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Parmenide versus Protagora
Modelli filosofici a confronto
di Nicola Forte
Definire in brevi cenni una scuola filosofica, o il filosofare di un singolo pensatore, comporta il rischio di un’eccessiva semplificazione col risultato di banalizzare il proprio discorso o di cadere in grossolani errori. Tuttavia non sarà del tutto forviante dire che ogni filosofo e ogni corrente filosofica rivela una sua peculiare sensibilità. Sensibilità generata da situazioni storiche, politiche ed economiche che a loro volta si riversano nel filosofare di ogni autore. Alcuni filosofi confidano nella capacità umana ad ampliare la conoscenza e a cambiare il mondo; altri, viceversa, vedono in questa capacità una tragica illusione. Questi modi di filosofare e di inquadrare la funzione dell’uomo nel mondo possono risalire a due modelli contrapposti nel loro evolversi dialettico, modelli che caratterizzano tutt’ora il pensiero occidentale: ci riferiamo al modello parmenideo e al modello protagoreo.
Questi archetipi del filosofare risalgono ai due autori che per primi hanno affermato una visione del mondo e il fine dell’uomo diametralmente opposta.
Parmenide nel suo poema Sulla natura, poema giunto a noi solo in frammenti, contrappone le verità dell’uomo alla verità dell’Essere. Volendo essere più precisi diciamo che egli suddivide il poema in due parti: l’aletheia o Teoria della verità e la doxa o Teoria dell’opinione. Già questa suddivisione è estremamente indicativa riguardo al proponimento dell’eleate: esiste una verità assoluta (aletheia) del tutto indipendente dall’uomo e dalla sua possibilità di conoscerla. Questa è la verità dell'’essere, verità che non si dà a tutti gli uomini ma solo a quelli che, come Parmenide, esercitano la filosofia. Solo costoro potranno trasmettere questa verità donata, questa verità rivelata, e quindi di natura divina, alla pluralità degli uomini.
I pensatori che nel corso dei secoli si ispireranno al modello parmenideo cercheranno sempre di dissolvere il mondo della doxa, il mondo della vana e fugace opinione umana, in una verità certa, in una verità assoluta e razionalmente necessaria per la condotta umana.
D’altro canto il modello protagoreo propone una verità per l’uomo “a misura di tutte le cose”. Nel modello protagoreo l’uomo è in primo luogo responsabile delle sue scelte e delle sue azioni, e sulla base delle sue conoscenze determina il corso degli eventi. Nel modello protagoreo la verità è una risorsa, una conquista del tutto umana, mutevole a seconda delle condizioni in cui l’uomo si trova ad operare. Anche di Protagora non ci è rimasto che qualche frammento. La fonte maggiore che noi abbiamo del suo pensiero è l’interpretazione che Platone ha dato del sofista al quale dedica un intero dialogo. L’interpretazione, diventata canonica, vede Protagora come dissolutore della verità divina, e in generale di tutta la divinità, in una visione utilitaristica e pragmatica della verità. Questa spogliata da ogni eternità diventa uno strumento insegnabile e comunicabile agli uomini attraverso le tecniche. La verità deve risolvere le faccende pratiche della vita come le dispute nei tribunali e nella politica, essa indica di volta in volta ciò che è bene e ciò che è male per la guida di una comunità e per il governo dello Stato. A questa interpretazione che ci presenta Protagora, e in generale la sofistica, come un filosofare ambiguo e spregiudicato Platone oppone la classe dei filosofi che nella Repubblica sono difensori della legge e dello Stato in quell’ordine parmenideo della verità e della giustizia. Nel mito della caverna questa difesa e il compito assunto del filosofo diventano espliciti: gli uomini a misura di tutte le cose di Protagora in questo mito sono incatenati nel fondo della caverna e contrabbandano le ombre riflesse sulla parete per verità. Solo uno di essi spezza le catene dirigendosi verso l’uscita della caverna. Questi è il filosofo al quale è data la possibilità di elevarsi fino all’uscita ed ammirare la verità iperuranica nella sua perfezione. Infine il filosofo assolverà il suo compito ritornando all’interno della caverna e liberando gli altri uomini.
Un esempio del modello Protagoreo lo troviamo all’inizio della filosofia moderna col filosofo Francesco Bacone. In Bacone la scienza e la tecnica diventano il fulcro non solo di un rinnovamento della filosofia ma dell’intera civiltà. In questa visione, e contro gli aristotelici, la conoscenza dei fondamenti scientifici non è più impostata sulla contemplazione delle leggi della natura, ma sulla loro effettiva base operativa per la trasformazione del mondo. Di conseguenza gli idola che nascondono il vero sapere, nel loro significato più profondo, sono da ricercarsi in quella tradizione inaridita nei suoi pregiudizi che ostacola una costruzione fattuale del sapere umano.
Pur lontane nel tempo e negli obbiettivi notiamo come in un modo del tutto speculare vengono a contrapporsi due filosofie, quella platonica e quella baconiana, e i loro rispettivi modelli sullo stesso punto: la possibilità della conoscenza da parte dell’uomo e la conseguente trasmissibilità ed applicabilità della stessa. Finora la nostra breve analisi ha considerato l’uomo come referente esplicito dell’osservazione filosofica. In realtà il riferimento antropologico, da noi evidenziato per comodità espositiva, non è sempre del tutto esplicito. Nella storia del pensiero ci sono filosofi che non considerano affatto il problema antropologico essenziale al loro pensiero. Tuttavia ogni ricerca filosofica è implicitamente rivolta all’uomo e alle sue domande fondamentali: il significato della sua esistenza e il suo posto nel mondo.
Un esempio di filosofia che non pone l’uomo al centro della sua speculazione è quella del neopositivista Ludwig Wittgenstein.
Il filosofo di origine austriaca nel suo Tractatus logico-philosophicus se da una parte vede nel linguaggio simbolico della logica matematica l’unico strumento per liberare il linguaggio comune da malintesi ed equivoci derivanti dalla sua pluralità di significati, dall’altro si accorge che l’ideale di una lingua perfetta è un’idea-limite, concretamente irrealizzabile, tanto che sul finire del Tractatus Wittgenstein osserva che anche se risolviamo tutti i nostri problemi scientifici le domande fondamentali della nostra vita non verrebbero neppure toccate e termina la sua opera con l’invito al silenzio: su ciò che non si può dire conviene tacere. Tuttavia nell’opera postuma le Ricerche filosofiche Wittgenstein recupera la pluralità dei linguaggi nei giochi linguistici a patto che vengano indicate con chiarezza le regole di base su cui usarli. Nei giochi linguistici rientrano ad esempio la descrizione di un evento o il cantare un ritornello, recitare una preghiera o risolvere un problema matematico.
Il linguaggio è un’attività della vita e in quanto tale dà significato alla vita. A contrario di Wittgenstein il filosofo tedesco Martin Heidegger analizza il linguaggio in una prospettiva tipicamente parmenidea. L’uomo non può intervenire nel linguaggio, al contrario egli lo subisce. L’uomo è parlato dal verbo dell’Essere. E per l’uomo la parola dell’Essere paradossalmente coincide col proprio silenzio. L’Essere non può essere spiegato, può essere accolto. Il silenzio è ciò che avvicina Heidegger a Wittgenstein ma è anche ciò che li allontana. Se per Wittgenstein la vita è inesprimibile e, vista come problema, trova la soluzione solo nella morte è anche vero che l’uomo deve orientare le sue capacità e le sue possibilità su ciò che con un certo grado di sicurezza può dominare e il linguaggio è in funzione a questo suo poter dire. Viceversa il silenzio heideggeriano “su ciò che non si può dire” è un invito all’ascolto dell’Essere e del suo logos attraverso un atto di sottomissione e di abbandono. Questo atteggiamento di sottomissione non è da tutti: solo il poeta può cogliere la verità dell’Essere attraverso l’abbandono alla parola dell’Essere. Il poeta è colui che medita e che media la parola, il logos, e in questo senso Heidegger parla di dichtung, del pensiero poetante. L’atteggiamento filosofico di fronte alla poesia evidentemente è diverso rispetto all’esteta o al critico letterario. Il filosofo cerca l’essenza della poesia, ma non di tutta la poesia. Solo alcuni privilegiati hanno il dono di ricevere la verità e di poterla trasmettere. E’ evidente come la figura del poeta heideggeriano ricalca quella del filosofo platonico del mito della caverna. Ad una analisi conclusiva notiamo come il modello parmenideo liberi l’uomo da ogni responsabilità verso se stesso e verso la propria storia. Se l’uomo è gettato in un destino non può far altro che accettarlo per essere autenticamente uomo. Questa autenticità coincide paradossalmente con la sua alienazione ontologica, ossia con la sua impossibilità di diventare signore di se stesso (Semerari). A contrario il modello protagoreo propone un uomo totalmente responsabile dei propri progetti, e in una riattualizzazione del modello che far risalire a Hume per poi proseguire in Kierkegaard e negli esistenzialisti, l’uomo può essere definito come l’insieme delle sue possibilità. Non più abbandonato a un cieco caso il moderno uomo protagoreo è colui che con un tocco di ironia difende la propria responsabilità e il proprio ruolo nel mondo.
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