Lettera da Giuseppe Casarrubea
Ho ricevuto questa lettera da Giuseppe Casarrubea il 12
settembre, assieme ad alcune amiche .... E' una lettera scritta di
getto, tracciata con la misura rara del pudore che pochi
individui hanno ..
E' banale dire che è bellissima .
Giuseppe ci ha fatto un dono prezioso delle sue memorie più intime
e sacre...toccandoci profondamente. Un dono che dobbiamo
attrezzarci a meritare.
Letizia Battaglia ,appena ha letto la lettera, con quella sua
magica sensibilità, ha preso immediatamente la decisione di
pubblicarla su "mezzocielo" sovvertendo , per la prima
volta, una regola consolidata. ( "mezzocielo"
è una rivista scritta, da sempre, rigorosamente dalle
donne.)
Grazie Giuseppe
Nadia Scardeoni
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MEMORIA AL FEMMINILE
Partinico, 12 settembre 2002
Carissime,
pensandoVi, riflettendo sulla Vostra solidarietà ho sentito
istintivamente una ricchezza nuova, attuale e antica, che mi è stata
di grande aiuto in questi giorni, per me intensi e faticosi. Ho avuto
momenti di sconforto e di solitudine, ho sentito ( e sento ) tardare
le parole che non costano nulla; ho toccato con mano lo smarrimento
della memoria collettiva.
Portella della Ginestra, i sindacalisti e i
dirigenti di partito ammazzati dalla mafia nel secondo dopoguerra,
fanno parte di una storia che ci appartiene. Eppure è come se
segnassero un tempo remoto, quasi arcaico, estraneo alla nostra
attuale vita democratica. I giovani (magistrati, professori, medici,
universitari, ecc.) non ne hanno mai sentito parlare -tranne
eccezionali casi-; i vecchi hanno altro a cui pensare; i più giovani
non hanno più i vecchi che raccontino loro le storie di un tempo, le
loro storie, i loro ricordi. Abbiamo smarrito memoria e futuro,
abbiamo difficoltà a coltivarli, a dare senso alle cose. Tutto sembra
appiattirsi, conformarsi. Forma e sostanza della democrazia sono
mutate, invertite. Regge ancora la memoria del '92 in virtù del fatto
che i ventenni di oggi hanno impresso il baratro che si aprì davanti
ai loro occhi di adolescenti, in un momento delicato della loro
crescita; i loro genitori vissero quei segnali di guerra come la fine
di un tempo e l'inizio di una fase della nostra
storia: quella in cui mutavano, facendosi più sottili e invisibili, i
primordiali intrecci tra potere istituzionale e mafia, forme del
controllo sociale e crimine organizzato. Ma non voglio parlarVi di
questo, anche se proprio questo è il reticolo su cui si innesta una
memoria per me più sofferta, che scompiglia i ricordi e si fa sentire
tenue e limpida come una voce, un canto, una speranza. E' il ricordo
di mia madre. Ho quasi pudore a parlarne, ma sento di poterlo ( e
doverlo) fare con Voi, perchè siete donne. Me la ricordo vestita a
nero, assolutamente indifesa. Dopo l'assalto alla Camera del lavoro in
cui mio padre perse la vita (22 giugno 1947, avevo allora poco più di
un anno) eravamo rimasti soli. Abitavamo in una piccola casa a
Partinico, in via La Perna, che ricordo ancora benissimo, come gli
inverni, il vento furioso che scuoteva le porte e filtrava attraverso
le fessure; le notti in cui ero accucciato con lei, che mi dava,
col suo respiro caldo, una certezza interiore che non ho mai smarrito:
mi teneva abbracciato come se avesse paura che qualcuno le togliesse
l'unica cosa che le era rimasta, anche questa indifendibile. Sentivamo
strani passi sui tetti e più volte ci alzavamo d'improvviso a
ispezionare la casa, il 'tetto morto', gli interni degli armadi.
Ricordo le lune rosse che ci accompagnavano la sera, quando
rientravamo dalla visita ai parenti, e i camini di quella strada, e la
fontana sempre zampillante, al quadrivio. Le notti della mia infanzia
sono state notti di continui soprassalti e di persistenti certezze: i
soprassalti della violenza che sentivamo attorno a noi per l'uccisione
di mio padre; la certezza che i mandanti e persino i killer erano
ancora liberi, e magari ci guardavano di giorno commiserandoci; il
soprassalto del trauma che accompagnò mia madre dopo la tragedia, lo
scuotimento che la travolse lasciandole addosso i segni dell' angoscia
e della paura; la certezza del suo affetto e le sue mani sempre
protese verso di me, come un tesoro da custodire in uno scrigno. Ma
c'è in questa memoria la luce solare delle estati, i fichi secchi
della vicina stesi al sole, la vita quotidiana delle famiglie della
borghesia di Partinico, di cui seguivamo lo svolgersi coerente delle
azioni, dall'alba al tramonto lungo quelle stagioni. L'alba era
segnata dal rituale dei carri che si uscivano dalle stalle e
s'attaccavano ai cavalli, dalle voci di comando che i contadini davano
agli animali durante la 'bardatura', dal rumore delle ruote che
lentamente scorrevano lungo i selciati e si allontanavano verso le
campagne. Poi ci eravamo trasferiti da mia nonna, anche lei vedova, a
pochi metri dalla sede del PCI/Camera del Lavoro presa d'assalto quel
giorno, e dove mio padre era stato portato dopo la strage in cui aveva
perso la vita anche un altro militante sindacale comunista: Vincenzo
Lo Iacono. Ricordo quando le due povere donne andarono a Viterbo nel
1950-'51, perchè erano state citate come testimoni al processo che si
doveva tenere in quella città. Ero rimasto solo, per qualche tempo,
con mia nonna e di quel processo non ho altro ricordo che il regalo
che mi portò mia madre quando finalmente fu di nuovo con me. Ai
giudici disse: "Voi che mi state interrogando ne sapete più di
me. Cosa volete che vi dica io? Consegnatemi gli assassini e i
mandanti dell'uccisione di mio marito". Allora erano stati
convocati anche i feriti presenti a Portella, in quanto il processo
per le due stragi era stato unificato. I feriti partirono da San
Giuseppe Jato e da Piana degli Albanesi e San Cipirrello, senza che lo
Stato predisponesse per loro una qualche accoglienza. I giudici li
ascoltarono e sentirono quanto essi dissero contro i mafiosi che erano
stati visti aggirarsi a Portella quel giorno, di festa e di sangue dei
lavoratori. Seppero pure che don Peppino Troja, prima della
strage, aveva tenuto un incontro nella sua masseria di Kaggio, a
qualche centinaio di metri da Portella e che qualche giorno prima
altro incontro si era tenuto nella contrada Saraceno tra i capibanda
guidati da Giuliano. Seppero anche che a quest'incontro aveva preso
parte Salvatore Ferreri, alias Fra' Diavolo, confidente numero uno del
capo della polizia in Sicilia, Ettore Messana. Non approfondirono più
di tanto. Non ordinarono perizie legali, non vollero sapere se per
caso i feriti che avevano ascoltato, portavano ancora in corpo le
pallottole e le schegge delle granate esplose quella mattina sul
pianoro di Portella. Che Francesco La Puma aveva in corpo un
proiettile di mitra Beretta cal. 9 l'abbiamo saputo dopo 50 anni,
grazie all'Associazione 'Non solo Portella' e al lavoro del medico
legale Livio Milone; che Cristina La Rocca, allora bambina, portava in
corpo, a pochi centimetri dal cuore, una scheggia metallica a forma
stellare, l'abbiamo saputo noi di 'Non solo Portella', dopo che nel
cinquantenario delle stragi del '47 abbiamo giurato sul 'sasso di
Barbato' che ci saremmo organizzati, che non potevamo accettare
l'oblio. I giudici non ci consegnarono nessun mandante; assolsero i
mafiosi e presero atto che i principali testimoni che avrebbero potuto
dire la verità erano stati già ammazzati - si disse- in regolari
conflitti a fuoco. Ma le stragi non si cancellano col passare del
tempo, la nostra memoria è scritta sulla nostra pelle e nessun morto
va in prescrizione. Vi sono perciò grato per la Vostra solidarietà,
testimonianza del Vostro legame con un passato carico di senso e di
storia che neanche Voi, come me, volete archiviare, perché sia da
monito e insegnamento per le nuove generazioni.
Vi abbraccio affettuosamente
GIUSEPPE CASARRUBEA
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