Antisculture di liquirizia
di
G. L. Verzellesi
Ai giovani
che frequentano le Accademie e le scuole d'arte, agli artisti e
a tutti coloro che si sentono attratti dall'arte contemporanea ,
va segnalato un conciso libretto di Nigel Warburton ( ora
tradotto per Einaudi da Guido Bonino) in cui " La questione
dell'arte", come dice il titolo, è riproposta con una limpidezza
argomentativa rara ed esemplare. Da buon filosofo analitico
inglese, molto incline al pragmatismo, Warburton analizza le
tesi d'estetica dei suoi predecessori ( da Bell a Collingwood,
da Wittgenstein a Dickie e Levinson ) : non risparmia consensi
nè riserve ben ragionate; non discute le conclusioni raggiunte
da persone prime come Panofsky, Wind, Gombrich, R. Klein; non si
cura neppure dei buoni studi italiani di Pareyson, Eco, Brandi,
E. Migliorini... Ma non abbandona la generalizzazione
pessimistica, tenacemente sostenuta lungo i cinque capitoli del
suo saggio: " tutti i più importanti tentativi filosofici di
definire l'arte sono in qualche misura inadeguati " ( 105)
E' meglio lasciare i filosofi ai loro studi dottrinali e "
concentrarsi su opere particolari e domandarsi perchè sono arte
" (119)
Warburton non condivide l'obiezione di
Panofsky ( " senza un orientamento teoretico la storia dell'arte
si ridurrebbe a una congerie di particolari") ma inclina a
condividere il parere di Wittgenstein ( su certe "somiglianze di
famiglia" ravvisabili tra opere d'arte ) e in particolare a
sostenere, con Morris Weitz, un concetto aperto dell'arte, che "
ammette la posssibilità di casi nuovi e imprevisti " non
riconducibili alla tradizionale " presunta caratteristica comune "
ritenuta imprecisabile.
Il punto
delicato, e cruciale, di questa apertura al nuovo riguarda il
conferimento del carattere artistico alle opere. - A chi spetta? A
quali criteri obbedisce? Secondo il filososfo Dickie, il giudizio
spetta ai membri del mondo dell'arte , ma non è qualitativo: mira
soltanto a considerare un artefatto " come una potenziale opera
d'arte" ossia come un " candidato per l'apprezzamento " proposto
da persone che " agiscono per conto di una certa istituzione
sociale ( il mondo dell'arte) ". " Una delle critiche più
frequenti a questa teoria - precisa Warburton - è che ammette
troppe cose nella categoria dell' arte" e così la banalizza
conferendo " ad artefatti lo status di opere d'arte in modo del
tutto capriccioso ed arbitrario " (97)
In realtà,
pseudoteorie classificatorie come quella detta " istituzionale "
di Dickie, e interventi di critica sofisticata e inconsistente,
come quelli di Arthur Danto, suscitano ragionevoli dubbi sul loro
effettivo contributo al buon esito del dibattito, in corso, tra
sostenitori e negatori delle ultime tendenze artistiche. In
particolare, il caso ( proposto da Danto ) di una mostra
consistente in tanti dipinti monocromatici, dello stesso formato,
e color rosso ( che a parere di Danto avrebbero proprietà
artistiche differenti ) fa scattare la domanda: - In che cosa
consiste la differenza? La risposta dice che, essendo i titoli
diversi ( Gli israeliti attraversano il Mar rosso , o Quadrato
Rosso o Tovaglia rossa , e così via ), " per quanto visivamente
indistinti, i vari dipinti hanno soggetti differenti"... Ma questa
è una risposta certamente sbagliata: i titoli, per la critica
d'arte, servono come indicazioni, informazioni, aiuti contestuali;
ma non hanno il potere di annullare l'effetto dei caratteri visivi
in cui consiste la reale presenza dei dipinti. " Chi legge
cartello, non mangia vitello". E se il vitello si riduce al
rosso, che ricorre in una serie di quadri eguali ( e nulla più ) -
si dovrà ammettere con Arnheim, che questo è un esempio di arte
semplicistica , muta e priva di spessore qualitativo.
Altri
esempi, riportati nel quarto capitolo del saggio ( dallo Squalo
tigre in formaldeide di Hirst al Cavallo di Wallinger e a quello
di Cattelan, al Brillo Box di Warhol ), attestano che questa
tendenza riduzionistica, a liberare l'arte da ogni vincolo
formale, purtroppo è ancora ben diffusa. Il caso estremo è ( forse
) quello, segnalato da Warburton nell'ultimo capitolo,
dell'artista cubano Felix Gonzales Torres, che, nel 2000, ha
esposto un'opera consistente in cinquecento chili di cioccolatini
al caramello, sparsi sul pavimento di una galleria e offerti ai
visitatori. Lo stesso generoso e arguto artista, in questi giorni,
espone a Modena ( nella rassegna da Modigliani ai contemporanei )
una variante dell'opera precedente. La variazione non è indicata
dal titolo; ma consiste davvero in un cumulo di caramelle di
liquirizia versate in un angolo. Una dotta signora, addetta ai
lavori ermeneutici, ha scritto gentilmente che si tratterebbe di
un caso felice di " antiscultura ": in quanto tutta quella
liquirizia " è addirittura destinata a essere fisicamente
consumata dal visitatore ". Non si sa se per pura golosità, o per
necessaria consolazione.
Pubblicato sul
giornale L'Arena
, nelle pagine della Cultura , Sabato 27 Marzo 2004