguaggio la cui struttura simbolica è isomorfica a quella del nostro mondo emozionale e affettivo (Langer, 1942; Di Benedetto, 2000). Attraverso questa dimensione l’analista potrà cogliere gli elementi inconsci più profondi non passibili di ricordo collegati alla voce materna come feto e come neonato, depositati nella sua memoria implicita quali parti strutturali del suo inconscio non rimosso.

Il sogno di cui parlerò nel prossimo capitolo resta il momento privilegiato per raggiungere l’inconscio non rimosso del paziente.

4) Il sogno e l’inconscio

Un’ampia integrazione tra psicoanalisi e neuroscienze è possibile relativamente al sogno. E’ noto che l’interesse principale della neurofisiologia fino dagli anni ’20 è stato il sonno. La porta del sogno, aperta da Freud alla psicoanalisi nel 1900, è stata rigorosamente chiusa alla neurobiologia fino al 1953, quando Aserinsky e Kleitman hanno potuto descrivere una fase di sonno caratterizzata da movimenti oculari. In seguito, numerose ricerche hanno dimostrato che le strutture reticolari pontine di natura colinergica costituiscono la organizzazione che promuove il sonno Rem (Jouvet, 1962). Questa fase è caratterizzata paradossalmente da un’attività elettrica corticale molto attiva, come nella veglia, da movimenti oculari rapidi, da onde sincrone nel sistema visivo, da burrasche neurovegetative con aritmie cardiache e respiratorie, variazione della pressione arteriosa e secrezione di vari ormoni.

Ricerche psicofisiologiche hanno dimostrato che il sonno Rem costituisce la "cornice biologica" all’interno della quale il sogno può organizzarsi (Dement & Kleitman, 1957; Molinari & Foulkes, 1969). Tuttavia, ricerche psicofisiologiche successive (Bosinelli, 1991) hanno messo in evidenza che esperienze definibili come sogni sono presenti in tutte le fasi del sonno, dall’addormentamento al risveglio. Un’analisi più approfondita ha in seguito dimostrato che nel sonno Rem si ha una più intensa attività onirica con caratteristiche di maggiore bizzarria, maggiore durata del sogno e maggiore intensità delle emozioni (Antrobus, 1983). Pertanto, anche se è possibile ipotizzare un generatore unico del sogno, relativamente indipendente dalle diverse fasi neurobiologiche attraversate dal sonno (Bosinelli, 1991), il sonno Rem resta la fase in cui l’attività mentale del sogno può più facilmente organizzarsi.

La ricerca neuropsicologica con bioimmagini ci ha fornito informazioni preziose sulle aree corticali e sottocorticali coinvolte durante l’attività Rem e durante il sogno (Maquet et al., 1996; Braun et al., 1997; 1998). Queste sono: il tegmento pontino, i nuclei dell’amigdala, la corteccia del cingolo e l’opercolo parietale dell’emisfero destro (Maquet et al., 1996). L’attivazione delle aree limbiche, la corteccia del lobo temporale mediale e del cingolo era già stata osservata da Braun e Coll. (1997) che successivamente riportavano nel sonno REM dell’uomo un aumento di attività anche dell’ippocampo, del giro paraippocampale e della corteccia extra-striata (Braun et al., 1998).

Uno studio particolarmente interessante è stato riportato da Maquet et al. (2000) che hanno dimostrato un aumento di attività in sonno REM di quelle stesse aree cerebrali attivate in precedenza da stimoli dati durante la veglia. Queste osservazioni suggeriscono che nel sonno REM umano sono processate delle tracce di memoria per esperienze avute durante la veglia. Tuttavia, l’esperienza recente di Hubert et al. (2004) con registrazioni corticali multiple ha indicato che anche in sonno sincrono si ha un rinforzo della memoria per stimoli sensomotori mentre le informazioni meno significative vengono eliminate. Questi eventi possono costituire la prova sperimentale a favore della presenza nel sogno (in Rem e non-Rem) di "resti diurni" di cui parla Freud (1900). Questi risultati poi diventano particolarmente interessanti se integrati con quelli ottenuti recentemente da Anderson et al. (2004) e descritti precedentemente. Essi dimostrano un comportamento specifico di alcune aree cerebrali durante rimozione volontaria di una informazione che è opposto a quello del sogno in cui si assiste ad una de-rimozione e quindi all’emergere del materiale rimosso.

Studi con bioimmagini eseguiti su pazienti cerebrolesi hanno permesso inoltre di osservare che la corteccia associativa del cervello anteriore e le aree associative temporo-occipitali sono indispensabili per l’attività onirica (Solms, 1995). Recentemente, Bischof & Bassetti (2004) hanno dimostrato in un caso la scomparsa completa del sogno per una lesione che interessava le aree occipito-temporali bilateralmente, ma in particolare dell’emisfero destro, mentre l’architettura del sonno, compreso il Rem, non era modificata. Queste osservazioni dimostrano che è possibile disgiungere il fenomeno onirico dal sonno Rem e che le aree occipito-temporali dell’emisfero destro sono indispensabili per l’organizzazione del sogno. Ma queste stesse aree, è importante ricordarlo, sono essenziali per la memoria implicita e pertanto sottolineano il rapporto tra questa forma di memoria (e il corrispondente inconscio non rimosso) e il sogno.

5) L’inconscio e la sua relazione con la coscienza

a) Punto di vista psicoanalitico

Così inizia Freud il suo scritto del 1922 L’Io e l’Es: "La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fondamentale della psicoanalisi [...] La psicoanalisi non può far coesistere l’essenza dello psichico nella coscienza ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità della psiche" (p. 476). Tuttavia, fin dal 1912, Freud ha parlato di un sistema Percezione-Coscienza per sottolineare il fatto che noi siamo coscienti soltanto di quelle rappresentazioni di cui abbiamo una percezione. E’ tuttavia in L’Io e l’Es che Freud (1922) parla dell’Io in parte cosciente e in parte inconscio, cioè un Io scisso di cui una parte si adagia sull’Es.

Questa doppia natura dell’Io pone oggi la psicoanalisi in condizioni di considerare l’ontogenesi della mente umana come caratterizzata dalla formazione della coscienza parallelamente alla organizzazione dell’inconscio.

Nei primi periodi della vita, il neonato è in grado di creare delle rappresentazioni precoci che nascono dalle sue esperienze sensomotorie e affettive con la madre e l’ambiente in cui cresce. Queste saranno la base delle imitazioni e successivamente delle identificazioni proiettive e introiettive che permetteranno al bambino di trasformare le prime rappresentazioni e di sviluppare le proprie capacità simboliche e di organizzazione del pensiero.

La coscienza appare dunque espressione di un percorso complesso condizionato da fantasie, difese, emozioni e affetti inconsci che influenzeranno i processi di simbolizzazione e quelli trasformativi che dai sistemi di rappresentazione affettiva raggiungeranno, attraverso l’aria transizionale del gioco, i sistemi di significazione, fino al linguaggio. Tale processo costituisce le fondamenta della coscienza e della identità del bambino, ma ad un tempo le emozioni e gli affetti, le fantasie e le difese che l’accompagneranno saranno depositate nella sua memoria implicita e verranno a costituire gli elementi strutturali dell’inconscio non rimosso. Invece della rimozione, saranno modalità come la negazione, la scissione e l’identificazione proiettiva, che il bambino potrà usare nella sua relazione primaria per poter crescere emotivamente e cognitivamente.

Da quanto detto, è evidente che la coscienza per la psicoanalisi è condizionata dal mondo delle rappresentazioni (inconsce) che derivano dalle esperienze relazionali precoci che il bambino ha con la madre e l’ambiente in cui cresce. Una specie di organo di senso di qualità psichiche, legato al linguaggio, che consente al soggetto – come suggerisce Semi (2003) – di porsi in relazione con la propria realtà inconscia.

b) Punto di vista neuroscientifico

Diverso è l’approccio neuroscientifico alla coscienza che presuppone due forme di essa: la coscienza di base (o coscienza primaria) e la coscienza differenziata (o coscienza di ordine superiore).

La coscienza nella sua dimensione di base equivale alla vigilanza e fonda le sue radici neurofisiologiche nei sistemi del tronco encefalico e in particolare nel sistema reticolare ascendente che controlla il mantello neocorticale attraverso il talamo e per via extra-talamica. L’organizzazione anatomofunzionale del sistema reticolare ascendente dà consistenza all’ipotesi formulata da Albé Fessard (1954) che lo stato di coscienza sia espressione di una experience integration, cioè di una integrazione di esperienze sensoriali e motorie che avvengono all’interno della formazione reticolare del tronco encefalico. Essa è infatti organizzata a rete e quindi in grado di integrare le diverse afferenze sensomotorie con l’organizzazione di un circuito a feed-back che le permette di aggiustare la sua attività ad un livello ottimale da cui dipendono i diversi stati di coscienza, dalla veglia al sonno. Questo sistema è sensibile a sostanze e ormoni circolanti e controlla il sistema talamocorticale modificandone le proprietà oscillanti producendo sincronizzazione (come equivalente di una riduzione del campo di coscienza) o desincronizzazione dei ritmi elettrocorticali (come equivalente di un aumento di attenzione e vigilanza).

La coscienza differenziata o di ordine superiore rappresenta un complesso di processi psichici che permette l’autocoscienza o coscienza di sé e la consapevolezza della propria vita psichica, della possibilità di integrare il presente con il passato, di utilizzare le percezioni, di essere capaci di intenzionalità e di elaborare il proprio pensiero.

Vari sono i processi psicofisiologici essenziali per l’organizzazione della coscienza: la percezione ne è la pietra miliare, ma anche l’attenzione, la memoria, l’ideazione, la critica, il giudizio, la volontà, le emozioni, i sentimenti, il pensiero, sono aspetti essenziali della coscienza necessari perché essa possa integrare le esperienze che il soggetto ha con il mondo sensoriale e attribuire un senso alla sua esperienza vissuta.

Numerosi neuroscienziati si sono occupati di dare una spiegazione neurofisiologica alla coscienza a partire da Popper & Eccles (1977) che hanno proposto una teoria dualista interazionista in cui le aree si interazione sarebbero la corteccia associativa dell’emisfero dominante. Più recentemente, Edelman (1992) ha introdotto una sua teoria detta della selezione dei gruppi neuronici che si basa sulla possibilità che gruppi di neuroni corticali hanno di selezionare schemi di risposte a determinati stimoli, schemi che possono costituire delle mappe cerebrali. Queste interagiscono attraverso un processo di rientro così che le aree cerebrali possono coordinare la loro attività per dare luogo a nuove e sempre più complesse funzioni (come la memoria, la simbolizzazione e lo stesso pensiero). Il cervello, in virtù di questa organizzazione a mappe, può compiere delle categorizzazioni percettive.

Daniel Dennet (1993) considera la coscienza come espressione di una plasticità del cervello che ha permesso lo sviluppo del linguaggio a partire dall’homo habilis (Tobias, 1988). E’ dall’homo habilis che è iniziata l’organizzazione di un software capace di influenzare l’hardware del cervello fino al punto di trasferire queste modificazione nel genoma. E’ ciò che Denneto chiama "effetto Baldwin".

Damasio (1995; 2004) considera la mente come l’espressione di un insieme di rappresentazioni neurali risultato di una integrazione di processi che provengono dalle aree somatosensoriali considerate come la "centralina" di ogni operazione che attraverso altri circuiti e altre strutture organizza le percezioni in concetti e categorie. La categorizzazione dell’esperienza nella corteccia prefrontale sarebbe responsabile di rappresentazioni psichiche. La coscienza, per questo autore, è frutto di esperienze selezionate, memorizzate e storicizzate nel nostro cervello.

Più recentemente, il sistema talamo-reticolare è stato considerato come il responsabile delle proprietà essenziali dell’esperienza cosciente (Edelman & Tononi, 2000). Per questi autori, la coscienza emerge dall’attivazione del sistema talamo-corticale coinvolto in circuiti rientranti che assicurano l’integrazione dell’informazione e la creazione di nuove sinapsi che partecipano alla plasticità neuronale. I gruppi neuronici, attraverso il processo di rientro, possono quindi costituire un nucleo funzionale di elevata complessità responsabile dei qualia, intesi come qualità specifiche dell’esperienza soggettiva. E’ interessante questa ipotesi in quanto è in linea con l’ipotesi, già discussa, di Albé Fessard dell’experience integration e può coinvolgere circuiti rientranti del tronco encefalico, come ad esempio il ponte, che maturano precocemente nella ontogenesi (Joseph, 1985). Questi neuroni pontini sono inoltre responsabili del sonno attivo (Jouvet, 1962) e partecipano alla sinaptogenesi cerebrale col cervello embrionale e neonatale. I qualia che possono emergere da questa attività neuronale del cervello più antico (rappresentato dal tronco encefalico) possono costituire la base per una organizzazione protomentale del feto che può iniziare durante il sonno attivo e coinvolgere la corteccia cerebrale verso il termine della gestazione.

In sintesi e per concludere, il grande contributo delle neuroscienze alla psicoanalisi può essere individuato in quelle funzioni neurofisiologiche che sono alla base di funzioni mentali essenziali per la teoria della mente: memoria, sogno e coscienza. In particolare mi sono soffermato sul doppio sistema della memoria e sulla possibilità che operino nella nostra mente due sistemi di inconscio: rimosso e non rimosso. Ho poi discusso le modalità con cui in analisi l’inconscio nella sua doppia dimensione può emergere nel sogno grazie alle sue funzioni trasformative e simbolo-poietiche ed infine ho tentato un collegamento tra neuroscienze e psicoanalisi nell’affrontare il complesso processo dell’origine della coscienza.

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ANTICIPAZIONE degli ATTI del Convegno
La : COSCIENZA, linea di confine?
Svoltosi a Negrar ( VR), Venerdì 1 Ottobre 2004

Il significato del termine coscienza interroga quanti hanno a che fare non solo con la malattia, ma tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’uomo. In fondo la coscienza può essere identificata con l’essenza stessa dell’uomo.
Definirne i confini, la fenomenologia, le modalità per comprenderla dal punto di vista biologico ed etico, interrogarsi sull’esistenza o meno di forme diverse di coscienza, comprendere cosa avvenga quando essa si "affievolisce" o "riappare": questi gli obiettivi del convegno. Un incontro per quanti a vario titolo desiderano confrontarsi con un tema affascinante e ricco di implicazioni in molti ambiti professionali.

Per gentile concessione del:
Dipartimento di Riabilitazione
Ospedale « S. Cuore - Don Calabria »

Programma

Testo concesso dall' Autore , Prof. Mauro Mancia.

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Mauro Mancia.

In rete

Riflessioni psicoanalitiche sul linguaggio musicale *

http://www.psychomedia.it/pm/culture/music/lingmus.htm

COSCIENZA SOGNO MEMORIA

http://www.psychomedia.it/pm-revs/books/mancia.htm

MAURO MANCIA

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/mancia.htm

 

 

 


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