Terra d’esilio

Luis Marsiglia

“Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figlie e figlie. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il bene del paese dove siete stati portati in schiavitù. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Geremia 29, 4-7 La lettera agli esiliati).

“Felice l’uomo che con il suo bastone di anziano percorre la stessa sabbia nella quale camminava da bambino” (Claudio Claudiano, Alessandria 370-404).

Tra il profeta Geremia ed il poeta latino Claudio Claudiano si svilupperà la riflessione. Trovo in Geremia il fondamento e la vitalità per assumere il mio esilio, trovo in Claudio Claudiano la speranza del ritorno e la paura di vivere e di morire lontano.

Non c’è dubbio che si parte per ritornare, ma il ritorno rimane una lontana utopia, il compimento di un percorso, la fine di una condanna.

Lasciare la propria terra è un destino amaro che diventa vitale se la nuova terra ci accoglie e se riusciamo a sentire che in quella terra si apre almeno una porta incondizionatamente e per sempre.

Non c’è poesia nell’esilio, la condanna si può tramutare in vita se riusciamo ad assumere il ruolo di pellegrini.

La terra dove siamo esiliati muta, mutano le persone, i sentimenti, i percorsi e noi mutiamo con questa terra. La terra da dove proveniamo, le persone che abbiamo lasciato, rimangono “congelate” nel ricordo e nel sentimento. Rimane fra le due terre uno spazio spettrale che possiamo percorrere, però con la coscienza che quando partiamo, partiamo per sempre, perché anche se torniamo, chi ritorna è un altro e altra la terra che abbiamo lasciato.

Col tempo gli spazi della memoria si riducono, diventiamo più essenziali, i sogni diventano spazio privilegiato della memoria. Si desidera dormire per poter sognare per ritrovare il mondo lontano che ci portiamo dentro, nei sogni ritroviamo prodigiosamente anche chi ci ha lasciati, nel sogno ci burliamo della morte e della distanza, ma nello stesso sogno una porta, una finestra o una parola ci riportano all’esilio, senza violenza, quasi senza trauma.

Un mondo è dentro l’altro fino a che non subiamo il risveglio.

La speranza di recuperare il territorio, le parole, i sentimenti, la speranza di recuperare il passato, diventa ossessiva nostalgia, diventa in molti casi malattia, separazione, estraneità, si perde il significato della vita o si vive solo nella speranza del ritorno. La realtà dell’esilio diventa finta scenografia e l’esule un attore che attende
che le luci si spengano per dormire. Ci sono anche dei momenti nei quali si attende un prodigio che ci riporti alla nostra terra. Le regressioni infantili sono comuni, si piange e si desidera la sicurezza del mondo materno. L’ossessiva voglia di dormire è senz’altro il desiderio inconscio del ritorno all’utero materno, il sonno ci nasconde e ci protegge, il risveglio ci ferisce.

Tutte le realtà dell’esilio hanno un forte potere evocativo, un volto, una parola, un sentimento, la musica, la pioggia… ”Bruscamente la sera s’è schiarita/ perché cade la pioggia minuziosa. / Cade o cadde. La pioggia è qualcosa/ che senza dubbio avviene nel passato. / Chi l’ascolta cadere ha ritrovato/ il tempo in cui la sorte fortunata/ gli svelò un fiore che è chiamato rosa/ e il bizzarro colore del granato./ Questa pioggia che adesso acceca i vetri/ rallegrerà nei perduti sobborghi/ le nere uve di una vite in un cortile dileguato./ La squillante sera mi porta la voce sognata/ di mio padre che torna e non è morto” (Jorge Luis Borges “La lluvia”).

Memoria

Possiamo affermare che col tempo si crea una sorta di doppia memoria, ognuna con poteri diversi: la memoria che formiamo nella terra d’adozione e la memoria profonda con radici lontane. La prova che queste due memorie si incontrano e in qualche modo entrano in dialogo la sperimentiamo nei sogni e nei rapporti profondi, nel momento stesso in cui ci sembra di parlare la nostra lingua quando in realtà parliamo una lingua straniera, nel momento in cui mettiamo a rischio la nostra vita senza pensare dove lo facciamo, nel momento in cui superiamo la naturale separazione fra noi e la realtà al punto da coinvolgerci per trasformarla, nel momento in cui scopriamo che non giudichiamo più in maniera distaccata la realtà dell’esilio perché di quella realtà ci sentiamo parte.

L’esilio porta con sé un cambiamento fondamentale delle dimensioni dello spazio e del tempo in cui trascorre la vita. Risulta difficile capire che in tutte e due le terre il tempo scorre e si trasforma nella stessa maniera, ci sembra che nella terra d’origine il tempo si fermi per noi e che prima o poi potremo recuperare quel tempo e quello spazio. Da una parte sentiamo i discorsi della gente radicata o inserita come superficiali, dall’altra sperimentiamo il desiderio di assimilazione, di perdita di identità, di adattamento totale. Solo nel momento in cui riusciamo a stabilire rapporti profondi con le persone della terra che ci ospita i tempi e gli spazi confluiscono e il nostro sguardo “diverso” trova nella nuova realtà uno spazio vitale e creativo. Ma siamo sempre stranieri, la propria estraneità ritorna sempre e quello che è più tragico anche nel momento del ritorno perché l’esilio cambia la nostra percezione del mondo e ritorniamo impregnati della terra dell’esilio.

Abitare la nostalgia

La nostalgia abita le forme del sentimento, i loro malcerti confini, la loro diffusa indeterminazione.

Tanto varie sono state le aree semantiche da essa incorporate, che l’uso ha trionfato sull’anacronismo, e sotto il suo nome sono stati convocati eventi di lontanissimi tempi e forme contrastanti: la nostalgia può avere per oggetto Itaca, l’Eden, la lingua pre-babelica, l’infanzia e persino il futuro. La distanza dal noto, dal famigliare paesaggio, volti, lingua - può prendere la forma del viaggio, può definirsi nell’immagine del navigante o del pellegrino. Anche se un luogo non è solo un luogo, ma le parole e gli eventi che lo abitano, è tuttavia attorno alla sua visibilità negata, attorno alla sua sparizione allo sguardo, che si dispiega il sentire della nostalgia. Questo punto fattosi invisibile e impossibile è spesso il luogo natale: relazione di memoria, di ritmo, di angoscia. Si può scorgere come di fatto sia messo in scena un altro legame essenziale, la lingua materna per non oscurare questa lingua materna e reinventarla ogni volta, persino nella disseminazione e nella Babele del senso e del suono, poiché alla terra materna si può tornare soltanto con la lingua materna o accompagnati dalla misteriosa e indecifrabile morte.

All’opposto di questa attesa, c’è un modo della nostalgia che crede possibile il ritorno: un nostos immaginario e per questo capace di forte identificazione. E’ in riferimento a questa onda regressiva, restaurativa, che alcune lingue hanno registrato l’aggettivo “nostalgico”. Sottratto all’orizzonte della finitudine, dell’irreversibile, della vanitas, lo sguardo sul passato può diventare addomesticamento allucinatorio di quel che è stato o che si pensa sia stato.

Nell’irreversibile e nell’oblio, la memoria apre varchi, questo salire del tempo, questo ritorno di parvenza da un luogo perduto dove un nuovo tempo dal tempo già consumato si dispiega e si fa sostanza. Questo nuovo tempo è l’atto stesso del narrare, del piangere e perfino dell’impazzire. Una sorta di eclisse dove si incontrano insieme il tempo bruciato e il tempo ritrovato.

Nell’esilio ogni conoscenza è una riconoscenza. In questo gioco di riflessi, di ripercussioni e di parvenze, la vita è esperienza di una distanza, un esilio dalla felicità. Il senso della finitudine appartiene al movimento della ricordanza. La sua spina, il dolore del “mai più”, è la radice della malinconia.

Il dolore della ricordanza ha radice proprio nell’esperienza del finito, dell’irreversibile.

Lo sguardo sulle rovine, la fissazione sulle reliquie disanimate, sono propri del melanconico: la perdita e il lutto che essi dischiudono, cancellano ogni altro rapporto, esigono una dedizione esclusiva. Eppure la ricordanza non sempre partecipa fino in fondo di questo lutto. Dentro queste nebbie, proprio la coscienza che nessun ritorno è possibile crea una ferita mortale che solo l’amore o l’arte possono trasformare in vita.

Per l’uomo maturo, l’esilio riformula tardivamente la premessa della iniziazione e del divenire, riapre la potenzialità estrema e il rischio estremo dell’esistenza, mettendo in questione tutte le fasi dell’esperienza passata. In più, in colui che è stato prematuramente traumatizzato, in colui che non si è mai liberato del tutto della psicosi della provvisorietà, dalla minaccia di essere, una volta o l’altra, gettato di nuovo nel caos dell’ignoto, l’esilio scatena di colpo tutte le antiche paure. Non è tanto il fatto di perdere la stabilità, comunque precaria e incerta, ma piuttosto la sensazione di sprofondare nell’abisso di una instabilità senza fine.

17 maggio 2000