Rete di Economia Locale - Convegno

Reggio Emilia, 3 maggio 1998

Far fronte ai pericoli del mercato mondiale

Relazione di Serge Latouche

 

Che cosa fare di fronte alla mondializzazione, alla mercificazione totale del mondo e al trionfo planetario del mercato globale? Il divario tra la vastità del problema da risolvere e la modestia dei rimedi concepibili a breve termine dipende soprattutto dalla pregnanza delle idee che conservano il sistema sulle sue basi immaginarie. Bisogna cominciare a vedere le cose in un altro modo perché possano diventare altre, perché si possano concepire delle soluzioni veramente originali ed innovatrici. In altri termini, bisognerebbe decolonizzare i nostri spiriti per cambiare veramente il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a farlo nel dolore. "Quello di cui c'è bisogno, nota Castoriadis, è una concezione completamente nuova rispetto al passato, una visione del mondo che metta al centro della vita umana altri significati anziché l'espansione della produzione e del consumo, che ponga agli esseri umani obiettivi di vita nuovi, riconoscibili come qualcosa per cui valga la pena di vivere. (…) Questa è l'immensa difficoltà alla quale bisogna far fronte. Dovremmo volere una società nella quale i valori economici hanno smesso di essere centrali (o unici), nella quale l'economia è rimessa al proprio posto come semplice mezzo della vita umana e non come meta ultima e nella quale si rinuncia, quindi, a questa folle corsa al consumo sempre in aumento. Non è necessario solo per evitare la distruzione definitiva dell'ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli uomini contemporanei." (Castoriadis, 1996, p.96).

Non c’è dubbio che questo cambiamento radicale delle mentalità si produce in maniera invisibile, dentro le pieghe della nostra ipermodernità. Intanto, mentre si lavora a questo cambiamento, sarebbe auspicabile trovare strumenti di difesa alle minacce più gravi. Il problema è che la maggior parte delle soluzioni concepibili avrebbero buone possibilità di riuscita solo se si fosse già verificata quella diseconomizzazione degli spiriti che ne è la conseguenza. Risolvere questa quadratura del cerchio è con ogni probabilità la più grande sfida con la quale si deve confrontare il pensiero critico contemporaneo. La difficoltà è accentuata dal fatto che la maggior parte dei problemi locali attuali, come i danni all’ambiente, sono conseguenze del sistema mondiale. Si possono trovare soluzioni solo con un'azione condotta a livello globale.

Stando così le cose, si tratta di trovare, nello stesso tempo, soluzioni locali a problemi globali e soluzioni globali a problemi locali. Le proposte di riforma devono essere sufficientemente realistiche per ottenere il consenso dei nostri concittadini ed imporsi con il loro "buon senso", senza apparire inaccettabili ad un certo modo di vivere e di pensare.

Visto che sembra impossibile nel mondo attuale fare a meno del mercato e della concorrenza, è importante precisare alcune regole ed alcuni limiti, sviluppare dei contrappesi perché siano più "equi", in altri termini tentare di modificare "le regole del gioco" nell’impossibilità o nell’attesa di poter giocare a un altro gioco, o persino di poter rifiutare di giocare.

I nostri governi non fanno che ripeterci che siamo coinvolti in una guerra economica senza pietà, che dobbiamo tirare la cinghia ed imporre a noi stessi dei piani d’adeguamento strutturale così come li imponiamo ai popoli del sud, e questo allo scopo di guadagnare quote di mercato. Non è che dobbiamo dire ai nostri governi, con tutti i mezzi disponibili, che siamo decisi a resistere a questa emulazione masochista nell’austerità e che non ci offriamo come volontari per quest'offensiva militare-economica? La grande maggioranza dei nostri concittadini vuole la pace economica così come vuole la pace civile e sociale. Desiderano vivere in pace e in sintonia con gli altri uomini ed anche con la natura, anche se bisogna, per questo, rinunciare a conquistare quote di mercato (a discapito degli altri e della natura). Questo programma di guerra alla guerra economica ad oltranza e di dichiarazione di pace è suscettibile di un vasto consenso. Implica una serie di azioni concrete di cui si può abbozzare un elenco non esaustivo.

1) Rimettere in discussione la tirannia dei mercati finanziari ed anche la perversione degli interessi passivi sul debito pubblico. Questi ultimi rappresentano ormai circa il 20 % delle spese in bilancio e tra il 3 ed il 5 % del PIL (Prodotto Interno Lordo) nei principali paesi industrializzati, a discapito degli altri redditi, ma costituiscono soprattutto il fondamento di un'insopportabile dittatura dei creditori. Il processo di dominazione dei mercati finanziari può e deve essere abbattuto limitando e controllando tre concetti fondamentali (deregolamentazione, soppressione dell’intermediazione, abbattimento delle barriere), rimettendo in discussione il carattere sacrosanto del debito pubblico che costituisce una delle basi del dominio della finanza, regolando il funzionamento dei fondi pensionistici, riducendo l'autonomia della sfera finanziaria, se non altro per scongiurare i rischi sistemici.

Contrariamente alla logica dominante, l'adozione della tassa sulle transazioni finanziarie proposta dall'economista keynesiano, James Tobin, sarebbe una misura riformista di "benessere" pubblico mondiale. Anche con un tasso molto basso dello 0,2 o dello 0,5 %, dovrebbe rendere dai 150 ai 500 miliardi di dollari visto l'enorme volume delle transazioni finanziarie (più di 150.000 miliardi di dollari). Il prodotto di questa tassa, che avrebbe un ruolo (modesto) di freno alla speculazione, permetterebbe di alimentare un fondo mondiale per lottare contro questa stessa speculazione, di finanziare spese di protezione dell'ambiente e di lottare contro le situazioni di estrema povertà. In mancanza di un accoglimento mondiale, una tale misura potrebbe essere pensata a livello europeo.

2) Combattere il mercato mondiale, in quanto "tutto-mercato". Quest'ultimo è il principale responsabile della distruzione del pianeta. La dittatura del catechismo del pensiero unico e del suo clero è tale che sembra vergognoso e addirittura reazionario trarne le conseguenze e raccomandare una protezione ragionevole. Questo protezionismo dichiarato non andrebbe - certo - contro i paesi sottosviluppati, ma servirebbe a liberare gli uni e gli altri dal "tiro al bersaglio" della mondializzazione. Essendo il clima attuale di competizione senza regole, suicida per tutti e disastroso per gli ecosistemi, parrebbe sano ed adeguato alzare delle barriere a livello europeo per la protezione sociale e per quella dell'ambiente. In altre parole, è necessario riabilitare un protezionismo selettivo di fronte all'impero indecente dello sfrenato libero scambio. Una popolazione non può vivere dignitosamente se non produce, almeno in parte, anche con difetti, i prodotti di cui ha un bisogno essenziale. Ridurre alla miseria e alla disperazione intere regioni, con tutto il seguito di drammi familiari ed individuali che questo implica, in nome di un calcolo economico ottuso che non tiene conto né dei patrimoni organizzativi e culturali acquisiti né dell'impatto ambientale, è irragionevole e spesso criminale. La cosa più straordinaria è che il regno dell'integralismo liberale obbliga a enunciare tali evidenze …

3) Rimettere in discussione l'estensione senza limiti e a tutti i settori della vita della mercificazione e determinare democraticamente il livello auspicabile di internazionalizzazione dell'economia. Il gioco del "chi paga i salari più bassi " è inaccettabile. La concorrenza non dovrebbe poggiare sul prezzo del lavoro e quindi sulla vita degli uomini. Non si può accettare di ridurre i costi mettendo i lavoratori in concorrenza per costringerli ad accettare stipendi sempre inferiori a un tenore di vita decente. Se è giusto organizzare alcuni mercati di beni e servizi, è ancora più giusto organizzare questa non concorrenza tra gli uomini, riducendo per esempio gli orari di lavoro affinché tutti quelli che lo desiderano possano trovare un lavoro. La teoria economica della flessibilità assoluta degli stipendi e della disoccupazione volontaria è un'impostura. E' perfettamente naturale giungere ad una demercificazione della forza lavoro e difendere le soglie minime di stipendi decenti. Un passo in più sarebbe far evolvere il "reddito minimo di inserimento" (RMI) o i suoi equivalenti verso un vero reddito di cittadinanza, separando così il reddito dall'obbligo di lavorare. L'abbandono di ogni condizionamento sarebbe una vera rivoluzione culturale. Tutto ciò vale a livello nazionale, europeo e mondiale.

Oltre a queste misure, converrebbe forse proporre l'instaurazione di un reddito massimo, per affermare simbolicamente e concretamente -in una democrazia restaurata- un limite all’ "hybris", cioè alla "dismisura". Estranea, come categoria etica, al nostro immaginario economico, nella democrazia ateniese l’ "hybris" veniva punita con l’esilio. Un solo individuo che guadagna in una notte un miliardo di dollari, ossia circa dieci milioni di anni di lavoro di uno che percepisce il salario minimo, che in un anno guadagna più del prodotto interno lordo di quarantadue paesi e che prende tanto quanto il gigante Mc-Donald con 170.000 stipendiati (è il caso estremo del finanziere filantropo George Soros), può essere concittadino di quelli stessi stipendiati o di quanti ricevono un salario minimo? Secondo Christopher Dodd, ex-presidente del partito democratico : "Che siate Bill Gates, l'uomo più ricco d'America, o qualcuno che è disoccupato, il vostro voto vale allo stesso modo". Chi può credere ancora a tali dichiarazioni quando vediamo il gioco delle lobbies decidere delle leggi? Ci può essere una democrazia senza un minimo di uguaglianza delle condizioni, comprese quelle economiche? Se il "molto ricco" non si sente in debito nei confronti del "molto povero", non c'è più legame sociale.

4) Imporre dei "codici di buona condotta" alle imprese multinazionali e lottare - se siamo ancora in tempo - perché siano smantellate. L’iniziativa "Vestiti libertà", un gruppo di ONG che esige da parte dei fabbricanti di vestiti delle dichiarazioni sulle condizioni di lavoro nei paesi del sud, -pena il boicottaggio- è un buon esempio in questa direzione. Disgraziatamente, il primo gesto dell’attuale segretario generale dell’ONU, è stato di porre fine alle attività del Centro sulle multinazionali, incaricato di elaborare quei famosi codici di buona condotta. Questa scelta di abbandonare definitivamente la ricerca di una regolamentazione mondiale è, purtroppo, significativa.

5) Aiutare l’autorganizzazione degli esclusi, degli emarginati, degli informali del Sud e del Nord, astenendosi dal distruggerli con la repressione, il racket o la normalizzazione. L’autolimitazione delle nostre economie predatrici è la condizione per una rinascita e una buona vita delle popolazioni del Sud. Le occasioni non mancano. Sopprimendo il saccheggio dei fondi marini sulle coste dell’Africa, la si aiuterebbe di più che inviando aiuti alimentari. Si assicurerebbe la sopravvivenza dei pescatori tradizionali e si garantirebbe un approvvigionamento regolare di pesce. La fine del saccheggio sconsiderato delle foreste tropicali ed equatoriali, disastroso per l’ambiente, potrebbe essere negoziata con garanzie di risorse per l’esportazione, pagando la legna esotica a un prezzo decente. Incoraggiare le società ecologicamente valide è, comunque, preferibile all’inganno dello sviluppo sostenibile.

6) Esigere che gli oltraggi all’ambiente, e in particolare le mutazioni genetiche, le aggressioni nei confronti delle altre specie viventi (dai sacrifici di animali all’erosione della biodiversità), siano discussi democraticamente e decisi da organizzazioni rappresentative e non dalla mano invisibile o dai poteri tecno-scientifici della megamacchina. Anche se il principio di cautela non è applicabile alla lettera, deve fornire un orientamento per una decisione ragionevole.

7) L’integrazione del progresso tecnologico dovrebbe essere accettata solo a condizione di non colpire né l’ambiente, né l’occupazione, e dovrebbe tradursi, invece, in una diminuzione dell’orario di lavoro, un aumento delle remunerazioni e un miglioramento della qualità della vita. I codici di buona condotta delle aziende dovrebbero garantire tutto ciò e si potrebbe, inoltre, creare un organismo di controllo internazionale.

8) Né il corpo, né la terra, né i beni ambientali dovrebbero essere normalmente considerati delle merci come le altre, visto che riguardano l’uomo, la sua vita, la sua cultura e i suoi legami. Senza essere vietate, le transazioni che riguardano questi beni dovrebbero essere regolamentate in ambito locale, regionale, nazionale e internazionale sulla base di un ampio dibattito democratico e non da comitati di "garanti" o di esperti; questi ultimi sono, infatti, solo degli alibi quando non rappresentano gli interessi stessi delle aziende sovranazionali coinvolte, come successe per l’elaborazione del codex alimentarius , cioè il "codice di buona condotta" per le imprese del settore alimentare, che serve come riferimento all’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), o per la regolamentazione dei diritti della proprietà intellettuale nell’ambito delle negoziazioni dell’Uruguay round. Non dovrebbe essere ammesso che delle popolazioni, delle collettività, siano costrette dalle "leggi del mercato" ad essere spogliate delle loro terre, delle loro risorse naturali, né tanto meno a vendere i propri membri, interi o a pezzi, come spesso succede oggi.

Alla fine, però, è inevitabile che queste proposte, se vengono separate dalla loro dinamica, portino al rischio del volontarismo utopistico. L’importante non è tanto nel dettaglio delle misure concrete, quanto nel manifestare una chiara volontà di resistenza ai "nuovi padroni del mondo". Di fronte alla megamacchina anonima e senza volto, ma i cui rappresentanti si chiamano G7, Club di Parigi, complesso F.M.I (Fondo Monetario Internazionale)/Banca mondiale/O.M.C (Organizzazione Mondiale del Commercio), camera di commercio internazionale, forum di Davos, ecc., diventa urgente costruire dei contro-poteri, imporre delle regolamentazioni, trovare dei compromessi. E prima di tutto a livello europeo. Purtroppo l’Europa, anche se costruita o gestita da governi socialisti, dal trattato di Roma, è sempre stata una struttura liberista, persino ultra-liberista, dominata dalla logica economica e ormai da quella dei mercati finanziari. Per questo fatto, viene guidata dalle Banche Centrali (in particolare dalla Bundesbank), dalle lobbies delle aziende sovranazionali e dai tecnocrati di Bruxelles. Ci sarà, quindi, un’Europa sociale e civile solo se le forze vive e i movimenti efficaci la imporranno. La parola d’ordine di fronte ai pericoli della mondializzazione contemporanea potrebbe quindi essere "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita: rifiuto della complicità e della collaborazione, rifiuto di diventare complici di questa impresa che produce perdita di sé e distruzione planetaria. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto di ogni forma di autorganizzazione alternativa. Per esempio, i sistemi di scambio locale, LETS nei paesi anglosassoni o SEL da noi, testimoniano di questa creatività degli esclusi. Per quanto modeste siano queste esperienze, sono portatrici di speranza. L’esplosione dei SEL in Francia, che nell’arco di 2 anni sono passati da 2 a più di 250 (fine ’97), rivela l’impatto della dissidenza. L’antica questione di Aristotele su quello che dovrebbe essere un rapporto di scambio giusto nel seno di una comunità trova una risposta concreta in queste nuove collettività emergenti. Tali esperienze, oltre a rappresentare il modello per una soluzione locale al problema globale della crisi, costituiscono anche uno straordinario laboratorio di ricostruzione del legame sociale, a partire dalle sue fondamenta.

Resistenza e dissidenza sono anche la condizione per poter limitare le devastazioni dell’omologazione planetaria e dell’occidentalizzazione del mondo.