La mondializzazione e la fine della politica

di Serge Latouche

Relazione alla 16^ scuola di formazione politica della Rosa Bianca
Polsa di Brentonico (Tn), 28 agosto 1996

 

L'Occidente ha vissuto negli due ultimi secoli in equilibro tra le minacce del dispotismo dello Stato e della decomposizione del legame sociale provocata dal mercato. Lo Stato-nazione moderno, così come si è sviluppato da Machiavelli in poi, è una forma di organizzazione e di autotutela delle classi dominanti; per sua natura è oppressivo, suscettibile di scivolare verso la tirannia di un partito, la dittatura di un individuo, di degenerare verso forme totalitarie quando il corpo politico entra in una crisi di identità. D'altra parte il mercato contiene in sé i germi più forti di dissoluzione del legame sociale: la ricerca frenetica del profitto, l'accumulo del denaro, il culto generalizzato della prestazione e dell'efficienza minano le basi stesse del vivere insieme e del senso della solidarietà elementare, necessarie a qualsiasi società.

Tuttavia, grazie a lotte gigantesche e secolari, questo Stato-nazionale era diventato un "mostro" quasi simpatico. La democratizzazione relativa alla selezione periodica della classe politica attraverso elezioni periodiche, l'avvento del parlamentarismo pluralista avevano realizzato l'addomesticamento incontestabile dell'oppressione dello Stato. L'emergere di sindacati potenti e organizzati, di associazioni forti e numerose, di un'opinione pubblica temuta e mobilitata da una stampa libera, la vitalità della società civile costituivano un insieme di contropoteri. Molti pensavano di aver eliminato i fermenti negativi di queste due forze pericolose, cambiando la loro stessa natura: il mercato era regolato dallo Stato, lo Stato era regolato dalla società civile. Negli anni anni '50 alcuni costituzionalisti arrivarono a dire che il vero potere in Inghilterra era in mano alle Trade Unions. Qua e là in Europa regnava la socialdemocrazia, dappertutto il Welfare State. C'è stata ingenuità, la mia generazione si è addormentata, si è illusa che la classe operaia marciasse verso il paradiso e invece si è risvegliata all'inferno.

Il paradiso, sia pure artificiale, era quello della società consumista, della produzione di massa, degli aumenti salariali, delle protezioni sociale, delle pensioni assicurate, della piena occupazione, degli elettrodomestici e degli spettacoli televisivi. La mia generazione si è addormentata sugli allori di queste conquiste e ha dimenticato i prezzi che si dovevano pagare a questo modello di sviluppo: la dominazione e la sottomissione del resto del mondo all'Occidente e il saccheggio sconsiderato della natura e dell'ambiente. Abbiamo sottovalutato la forza della "megamacchina" tecno-economica che continuava silenziosamente il suo lavoro di omologazione planetaria, con tutte le conseguenze disastrose che questo comportava. L'Occidente prima o poi doveva essere raggiunto dai suoi demoni: l'inevitabile doveva arrivare, ed è arrivato.

Il mercato non ha fermato la sua marcia, mondializzandosi ha minato le basi dello Stato sociale, non ha eliminato lo Stato-macchina oppressiva - che resta al suo servizio - ma ha distrutto lo Stato come nazione di cittadini e come organizzazione di contropoteri. Il nostro compito è quello di resistere ai nuovi padroni del mondo: di fronte alla megamacchina anonima e senza volto rappresentata da organismi come il Fondo monetario internazionale, il G7, il club di Parigi, la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio, oppure il Forum di Davos, è urgente costituire un insieme di contropoteri in grado di imporre nuovi regolamenti e nuovi compromessi, innanzitutto a livello europeo. L'Europa, che è stata costruita e amministrata anche da governi socialisti dal Trattato di Roma in poi, è sempre stata in realtà una costruzione liberale e a volte ultraliberale, dominata dalle logiche dell'economia e dei mercati finanziari. Questa Europa è pilotata dalle banche centrali e dalle più forte di esse, la Bundesbank, dalle lobby delle multinazionali, dai tecnocrati di Bruxelles. Non ci sarà più Europa sociale e dei cittadini se non si imporranno forti movimenti. Questa resistenza è la condizione necessaria per limitare i disastri dell'omologazione planetaria e dell'occidentalizzazione del mondo.

Mondializzazione dell'economia e economicizzazione del mondo

La mondializzazione, o come dicono gli anglosassoni, la globalizzazione è oggi una parola di moda. Questo termine è stato imposto dalle evoluzioni recenti, fa ormai parte dello spirito del tempo. In pochi anni, in alcuni casi in pochi mesi, tutti i problemi sono diventati globali: la finanza, l'economia, l'ambiente, la tecnica, la comunicazione, la cultura, e naturalmente la politica. Soprattutto negli Stati Uniti l'aggettivo "globale" è accoppiato a tutti i termini, si parla di inquinamento globale, di società civile globale, di governo globale, di tecnoglobalismo, e così via. Il fenomeno che si nasconde dietro queste parole non è nuovo. Voci profetiche come Marshall McLuhan avevano già annunciato da decenni l'avvento di un villaggio globale, gli specialisti avevano parlato di occidentalizzazione, di uniformizzazione, di modernizzazione del mondo, gli storici come Fernand Braudel avevano scoperto i sintomi di questa evoluzione sulla lunga durata. Ma oggi il termine mondializzazione sotto un'apparenza neutrale, è diventato uno slogan che incita ad agire in un senso che sembra auspicabile per tutti e che in realtà è fortemente auspicato solo da qualcuno. La parola d'ordine fu lanciata dalla Sony che nei primi anni '80 aveva distribuito una pubblicità vistosa che aveva fatto il giro del mondo, in cui si vedevano alcuni adolescenti che pattinavano con il casco in testa e la mini-radiocassetta portatile attaccata alla cintura. La scommessa della Sony era che una pubblicità non doveva adattarsi alle diverse culture, ma doveva essa stessa diventare una cultura globale. Questo nuovo concetto è stato afferrato immediatamente dalle multinazionali e dallo stesso governo americano. Il termine non è innocente: mentre lascia intendere che sarebbe un processo anonimo, universale e benefico per l'umanità, non fa invece che intravedere un'impresa che dà profitto solo a qualcuno e che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli. La mondializzazione è quella dei mercati, e trova le sue radici nelle basi stesse della modernità, sulla pretesa dal XVI secolo in poi di costruire una società fondata esclusivamente sulla ragione. Non c'è solo infatti la mondializzazione dell'economia, c'è la mondializzazione tecnica, culturale, quella della comunicazione: tutte queste forme sono interdipendenti e complementari. E' evidente a tutti che l'avvento dei mercati finanziari mondiali è stato permesso dai satelliti e dalle vie di comunicazione e che non esiste un sistema mondiale di trasporti che non sia comandato attraverso i computer. Il progetto americano di costruire una rete mondiale di autostrade informatiche mira esplicitamente alla costruzione di un mercato mondiale generalizzato e istantaneo. In un suo recente discorso al congresso dell'Unione internazionale delle telecomunicazioni a Buenos Aires il vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore ha affermato: "Sta a noi costruire una comunità mondiale in cui i cittadini dei paesi vicini si guardino non come nemici ma come partner potenziali, tutti membri di una grande catena, di una globale infrastruttura telematica che renderà possibile la creazione di un mercato mondiale dell'informazione in cui i consumatori potranno comprare e vendere. La crescita mondiale potrà arricchirsi di diverse centinaia di migliaia di dollari se noi ci impegniamo in questo progetto".

Quindi non c'è mondializzazione economica senza mondializzazione tecnologica e culturale. I computer ad esempio funzionano in una lingua inglese internazionale, e tutti questi fenomeni concorrono alla creazione di una organizzazione tecnoeconomica di stampo prettamente occidentale. Il crollo del muro e dei sistemi economici pianificati e la deregulation dei sistemi capitalisti hanno portato ad una mondializzazione senza precedenti dei mercati. Ma la mondializzazione dell'economia non si realizzerà mai pienamente senza che si compia il suo opposto, l'economizzazione del mondo, la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non in merci. Tutto deve diventare economia, la tecnica, la cultura, la politica. La globalizzazione è tutt'altra cosa che la generalizzazione dei valori universali di emancipazione portati avanti dall'illuminismo. Si parla ufficialmente, soprattutto da parte americana, di democrazia, diritti dell'uomo, fraternità planetaria, si presentano questi valori come una conseguenza automatica del mercato, e invece ogni giorno vediamo che avviene esattamente il contrario.

Questa planetarizzazione del mercato è nuova soprattutto per l'allargamento del suo campo di intervento, per la sua avanzata verso tutti gli aspetti della vita. Già Marx aveva capito che la tendenza a realizzare un mercato mondiale era intrinseca alla logica del capitalismo. Fin dalle sue origini il funzionamento del mercato è transnazionale: la lega anseatica, le piazze finanziarie di Lione, Ginevra, di Besancon, le operazioni commerciali di Venezia e dell'Europa del Nord, le grandi fiere sono internazionali fin dal dodicesimo secolo. Ma la mondializzazione attuale non realizza ancora il mercato globale, questo grande meccanismo autoregolatore che prende in carico l'essere umano dalla sua nascita alla sua morte. Per gli economisti ultraliberali, gli integralisti del pensiero unico, tutto ciò che è desiderio umano è suscettibile di diventare scambio, perfino i bambini possono esserlo, come dimostrano i casi del Belgio di quest'estate. La teoria economica in quanto tale non fissa nessun limite all'impero del mercato. La mercantizzazione deve penetrare tutti gli angoli più nascosti della vita e del pianeta. La globalizzazione disegna così un'avanzata inaudita nell' onnimercantizzazione del mondo: nei recenti negoziati tra Messico e Stati Uniti gli americani hanno imposto l'abrogazione dell'articolo 27 della Costituzione messicana per rendere libere le terre sul mercato e aprire la strada alle privatizzazioni. Dunque diventa merce la terra, ma anche i beni e i servizi, il lavoro, e domani anche il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l'utero, e ancora il turismo, la giustizia, la medicina, l'insegnamento, i media: tutto diventa merce transnazionale. Sono date istruzioni precise a chi rappresenta il potere pubblico americano di dare man forte ai giganti mondiali dei media, esigendo che i prodotti culturali siano trattati come merci al pari di tutte le altre e che le eccezioni culturali siano considerate barriere protezioniste intollerabili.

A differenza del vecchio mercato, in cui i contadini andavano nelle città e nei villaggi per scambiare le loro merci tradizionali, l'attuale mercato mondiale realizza l'interdipendenza dei diversi mercati, non solo geografica, orizzontale, ma anche verticale, mette in stretta comunicazione i mercati dei beni, dei servizi e dei capitali. Ma invece di generare un equilibrio armonioso che produca la felicità del più largo numero di uomini possibile, come postulano i liberali e già Pareto all'inizio del secolo, questo mercato globale non può evitare né in teoria né in pratica instabilità pericolose. I mercati finanziari dominano sempre più lo scambio di beni e servizi, obbediscono a quelle che gli specialisti definiscono "profezie autorealizzatrici", decidono a tavolino il crollo delle monete nazionali, sviluppano bolle speculative che possono raggiungere enormi dimensioni. L'ammontare delle speculazioni finanziarie non hanno nessuna misura in comune con le attività produttive. La deregulation, l'esplosione delle speculazioni a termine, anche con soldi che non si hanno, fanno sì che gli scambi giornalieri a livello mondiale superino la cifra colossale di 15OO miliardi di dollari, quasi il doppio delle riserve monetarie mondiali, più del prodotto interno lordo dell'Italia. Nel '93 i movimenti finanziari rappresentarono circa 150 miliardi di dollari, cioè da 50 a 100 volte più dei movimenti commerciali annuali. Non è difficile immaginare cosa provochi nel Terzo mondo questa fragilità economica sempre alla mercé delle speculazioni finanziarie. Siamo di fronte a piccoli allarmi: il crack del '87, la crisi messicana del '92, il ragazzo che con il suo computer ha messo in crisi la più antica banca della City londinese. Ma sono episodi localizzati, minori. Cosa succederà quando esploderanno davvero le bolle speculative, trascinando con sé tutto il sistema mondiale nella sua totalità?

La crisi del politico

La mondializzazione dell'economia libera totalmente la megamacchina tecnologica e assorbe la categoria del politico. Questa evoluzione era già nelle premesse alle origini della modernità, ma ha preso forma con la crisi degli Stati-nazione e del compromesso fordista tra il mercato e lo spazio della socialità. Questa crisi del politico si può vedere da due punti di vista, dall'alto oppure dal basso.

Dall'alto si nota la sottomissione degli apparati dello Stato alle costrizioni della tecnoeconomia, vista dal basso si tratta della depoliticizzazione dei cittadini, del tessuto sociale dei cittadini che non esiste più. La transnazionalizzazione tocca la sfera tecnoscientifica e anche quella economica e questi due aspetti tendono a fondersi: se il mondo obbedisce a leggi scientifiche anche la capacità del legislatore politico si trova ad essere ridotta. La sovranità tradizionale, il popolo e i suoi rappresentanti, si trova spossessata del suo potere, che si trasferisce invece sulla scienza e sulla tecnica. Le leggi della scienza e della tecnica sono poste al di sopra di quelle dello Stato. L'ascesa della tecnoeconomia comporta l'abolizione della distanza, la telematica mondiale, l'emergere del villaggio-mondo che provoca la distruzione dello spazio politico. La scomparsa delle distanze crea la fine dello spazio nazionale e il riemergere di questo caos interiore che distrugge le basi dello Stato nazione e genera fenomeni di decomposizione. L'assorbimento del politico da parte dell'economia fa riapparire lo stato di guerra di tutti contro tutti. La competizione - legge dell'economia - diventa la legge della politica. C'è un ripiegamento che fa sorgere un nuovo feudalesimo e fa scoppiare nuove guerre e conflitti. Il feudale e il privato vanno di pari passo e ci sono volute la monarchia, gli Stati nazionali e la rivoluzione perché si superasse questo conflitto privato. E tuttavia si vede questo suo risorgere in Libano, Jugoslavia, Cecenia.

Gli effetti della transnazionalizzazione sono numerosissimi: la corruzione delle élite politiche, l'indebolimento generale del senso civico, la fine della solidarietà organizzata dallo Stato sociale, lo sviluppo planetario dei narcotrafficanti. Uomini politici e alti funzionari subiscono sempre più le pressioni enormi e le sollecitazioni di questo enorme mondo del denaro. La pretesa deontologia degli affari e l'etica del mercato sono soltanto le foglie di fico per nascondere la nudità di questo imbroglio. La truffa è la regola e l'onestà è l'eccezione: tutti i colpi sono permessi quando la posta in gioco è il denaro. La realtà nascosta sono la manipolazione dei prezzi, lo spionaggio industriale, le offerte pubbliche di acquisto selvagge, l'utilizzo dei paradisi fiscali che sono nidi-pirati. Dappertutto gli affari fioriscono.

Certamente esistono ancora politici integri, ma si fanno sempre più rari, sono quasi eroici, talvolta fanno la figura degli imbecilli, il che dà il segno che la nostra è una società malata. La corruzione è tale che anche gli elettori sono sempre più indulgenti di fronte ai colpevoli. Quelli che stanno sotto imitano quelli che stanno sopra: la frode fiscale diventa uno sport generalizzato, le deontologie professionali sono una specie in via di estinzione, perfino lo sport è diventato un affare losco. Un clima deleterio di lassismo, tolleranza colpevole, indebolimento dei controlli: tutto questo fa sì che si sviluppino piccoli e grossi traffici. I narcotrafficanti ormai giocano nello stesso cortile delle multinazionali. Il denaro della droga rappresenta 300 milioni di dollari e il denaro sporco un miliardo. In questo contesto di degrado generale l'egoismo tende a prendere il sopravvento e la solidarietà nazionale entra in crisi. I cittadini sbuffano quando devono pagare per il sociale, che si tratti di prigioni, o di asili, o di case psichiatriche, o di scuole e ospedali. Naturalmente questa reticenza alla solidarietà è anche causata dagli intoppi burocratici e dalle inefficenze; ma in questo modo le lobby liberiste mondiali hanno gioco facile a spingere allo smantellamento del ruolo pubblico dello Stato nell'economia. Sotto la pressione dei repubblicani il presidente Clinton ha proceduto all'abrogazione dello Stato assistenziale di Roosevelt e ha così abbandonato dodici milioni di poveri alla loro sorte.

Si vede così come le leggi dell'economia privano i cittadini della loro sovranità ed appaiono sempre di più come una costrizione che si può amministrare ma in nessun modo eliminare. I cittadini perdono così la padronanza del proprio destino. Il politico in sé non può scomparire, esisterà sempre. D'altronde già nel Medioevo il politico era subalterno al momento religioso. Con l'espressione "fine del politico" si intende la fine di questa categoria come istanza autonoma rispetto all'economia. Ancora una volta ricchezza e potenza tendono a fondersi. Come dichiara il dirigente di una multinazionale, "noi non vogliamo dominare il mondo, vogliamo semplicemente possederlo".

La questione allora diventa: quale spazio resta per i poteri non mercantili in un mondo che non è altro che mercato? Il mondo posseduto è un mondo in cui gli uomini stessi sono ridotti allo stato di cose che si possono comprare e se non si può fare altrimenti che governare una costrizione il governo degli uomini sarà ben presto sostituito dal governo delle cose. Se il governo degli uomini viene sostituito dal governo delle cose i cittadini non hanno più ragione di esistere, possono essere sostituiti da una macchina per votare che dice sempre sì e si otterrà lo stesso risultato. Le autorità politiche sono ormai nelle condizioni di quei sottoprefetti di provincia di una volta, potenti nei confronti dei loro sottoamministrati e nell'esecuzione di tutti i regolamenti oppressivi e gerarchici, ma deboli verso il potere centrale e anonimo dei mercati finanziari.

La dissoluzione del sociale

Vista dal basso la fine del politico si traduce nel crollo del sociale, nel termine della società stessa. La trasformazione dei problemi, la semplificazione dei media hanno privato gli elettori - e spesso anche gli eletti - della possibilità di conoscere e di decidere. La manipolazione unita all'impotenza ha svuotato la cittadinanza di qualsiasi contenuto. Il funzionamento della megamacchina implica questa abdicazione per ragioni anche molto banali, come l'espropriazione produttiva e la distruzione del desiderio di cittadinanza. Taylor affermava che agli operai non bisognava chiedere di pensare, c'era gente pagata per farlo. Il cittadino si trova ad essere sottomesso anima e corpo alla macchina, diventa quasi parte di essa. Neanche le nuove tecnologie possono restituire un po' di anima, anzi ormai esistono le macchine che pensano. In fabbrica, in ufficio, sul mercato, nella vita quotidiana, il cittadino è diventato un agente di produzione, un consumatore passivo, un elettore manipolato, un utente dei servizi pubblici, il puro ingranaggio di questa macchina tecnica e burocratica. Ma anche quando la sua sovranità non fosse stata intaccata in che modo l'individuo avrà ancora la voglia e il tempo di esercitarla? Mettiamoci al posto di un lavoratore che ha al termine di una giornata sfibrante riprende l'autobus, ritorna alla periferia, si confronta con i problemi familiari, le imposte da pagare: di sicuro non avrà certo voglia di partecipare alla politica, preferirà guardare gli spettacoli televisivi. Non manca l'informazione, anzi spesso siamo subissati dalle informazioni, il problema è la qualità dell'informazione che spesso diventa disinformazione. Le logiche della megamacchina non stimolano insomma il cittadino a compiere i suoi doveri e a esercitare i suoi diritti: il bel sogno della democrazia viene così svuotato di ogni sostanza a profitto della tecnocrazia del mercato anonimo, con un uso moderato del dispotismo che ci lascia anche soddisfatti perché ci libera di ulteriori preoccupazioni. L'anonimato della megamacchina dunque demoralizza letteralmente i rapporti sociali e politici. Le costrizioni che pesano anche sull'uomo politico fanno arrivare alla rinuncia a qualsiasi considerazione etica. La parola d'ordine diventa efficienza ma l'efficienza diventa autodistruttrice, un meccanismo che ci intrappola.

Un'opposizione a livello mondiale

E' chiaro che in questo quadro diventa necessario costruire un'importante forza di opposizione per far fronte a questa dittatura, un contropotere che non sia solo nazionale, ma europeo ed eventualmente mondiale. Vi sono segnali di questa rivolta nelle proteste dei lavoratori francesi nell'inverno '95, un fremito della voglia di uscire dalla passività. L'azione di un'opinione pubblica europea e mondiale sarà determinante: il boicottaggio contro l'immersione della Shell delle piattaforme petrolifere ne è un esempio. La ricostruzione di forme di democrazia locali, più dirette e autentiche, a livello europeo e mondiale, è la condizione politica che può aprire una strada e permettere le misure necessarie per far fronte a tutti questi problemi. Le logiche della megamacchina trasformano gli uomini in cose, ma l'uomo non è un ingranaggio e la sua umanità può essere il granello di sabbia che blocca i meccanismi dell'organismo.

C'è il ruolo importante della religione, dell'arte, della creatività. La religione cristiana aveva una concezione dell'uomo nella società, era portatrice di valori di solidarietà e giustizia sociale le cui conseguenze sul piano civile e politico non erano certo l'economia di mercato. La religione creava forti barriere. Ma negli ultimi tempi anche la Chiesa cattolica sembra aver abdicato alla forza del mercato, si è trovata superata e sprovveduta rispetto ai fenomeni di globalizzazione, non ha saputo trovare nella propria tradizione i mezzi per proporre alternative. Si sta raggiungendo il culmine di quello che Max Weber chiamava il "disincanto" del mondo e questo porta a reazioni diverse, da un lato la ripresa dei fondamentalismi, non solo di quelli islamici, dall'altro il ripiegamento nella vita interiore. Anche questi possono essere ostacoli per la megamacchina. Bisogna arrivare a decolonizzare l'immaginario che troppo si è lasciato invadere dalla tecnica, dall'economia e dal progresso. Si devono recuperare i valori e indubbiamente la fede cristiana e le altre religioni possono svolgere un ruolo importante.

C'è poi la grande massa degli esclusi dal sistema, che si autoorganizza, che non ci sta certo a lasciarsi morire e va in cerca di risposte che mettono in atto reazioni molto grosse. Il mio terreno privilegiato di osservazione è l'Africa, dove vivono circa seicento milioni di persone che sono al di fuori dei circuiti dell'economia e che devono trovare altre risorse, che sono spesso culturali e religiose. Un aspetto molto interessante è ad esempio il profetismo africano. Ma gli esclusi aumentano anche da noi e si cercano le piccole comunità, il terzo settore, le soluzioni locali a problemi globali e le soluzioni globali a problemi locali, come ad esempio l'ambiente e l'inquinamento.

La pedagogia delle catastrofi

Ho parlato di "pedagogia delle catastrofi" per segnalare che anche i disastri possono essere occasioni di risveglio. Le catastrofi e le crisi sono fonti di sofferenza insopportabile ma anche momenti di presa di coscienza, di rimessa in discussione, di rifiuto e di rivolta. Dopo Chernobyl c'è stato un risveglio della coscienza ecologica del pianeta. La pedagogia delle catastrofi è quella che indicava il filosofo Hans Jonas quando diceva che è meglio apprestare l'orecchio alla paura della disgrazia che alla felicità, non tanto per gusto masochistico dell'Apocalisse ma al contrario per scongiurarla, perché la politica dello struzzo in ogni caso è una forma di ottimismo suicida.