Fondamenta Venezia 5-8 ottobre 2000
I paradossi del glocalismo economico e culturale
Serge Latouche, Università di Parigi
Il concetto di glocale fa la fusione delle due parole : globale e locale. La globalizzazione è infatti come un Giano bifronte. Il secondo lato è il localismo. Chi vede nell'attuale mondializzazione un fenomeno di civilizzazione, il proseguimento dell'occidentalizzazione del mondo non puo' fare a meno che interessarsi non soltanto alla globalizzazione dei mercati, in una ottica ecomicista ma anche agli effetti culturali. Interrogarsi su i rapporti fra culture locali e cultura globale. Qual'è il ruolo delle culture della "Tradizione" in una società globalizzata e multiculturale? E' possibile preservare le "identità" locali, sottraendosi al localismo e al particolarismo ? Come costruire un legame fecondo fra le culture locali e le culture altre che convivono nelle società europee ? Il problema si pone in termini paragonabili per la sovravvivenza delle economie locali di fronte all'economia mondiale. Allora si puo' parlare di "glocalismo" culturale come si parla di "glocalismo" economico. Contrariamente alla visione economicista, l'economia non è al di fuori della cultura. Fa parte della cultura o al peggio prende il posto della cultura. L'économia mondiale, che è il nocciolo della cultura occidentale, ha degli effetti terrificanti sulle altre culture. Ma è vero anche che l'identità locale forte è un fattore di dinamismo delle vita locale se no dell'economia. Questo ci colloca nella riflessione su "l'alternativa", quella di Tonino Perna nel suo libro "Fair Trade. La sfida etica al mercato mondiale" (Bollati Boringhieri 1998) o la mia nell'altra Africa e quella del MAUSS. Dunque bisogna parlare del cosiddetto "sviluppo locale" come "ricadute" della globalizzazione, poi delle reazioni locali di fronte alla globalizzazione e delle "nuove cittadinanze".
I - Lo sviluppo locale e la cultura locale come paradossi
Incontestabilmente, la globalizzazione ripone la questione del locale, come riapre la questione del locale, il "dopo-sviluppo". Sono rivelatrici i titoli di alcuni libri recentemente usciti. Per esempio, "Glocalismo, l'alternativa strategica alla globalizzazione (Arianna editrice, 1998) o Aldo Bonomi et gli altri autori del libro recente "Manifesto per lo sviluppo locale, dall'azione di comunità ai Patti territoriali (con contribuzioni di Giuseppe de Rita, Alessandro Scassellati et Claudio Donegà, Bollati Boringhieri, 1997).
Il problema, in effeto, non è tanto con la parola "locale" quanto con la parola economia che ci colloca più o meno alla questione dello "sviluppo". Se il "locale" è ambiguo in ragione della sua estensione geografica che è a geometria variabile - dal paese alla regione trasnazionale e transfrontiere, dal micro al macro, passando dal mezzo - rinvia in modo non equivoco al territorio, alle radici. Per la parola "sviluppo", non è cosi. Si tratta di un concetto ingannatore. Nella mia opinione, lo sviluppo è morto. Purtroppo è morto più del suo successo con la cosiddetta "mondializzazione" che del suo (non meno sicuro) fallimento. Se il locale emerge oggi, non emerge (o non dovrebbe emergere) come "sviluppo" ma nell'ambiente del "dopo-sviluppo" o del "al di là dello sviluppo".
A) La mondializzazione e la morte dello sviluppo
In un’economia mondializzata non c’è più posto per una teoria specifica per il Sud neanche pei nazioni. Ad un mondo unificato corrisponde l’impero del pensiero unico. Lo sviluppo è intrinsecamente legato alla nazione. Era lo stato-nazionale l'attore principale dello sviluppo. Lo stato sparisce oggi con la mondializzazione dietro il mercato.
Se lo sviluppo sopravvive ancora alla propria morte, lo deve soprattutto alle critiche di cui è oggetto ! Come l'idra di Lerne, se non le vengono tagliate tutte le teste, non è definitivamente morto. Inaugurando l’era dello sviluppo " particellizzato " o aggettivato (umano, sociale, locale, sostenibile, ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo nudo e crudo, quello che io chiamo " lo sviluppo realmente esistente ", del Nord e del Sud, strumentalizzandole. Lo sviluppo sostenibile e lo sviluppo locale sono le più riuscite di queste operazioni di ringiovanimento di vecchie chimere. Lo sviluppo locale è uno di questi bricolages intellettuali, i quali cercano di cambiare le parole senza cambiare le cose : sono delle mostruosità verbali a causa della loro antinomia mistificatrice.
Un tale " riposizionamento " corrisponde allo spostamento generato dalla " globalizzazione ", ed a ciò che si nasconde dietro quest’altro slogan mistificatore. L’oggetto del passaggio dallo sviluppo alla globalizzazione non è altro che la scomparsa di ciò che dava una certa consistenza al mito sviluppista, ovvero il " trickle down effect " (effetto di percolazione). La distribuzione della crescita economica al Nord, e perfino quella delle sue briciole al Sud, assicurava una certa coesione sociale e nazionale. Le tre D (deregolamentazione, dischiusura, disintermediazione) hanno mandato in frantumi il quadro statale delle regolazioni, permettendo così alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti. La polarizzazione della ricchezza tra le regioni e tra gli individui al interno delle regioni raggiunge livelli senza precedenti. Secondo l’ultimo rapporto del UNDP, se la ricchezza del pianeta è aumentata sei volte dal 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena regressione, e così pure la speranza di vita. Le tre persone più ricche del mondo possiedono una fortuna superiore al PIL totale dei 48 paesi più poveri ! Il patrimonio dei 15 individui più ricchi supera il PIL di tutta l’Africa subsahariana. La fortuna delle 32 persone più ricche del mondo supera il PIL totale dell’Asia del Sud. Gli averi delle 84 persone più ricche supera il PIL della Cina, coi suoi 1,2 miliardi di abitanti !
In queste condizioni, non è più di attualità lo sviluppo, ma solo gli aggiustamenti strutturali. Per la dimensione sociale si fa ampiamente appello alla benevolenza sociale o locale. Il "locale" come il " sostenibile " è quindi semplicemente ciò che permette allo sviluppo di sopravvivere alla propria morte.
La dizione "sviluppo locale" non sfugge alla colonizzazione dell'immaginario da parte dell'economia. Lo sviluppo ha distrutto il locale. In Francia, lo sviluppo locale è nato nelle aree rurali (e a proposito di queste), in particolare nelle aree di montagna, vittime della agricoltura produttivista.
A proposito dell'organizzazione urbana nella regione Nord-Pas de Calais nei anni settanta, non si diceva già che i crediti dipartimentali dell'agricoltura destinati al benessere degli agricoltori, con il prestesto di aprire sul mondo esteriore le zone rurali, servivano in realtà a spingerlo ancora di più verso la città e a premettere al parigino di installarsi nella fattoria, trasformata in una casa di campagna ?
Travaillant sur l'aménagement urbain de la région Nord-Pas-de-Calais, dans les années soixante-dix, ne disait-on pas déjà que les routes construites à grands frais, sur les crédits départementaux de l'agriculture destinés au bien-être des paysans, sous le pretexte de désenclaver les zones rurales, servaient au dernier agriculteur à procéder à son déménagement vers la ville et au premier parisien à installer sa maison de campagne dans la ferme ainsi libérée !
Cio' che si è passato e si passa con le banche è rivelatore. Al secolo scorso, c'era una folla di piccole banche locali e regionali, fortemente radicate nell'economia locale. Lo sviluppo delle banche nazionali ha fatto sparire queste banche. E oggi, si sviluppano banche transnazionali che fanno sparire le banche nazionali. Se il denaro è il nerbo dell'economia, la sparizione delle banche locali è forse la fine dell'economia locale. Come scrivono i teorici di "time dollars", l'economia assicura la sua crescita "nutrendosi della carne e dei muscoli che mantenevano la società legata". Il mercato ha marginalizzato progressivamente aree importanti tanto al Sud quanto al Nord. In tali aree depresse, che sopravvivono con l'assistenza, quasi tutto il denaro, guadagnato sul posto o proveniente dai sussidi, è accaparrato dai supermercati fuori la zona. Si sbocca sulla situazione delle riserve indiane nord-americane dove "ci vuole soltanto quarant'otto ore perchè il 75% dei dollars attribuiti dal governo federale finiscano nelle città limitrofe". Utilizzare la creatività popolare e locale, le risorse diverse del territorio per "risviluppare" significa in qualche modo andare contro la storia. Tenendo presente tutto questo, la demistificazione anche dello sviluppo locale è una battaglia tutt’altro che retrograda, poiché anche l’occidentalizzazione e la globalizzazione si ritrovano demistificate. Anzi, dobbiamo rivenire sulla significazione del processo globale per capire il limite del cosiddetto "locale".
B) L'Occidente come megamacchina anticultura: l'universalismo cannibale
Megamacchina tecno-economica, anonima e oramai senza volto, l'Occidente rimpiazza al suo interno la cultura con una meccanica che funziona per esclusione e non per integrazione dei suoi membri, mentre ai suoi margini, alle sue periferie, schiaccia con la sua dinamica conquistatrice le altre culture come un rullo compressore. In un certo modo, l'economia (e la tecnica), che si presenta spesso come l'alter ego della cultura, non sta a fianco di essa, ma è la nostra cultura, o meglio il suo surrogato. La cultura, nel senso pieno che questo termine ha assunto nella tradizione antropologica, ha la funzione di dare significato alla realtà umana e sociale. Ora, poiché l'uomo, a differenza degli altri esseri viventi, vive immerso nel significato, la cultura è quanto gli permette di trovare una risposta al problema dell'essere e dell'esistenza. Noi siamo letteralmente immersi nella cultura.
Nondimeno, l'Occidente moderno ha imposto la tecnica e l'economia come «ambiente» sociale, riducendo cosi il significato ad una semplice funzione : la funzione vitale, quella di vivere per vivere, o di vivere per consumare e consumare per vivere. . . L'unico senso della vita che i prodotti dell'industria culturale propongono ai nostri figli è : guadagnare del denaro e ne guadagnare sempre di più. Si puo' pertanto dire che questa sedicente cultura occidentale è un'anticultura. Essa uccide o distrugge le altre culture. In quanto pseudocultura universale, essa è una cultura cannibale. Divora le altre culture e i suoi propri figli ; assassina o distrugge tutto ciò che resista a essa. «La mondializzazione osserva Vandana Shiva - non comporta la fecondazione incrociata delle diverse civiltà. E l'imposizione agli altri di una cultura propria, quella del Occidente e più ancora quella dell'America del Nord». Questo imperialismo culturale finisce il più delle volte per non sostituire all'antica ricchezza altro che un tragico vuoto. Questa megamacchina tecno-economica agisce massivamente nel senso dell'esclusione. Essa si base sul culto del primato tecnico ed economico, senza freni né limiti, il profitto per il profitto, l'accumulazione illimitata.
Cosi facendo, il meccanismo produce necessariamente una massa enorme di perdenti: gli esclusi, gli emarginati, i bocciati. Questa «cultura» del successo è dunque ipso facto una cultura del fallimento. Ora, ogni cultura punta innanzitutto all'integrazione dei suoi membri, di tutti i suoi membri e non solo di qualcuno. Non mira soltanto ad un'integrazione immaginaria, ma ad una integrazione reale nella vita concreta. Fornisce i miti e le credenze che contribuiscono alla costruzione sociale delle persone, che danno un significato alla loro esistenza, mentre le provvede dei mezzi materiali indispensabili e si assume il compito di favorire i legami sociali e la solidarietà collettiva. Non limita i suoi benefici effetti a pochi eletti o ad una élite, ma li estende a tutti. L'integrazione astratta dell'umanità nel tecnocosmo attraverso il mercato mondiale, attraverso l'omnimercificazione del mondo e la concorrenza generalizzata, si compie al prezzo di una desocializzazione concreta, di una decomposizione del legame sociale, a dispetto del mito della mano invisibile, caro agli economisti.
Il sottosviluppo locale, come quello del Sud, non è solamente una forma di acculturazione, ma una vera e propria deculturazione. I suoi sintomi economici non possono essere spiegati né compresi con la sola economia, poiché alla sua origine non vi sono ragioni economiche. L'analisi del sotto-sviluppo in termini di dinamica culturale è esclusiva e non complementare dell'analisi economica, dal momento che la cultura, intesa in senso forte, ingloba l'economia. Seguendo la nostra analisi, il sottosviluppo è in prima istanza un giudizio portato dall'esterno, su una realtà che dall'esterno è modellata. E l'interiorizzazione dello sguardo dell'altro, questo processo di autocolonizzazione dell'immaginario che intrappola le società locali come le società non-occidentali nella dinamica infernale dell'occidentalizzazione/globalizzazione.
C Le conseguenze locali della mondializzazione
La mondializzazione/globalizzazione del sistema ha due conseguenze : primo un ritiro relativo dell'istanza nazionale (e del suo peso relativo), d'altra parte, come effetto e causa di questo processo, una nuova organizzazione della produzione, il postfordismo.
Sempre di più lo stato-nazione indebolito appare inadatto alla soluzione dei problemi. Come dice Daniel Bell : "The nation-state now seems to be toobig for the small things and too small for the big things".
Inoltre, ormai, le attività economiche oggi sono struturate in rete. Cogliamo in questa evoluzione, la nascita di nuovi sistemi economici (cio' che in Francia definiamo tecnopolis (città tecnica, tecnopolio) o tecnopoli (poli tecnici). Infatti, i cambiamenti locali, e in particolare, quelli benefici, hanno poco a che vedere con lo sviluppo : essi possono essere analizzati secondo due processi che sono concorrenti e complementari. Da una parte, infatti, possiamo distinguere delle ricadute locali di fenomeni che spazialmente hanno luogo altrove, e che sono anche decisi altrove ; dall'altra, possiamo identificare le reazioni di una certa società di fronte alle conseguenze di uno "sviluppo" (e più ancora del processo di globalizzazione), di un fenomeno sociale in movimento, che pero' non è controllato dalla gente locale e che non è dominato da essa.
Questi due processi - spesso combinati in una sorta di strana alleanza, alcune volte contro-natura - formano proprio quello che viene chiamato, a mio avviso erroneamente, "sviluppo locale". E che io interpreto - lo espicito ora onde evitare malintesi successivi - come la sommatoria delle ricadute locali di un processo globale che ha luogo altrove. Questa interpretazione comporta un'analisi completamente diversa del rapporto fra locale e globale- rispetto a quella che si sforza di studiare e promuovere lo sviluppo locale - Non sono naturalmente da escludere alcune ricadute positive di questi processi particolarmente con la decentralizzazione amministrativa e politica, e ancora di più con le reazioni di fronte alla minaccia di una desertificazione del tessuto locale. Ci sono due effetti complementari del processo : l'installazione locale di queste reti transnazionali, e le ricadute indirette di tale insediamento. Certo, il ritiro relativo dello stato-nazione e delle sue tutele (penso palesemente al caso francese) restituisce vita al regionale ed al locale, allentando i freni, dando l'impulso ad una ripresa culturale. Tutto questo puo' generare delle sinergie economiche. Il tempo libero, l'educazione, l'ambiente, l'alloggio, i servizi alle persone, si gestiscono al livello micro-territoriale, a livello del bacino di vita. Questa gestione del quotidiano coinvolge una frazione della popolazione in iniziative civiche. Queste sono importantissime per tentare di ritrovare il controllo del proprio vissuto. Ne sono testimonianza, in Francia, gli asili parentali, le regie di rione, i sistemi di scambio locali (le banche del tempo), botteghe di gestione e le molte associazioni culturali.
Tuttavia, questa economia sociale, il cosiddetto terzo settore, dipende largamente del finanziamento pubblico.
Quanto al cosiddetto microsviluppo locale derivante dal grande sviluppo globale, dal "big business" transnazionale, è, a lungo termine, secondo me un fenomeno illusorio e provvisorio che non dà adito ad una dinamica propria, non è autonomo, non porta ad una autointegrazione ed è quindi destinato al fallimento. Potremmo definire quindi lo sviluppo del tecnopolio, ed il suo rapporto con il "locale", come una cattedrale ad alta tecnologia in un deserto regionale. Ce ne sono pochi teconopoli riusciti.
La desertificazione dei territori trasforma le culture a folkore nel caso migliore o le distrugge più spesso. La verità del cosiddetto glocalismo è una messa in concorrenza dei territori. Questi sono invitati a offrire delle condizioni sempre più favorevoli alle imprese transnazionali, in termini di vantaggi fiscali, di flessibilità del lavoro e di regolamenti ambientalisti. E' un vero incoraggiamento alla "prostituzione". Come si dice in francese si tratta di svestire Pietro per vestire Paolo !
La strategia di unioni sacre locali per fare "guadagnare" la località e per vendere "l'immagine del paese" non genera che una "economia a due marce" e fanno vivere gli esperti dello sviluppo locale senza ridurre in maniera significativa la frattura sociale ! Le iniziative locali, la creatività locale, vengono traviate, recuperate, marginalizzate dalla logica dell'economia e dello sviluppo. Il microcredito e le società di mutuo sono dei buoni esempi. Penso alla banca dei poveri di Yunus, creata in Bangladesh e recuperata dalla Banca Mondiale per vendere telefonini alle povere contadine !
Anche le imprese piccole e medie non hanno oggi molto spesso molti legami con il territorio. Se ne hanno con i poteri locali, questi sono purtroppo di più in più incestuosi o mafiosi. La cosiddetta terza Italia che è ancora citata come modello e paradigma di uno sviluppo locale, rappresenta piuttosto una figura d'eccezione storica se non una specie in via di estinzione
Molte aziende, e non soltanto piccole e medie, si comportano come cacciatori di premi. S'impiantano in modo sommario per razziare i sussidi e rapidamente vanno altrove per ricominciare.
In breve, possiamo dire che siamo di fronte a territori senza potere alla merce di poteri senza territorio.
II - Uscire dall'economicismo e ritrovare il locale.
Certo, è necessario rivitalizzare il tessuto locale, ma soprattutto è necessario per uscire dall'immaginario economico e sviluppista, e per lottare contro la globalizzazione.
La mercantilizzazione del mondo fa sparire i limiti. Essa distrugge lo stato-nazione, svuota la politica della sua sostanza, accumula minacce enormi sull’ambiente, corrompe l’etica e distrugge le culture.
L’integrazione astratta dell’umanità nel tecnocosmo, operata dal mercato mondiale, dall’omnimercantilizzazione del mondo, e la concorrenza generalizzata avvengono a prezzo di una brutale desocializzazione, della decomposizione del legame sociale, a dispetto del mito della "mano invisibile" caro agli economisti.
La mia riflessione su una strategia locale alternativa si rivolge meno alle esperienze in sè e per sè, e più all'obiettivo di una coerenza globale dell'insieme delle innovazioni alternative : imprese cooperative autogestite, comunità neo-rurali, Lets, Sels o banche del tempo, "régies de quartiers" (regie di rione), asili parentali, botteghe di gestione, Centri sociali, e cosi via. In Europa - ma non solo, anche negli Stati Uniti - assistiamo ad un nuovo fenomeno. Alla nascita di quelli che vengono definiti i neoagricoltori, i neorurali, i neoartigiani. Alla nascita di una miriade di coopérative il cui movimento d'insieme viene definito - a mio avviso erroneamente - "microsviluppo". Secondo me, invece più che di microsviluppo si dovrebbe parlare di "anti-sviluppo", poiché ci troviamo di fronte a tentativi di fondare una nuova logica sociale, basata sulla rivalutazione degli aspetti non economici, sul "dono" (inteso come la triplice obbligazione) e su nuovi rapporti sociali.
(Nel mezzogiorno, secondo Tonino Perna, non ci sono più banche locali. Il finanziamento delle iniziative localmente radicate, come il commercio equo e solidale, le imprese ecologiche o alternative non sarebbero possibili senza la banca etica.)
Queste esperienze che sono tutte delle forme di autoorganizzazioni locali, ci interessano meno per sé stesse che come forme di resistenza e di dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell'omnimercantizzazione del mondo.
Si tratta di una vera e propria mobilitazione della popolazione locale a difesa del territorio.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è, in effetti, quelle di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere e di svilupparsi, piuttosto che lavorare alla costruzione e al rafforzamento d'una nicchia (nel senso ecologico del termine). Articolandosi secondo lo sviluppo economico ed il mercato mondiale, (con i sussidi dello Stato, di Bruxelles, ecc.), sono condannate a sparire in un modo o in un altro. C'è una lezione dell' esperienza africana della società vernacolare che puo' servire anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative. La gestione alternativa ha bisogno di appoggiarsi alla "nicchia" piuttosto che di giocare sul settore di mercato, la trincea (le creneau). Non è il settore di mercato, la trincea, che puo' far vivere l'impresa alternativa, ma la nicchia. La nicchia è un concetto ecologico, molto più vicino all' antica prudenza (la phronèsis d'Aristotele). L'impresa alternativa vive o sopravvive in una ambiente che è, e deve, essere differente dell'ambiente del mercato. E quest'ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la loro trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare e approfondire la nicchia al margine dell'economia globalizzata.
Non si tratta di concepire il particolarismo locale (la nicchia) come un'oasi conviviale nel deserto umano del mercato mondiale, ma come un organismo in espansione che impedisce il deserto di avanzare e lo fa arretrare.
E' tale coerenza a rappresentare una vera alternativa al sistema. Si tratta di coordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative, per articolare resistenza e dissidenza, e per arrivare alla fine in una società autonoma. E cosi che, al contrario di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno... Si vede che si tratta finalmente di un alternativa culturale nel senso forte della parola cultura, ma che la cultura nel senso, più usuale, ha un ruolo essenziale da giocare.
Conclusione
E necessario, in effetti, rivitalizzare il tessuto locale. É necessario, perchè, anche su un pianeta virtuale si vive localmente... ma sopratutto, è necessario per uscire dal immaginario economico e per lottare contro la globalizzazione. Secondo il bel saggio del Wuppertal institut, "Futuro sostenibile", è necessario ancora sul piano ecologico. Soltanto una rinascita della vita locale, della cultura locale e della economia locale ci puo' permettere di evitare sprechi insensati di energia e risorse naturali, e di concepire un futuro sostenibile. La posta sta nell'evitare che il "glocale" serva unicamente come alibi al perpetuamento della desertificazione del tessuto sociale. Che sia soltanto un cerotto affibbiato sulla piaga aperta, in altre parole, un termine di illusione e di diversione.
Bisogna denunciare l'illusione di una cultura planetaria che sarebbe il sottoprodotto della mondializzazione tecno-economica. La realtà dell'erosione e della distruzione dei valori e delle culture da parte della megamacchina tecno-economica globale è, in qualche modo, la verità dell'universale, dacché questo universale è unicamente e esclusivamente occidentale e dacché il suo nocciolo duro altro non è se non l'economicizzazione/mercatizzazione del mondo. Ad un mondo unificato corrisponde l'impero di un "pensiero unico" che tiene luogo della cultura.
Questo economicismo ha ridotto la cultura a folklore e l'ha relegata nei musei. Liquidando le culture nel nome di un mondo unico con un pensiero unico, la mondializzazione provoca l'emergenza delle "tribù", dei ripiegamenti, degli etnicismi, e non la coesistenza e il dialogo. Il montare della violenza mimetica sulla base della vittimizzazione di capri espiatori è il corollario dell'omogeneizzazione/omologazione e dei falsi meticciati.
Amplificati dai media, questi fenomeni hanno provocato una tale repulsione, senza dubbio legittima, che ne risulta esaltato un universalismo beatificato e tutto d'un pezzo, di essenza esclusivamente occidentale, con la ripetizione magica di slogan vuoti come la democrazia e i diritti del uomo.
Tuttavia, dopo quarant'anni di occidentalizzazione economica del mondo, è ingenuo e in malafede recriminare sui suoi effetti perversi. Ci si è cosi chiusi in un manicheismo sospetto e pericoloso: etnicismo o etnocentrismo, terrorismo identitario o universalismo cannibale.
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono : la sopravvivenza, la resistenza et la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare nè privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto dobbiamo sopravivere. E ovvio, senza ciò nessuna resistenza ne dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo. Come dice Woody Allen "Odio il mondo nel quale vivo, ma è l'unico luogo dov'è possibile farsi servire una bistecca corretta ...". Sopravvivere significa adattarsi al mondo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Dobbiamo accettare dei compromessi nell'azione concreta e quotidiana, ma senza accettare delle compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza. La resistenza mentale all'impresa del "lavaggio del cervello" da parte dei media e il dominio devastatore del "pensiero unico".
Dunque dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e quindi condannata a fracassarsi contro un muro. Resistere significa allora, tentare di frenare, di cambiare la direzione se è ancora possibile. Come in verità nessuno lo sa, dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. É questa la dissidenza. Nei tre casi, il territorio, e il senso del limite sono molto importanti. Perché il patrimonio locale è la base della sopravvivenza, della resistenza e della dissidenza, cosi com'è la sorgente del senso del limite. Se la razionalità dell'économia dominante è legata alla trilogia "ingegnere/industriale/imprenditore", e da qui alla dismisura, il ragionevole (quello della sociétà vernacolare africana) è legato alla trilogia "ingegnoso, industrioso, intraprendente", ed anche al territorio e perciò alla misura, al senso del limite.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio, è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.