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Le «regole» per capire l’arte

di

Gian Luigi Verzellesi


Premesse e consuetudini deformanti vanno ridiscusse
Il sociologo
Pierre Bourdieu ha condensato le conclusioni di trent’anni di ricerca in una lucida indagine 
 
Senza un criterio, che faciliti l'orientamento e il discernimento, come ci si può muovere nella conoscenza pratica senza perdersi nella selva dei casi innumerevoli? Senza un'idea regolativa dell'arte, come si può distinguere l'opera che merita d'essere apprezzata da quelle che si apprezzano per consuetudine o adeguazione passiva a una certa propaganda? Per rispondere a domande come queste, un sociologo sapiente come Pierre Bourdieu (1930-2002) ha condensato le conclusioni di trent'anni di ricerca in un libro intitolato Le regole dell'arte.
 
Tradotto da Emanuele Bottaro e da Anna Boschetti (si legga la sua nitida introduzione), edito dal Saggiatore, il volume, corredato da una quarantina di pagine di note, consiste in una lucida, diramata indagine filosofico-sociologica, svolta nel campo letterario e artistico: con l'intento di rimettere in discussione certe premesse e consuetudini deformanti sottoponendole a "una critica della superstizione e del feticismo culturali che fanno sì che le opere, da risultati d'invenzione e di libertà, si convertano in un'eredità banalizzata", apprezzata senza riserve da quanti subiscono l'indottrinamento culturale e finiscono col perdere la facoltà di capire e vedere con i propri occhi.
Bourdieu non si stanca di ribadire che la cultura che merita questo nome è altra cosa dalla fabbrica del consenso globalizzato o dalla moda come "universo di credenze" suggestive, che si diffondono anche se non reggono al vaglio della riflessione.
 
Così, nell'ambito dell'arte novecentesca, a chi ammette che Duchamp, apponendo la propria firma su un oggetto qualsiasi (o ready-made) gli conferiva valore artistico - Bourdieu oppone, sensatamente, che questa specie di gherminella, o "efficacia magica", non "sarebbe altro che un gesto insensato o insignificante senza l'universo dei celebranti e dei credenti che sono disposti a considerarlo come dotato di significato e di valore". Di fatto, l'oggetto (scolabottiglie o pisciatoio) permane immutato: non è un'opera d'arte se non per chi subisca l'impostura di Duchamp, artista-mago, che dapprima "voleva farla finita (sono parole sue) con la voglia di creare opere d'arte", e poi invece è stato al gioco proposto dai suoi caldeggiatori e adulatori, che hanno esaltato il guru dell'antiarte come se fosse davvero l'iniziatore di una nuova specie d'arte...
 
Questa convinzione, secondo Ernst H. Gombrich (insigne addetto ai lavori di difesa dall'ideologia modernista come culto dell'avanguardia), è d'una "trivialità" incomparabile. Ma oggi è diffusissima: nelle accademie e negli istituti d'arte, tra i mercanti avveduti, gli addetti alla propaganda, gli artisti di facile contentatura, e anche tra gli storici dell'arte e i critici più "influenzati dalle mode". Infatti, "c'è sempre, o quasi sempre, un legame tra quello che fanno gli storici dell'arte e il gusto dell'epoca".
 
Questa precisazione gombrichiana è condivisa da Bourdieu, che ha scritto Le regole dell'arte per indurre a capire che le regole e le convinzioni vanno riesaminate e discusse in rapporto alle effettive situazioni sociali, alla particolare 'logica della situazione' che prevale nelle varie culture. In particolare nel clima attuale, in cui "i detentori di capitale culturale possono sempre regredire" partecipando all'andazzo dominante, che ultimamente ha rilanciato i minimalismo, il dadaismo, l'informale, come se queste tendenze (già esaminate da Sedlmayr, Arnheim, Brandi...) fossero da accogliere come acquisizioni sacrosante. "I concetti utilizzati per pensare le opere d'arte, in particolare per giudicarle e classificarle (precisa Bourdieu rifacendosi alla tradizione critica più autorevole) sono caratterizzate da un'estrema indeterminatezza": i giudici di gusto sono connotati "da un'incertezza e una flessibilità estreme".
 
Per uscire dalle secche di questa situazione, zeppa di ambiguità disorientative, occorrerebbe (come Bourdieu sostiene nell'ultimo capitolo) un'inversione di tendenza: una "Realpolitik della ragione" costituita da competenti che non siano né "intellettuali organici", né "mandarini" incapaci di dissentire, neppure dall'astuzia dei giochi mercantili delle ultime insensatezze, squadernate da Cattelan.
da
il Quotidiano "L'Arena" di Verona
in
 
dossier: Pierre Bourdieu
per ANISA Verona


 

 


Il punto sulla critica d’arte

Gian Luigi Verzellesi

Pubblicato il primo volume degli «Annali» in cui convergono i risultati delle ricerche in vari Atenei
dal quotidiano
L'Arena

Mentre le arti visive attuali continuano a proporre stranezze e insensatezze a dismisura, a che punto sono gli studi degli addetti ai lavori della storia dell'arte? Una risposta alla domanda può venire dalla lettura del primo volume degli Annali di critica d'arte (ora edito a Torino da Nino Aragno) che mira a "creare uno spazio di dibattito dove far convergere e rendere noti i risultati delle ricerche" svolte - negli Atenei di Torino, Padova, Roma, Udine, Urbino, Napoli e Lecce - nei più diversi settori della letteratura, storiografia, metodologia artistica, "dall'antico al contemporaneo". Secondo l'intento del direttore, Gianni Carlo Sciolla (ordinario di Storia della critica d'arte e Storia dell'arte moderna all'Università di Torino), "gli Annali si apriranno sempre con una Riproposta" consistente nella traduzione, e nel commento, di "saggi o testi poco noti di autori della fine dell'Ottocento e del Novecento, considerati unanimemente classici della critica d'arte moderna". Intanto, il primo numero degli Annali, si apre con la traduzione sciolliana di un breve saggio del 1922 di un rinomatissimo amatissimo studioso, Erwin Panofsky (1892-1968), dedicato a 20 disegni di Michelangelo, commentati uno per uno con didascalie incisive. Ma purtroppo, quei mirabili disegni non sono stati riprodotti sulle pagine dei nuovissimi Annali: sicché il commento magistrale di Panofsky, e quello di Sciolla, risultano scissi dal testo visivo di riscontro e dunque inapprezzabili come oscure glosse di figure assenti. Diligentemente, in una nota, sono indicati i titoli e i luoghi di conservazione dei venti disegni michelangioleschi: forse per consentire al lettore, molto volonteroso, di conquistarsi il corredo illustrativo anche senza ricorrere all'apparato fotografico prescelto con cura da Panofsky. Nel settore dedicato agli argomenti di critica d'arte ottocentesca e novecentesca, Franca Varallo (dell'Università torinese) esamina il carteggio tra Adolfo Venturi, fondatore degli studi nostrani, e una "sua devotissima alunna", Alice Galimberti Schanzer; Marta Nezzo (dell'Università di Padova) studia il rapporto tra Ruskin e Lionello Venturi (risoltosi in una riabilitazione rapinosa del critico inglese, che andrebbe riconsiderata sotto la lente critica di Proust, gran conoscitore di Ruskin. E Emmanuele Pellegrini (dell'Università di Pisa) mette in luce il "fertilissimo acume critico" di C.L. Ragghianti, in dialogo con Adolfo Venturi dal '34 al '37. Nella rubrica delle riviste d'arte spiccano gli interventi di Annamaria Ducci (che commenta lo sviluppo di Monseion dal 1927 al 1946), di Valerio Terraioli (sul rapporto tra La critica d'arte, dal '35 al '37, e l'arte contemporanea) e di Romina Impera (che riesamina Le arti, la rivista voluta da Bottai come "una sorta di laboratorio creativo sulle metodologie di indagine storico-artistica" realizzato da Argan e Brandi, dal '38 al '43, sotto lo sguardo penetrante di Roberto Longhi). Nella rubrica sulla storia del gusto, gli interventi di Francis Haskell e di Gianni Carlo Sciolla non mancheranno di richiamare l'attenzione dei non pochi devoti ai due laboriosissimi specialisti. Ma è molto probabile che il saggio prediletto dai lettori, di più spiccata inclinazione all'arte contemporanea, sia quello incluso nella rubrica intitolata Extra moenia: come per dire di argomenti che interessano al di là delle mura della cittadella degli studi accademici, tradizionali, anticheggianti... Il saggio più attraente è di dieci pagine, quasi oracolari, dedicate da Franco Bernabei (che insegna Storia della critica d'arte a Padova) alla lettura di un libro di Reinhardt Brandt sulla Filosofia della pittura (Milano 2003). Lettura densissima, tutta da riconsiderare in un futuro ipotetico seminario rivolto ad analizzare a fondo il convincimento ottimistico sull' "inesauribile capacità comunicativa" di opere d'arte astratta, come Vir heroicus sublimis di Barnett Newman, dipinto prigioniero di un'ambiguità inesplicabile: non meno muta di quella dei monocromi di Manzoni e di Kleine. Purtroppo il quadro di Newman non è riprodotto, così come non sono riprodotte le opere di cui parlano i collaboratori di questo primo tomo degli Annali, inopinatamente privo d'apparato illustrativo. Ma non privo d'inesattezze: come quelle che stridono, a p. 15 e 19, dove, in barba all'ortografia, il cognome di un luminare arcinoto, Wölfflin, risulta storpiato otto volte. Al di là di queste minuzie sintomatiche, i saggi raccolti negli Annali del 2005 vertono su aspetti della vita artistica italiana novecentesca. La loro utilità è ovvia; ma non ha nulla a che fare col fenomeno sconcertante che continua a verificarsi sotto i nostri occhi: il "processo di livellamento" delle più varie specie di prodotti d'avanguardia rivisitata e "l'invasione dell'arte da parte della critica" ridotta a secondare le esigenze del mercato, e "ad amministrare l'arte secondo le proprie utilitarie convinzioni". Così decritto da Hans Belting (v. La fine della storia dell'arte, ed. Einaudi) il processo di livellamento pubblicitario esigerebbe un riesame aggiornato e rigoroso - lo leggeremo sugli Annali? Potrebbe avere un titolo invitante: Come uscire dal ristagno modernistico.

Verona 7 gennaio 2006

 

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