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Per il decennale della scomparsa di Danilo Dolci
di Giuseppe Casarrubea
E’ stato definito in vari modi: albero a foglie caduche, con rami diversi; sognatore, seguace di Gandhi, rivoluzionario, sociologo, intellettuale disorganico, poeta, mistico. Tutti con una parte di verità, ma inadeguati per un uomo che ha legato il suo nome a una terra lontana che amava. Un amore non sempre ricambiato. Quando a sinistra le ‘scuole’ di partito insegnavano ad essere gramscianamente organici ai lavoratori, era disorganico e guastafeste. Trasgressivo alla maniera di Aldo Capitini, suo grande amico. Odiava la parola “massa”. Gli ricordava l’impasto, la confusione, e nelle riunioni attorno a quel tavolo di palazzo Scalia a Partinico, dove non pochi venivamo chiamati a sederci negli anni ’60, una delle tante officine del suo pensiero, insegnava che “persona” significa l’opposto di massa. Per questo fu anomalo. Tuttavia diceva che Lenin e Gesù Cristo erano i suoi maestri. Era fissato con l’etimologia e riteneva che “persona”, oltre al significato greco di “maschera”, ha anche quello latino di attraversare qualcuno in modo armonico, “per-sonare”, “suonare attraverso”. Sciascia disse che aveva scambiato la Sicilia con l’India. Il cardinale Ruffini, mantovano di cultura e di nascita (era nato nel 1888 a San Benedetto Po), raffinato intellettuale pure lui, oltre che prelato d’altri tempi, volle additarlo, come uno dei mali della terra del Gattopardo, assieme alla mafia. Si spinse a tappezzare l’isola di strani manifesti recanti i simboli del suo potere ecclesiastico e un testo pieno di vituperii e personali attacchi. La violenza degli insulti fu tale che ricordo che tutti rimanemmo esterrefatti. Almeno quelli che cominciavamo ad usare il cervello, anche se ragazzini e un po’ chierichetti. Ma Dolci non fu niente di tutto quello che, nel bene e più spesso nel male, dissero e scrissero di lui i siciliani e gli italiani del suo tempo. Non teorizzò nulla e rifiutò sempre di essere maestro di qualcuno. I conservatori lo videro come il fumo negli occhi e i progressisti lo ritennero un anarchico individualista. Fu aperto a tutte le religioni. Ebbe amici valdesi ed evangelici, buddisti e confuciani, islamici e semplicemente innamorati di un Dio inafferrabile. Fu discepolo di don Zeno e compagno di lotta di preti che apparivano non meno trasgressivi di lui. Utilizzò le idee di Don Milani per il suo progetto di Mirto, una specie di Barbiana di lusso impiantata nel cuore della Sicilia mafiosa, nel paese di Frank Coppola, capocordata del traffico di stupefacenti e partinicese diventato poi “re di Pomezia”. Una scuola che concepì alla maniera di Pestalozzi e dei principi illuministici di Rousseau. Fu antiautoritario, espressione della cultura mitteleuropea. Caposcuola dell’antimafia quando nessuno osava neanche pensare di pronunciare in pubblico la parola mafia. Soleva ripetere spesso un proverbio cinese: “Chi guarda avanti dieci anni pianta alberi, chi guarda avanti cento anni pianta uomini”. Rifiutò di fare l’architetto per essere – come diceva- “architetto di uomini”. Quando giunse in Sicilia con le tasche vuote e la testa piena di progetti, forse non pensava che vi si sarebbe fermato per quasi cinquant’anni. Certamente non si sentiva un turista alla ricerca di emozioni. Si lasciò alle spalle le città industriali del Nord per operare su un terreno aspro e pieno di rischi. Passò dai paesaggi limpidi e verdi della Slovenia dov’era nato, a Sesana (allora italiana, 1924) per una terra dove le fogne scorrevano a cielo aperto e la mafia faceva perdere l’acqua dei fiumi a mare, per lucrare sui pozzi privati. Ma il suo animo conservò sempre il carattere limpido e sereno dei paesaggi verdi della sua prima infanzia. Diceva che se ami qualcuno o qualcosa prima te li devi sognare. Odiava quelli che, quando c’è da fare una fatica, fingono di portare i pesi scaricandoli in modo subdolo sugli altri. Sesana non era Trappeto e il paesaggio di quel borgo del confine italo-jugoslavo non era quello della miseria dei pescatori abbandonati da Dio e dallo Stato. Qui, come in tutta la Sicilia, c’era da rimboccarsi le maniche e lavorare di ‘pala e pico’, senza contropartita. Le sue più grandi doti furono il coraggio, la coerenza e la difesa della dignità dell’uomo. A ogni costo. Fu un uomo con la spina dorsale sempre dritta. Suoi amici furono Giorgio Amendola e Giorgio La Pira, Carlo Levi ed Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice e Gastone Canziani, Ferruccio Parri e Piero Calamandrei, Ernesto Treccani ed Ettore De Conciliis, Bruno Zevi e Mario Luzi, Johan Galtung ed Erich Fromm o Paulo Freire, al quale ultimo fu legato da un comune modo di sentire i problemi dell’educazione e da uno stesso anno che li accomunò: il 1997, quando entrambi morirono. Alcuni di loro, come molti altri ancora viventi, potrebbero testimoniare del suo insegnamento. A Trappeto fondò un’ università popolare internazionale con ampie sale per seminari, grandissimi tavoli circolari per le discussioni, laboratori artistici. Odiava i banchi e le cattedre ed Ettore Gelpi che lo seguiva da vicino negli anni attorno al ’68 forse pensava a lui quando scrisse “Scuola senza cattedra”. Ricordo riunioni con gruppi di svedesi, norvegesi, finlandesi, americani, di diverse parti del mondo. Si recò anche in Senegal e in Ghana alla ricerca di un mondo possibile, dell’utopia concreta. In ultimo anche in Cina, con la febbre addosso e la polmonite. Fu l’intellettuale del ‘900 più processato, ma anche la persona che seppe combinare assieme mani e cervello, azione e studio. Memorabili “lo sciopero alla rovescia” e le sue battaglie per la costruzione della diga sul fiume Jato, quando la mafia gestiva l’acqua dei pozzi vendendola a caro prezzo. I mafiosi lo tennero sempre sotto mira, ma lo Stato non fece da meno: lo processò “per spiccata tendenza a delinquere”. Fu il primo in Italia a dimostrare l’esistenza del “sistema clientelare-mafioso”. La prima Commissione nazionale antimafia che lo ascoltò negli anni ’60, su sua stessa richiesta, per poco non lo mise sotto processo per le sue accuse contro mafiosi e deputati. Ma fu grazie a lui che un uomo come Giancarlo Caselli, col quale negli ultimi anni ebbe rapporti di stima e di affetto, decise – come ebbe a dichiarare in seguito lo stesso procuratore della Repubblica – di lasciare Torino e di lavorare a Palermo. Fu agitatore sociale ed educatore, sognatore e uomo d’azione. Sfidò uomini di Stato e potenti, ma fu tenero con gli ultimi. Fu soprattutto laico, costruttore di futuro. Pensava che per avere un mondo diverso bisogna prima di tutto sognarlo e guardarlo con occhi diversi. Ma era il suo modo di esistere ad essere inconsueto, nuovo. Il che dava fastidio ai benpensanti e non solo a loro. Sua caratteristica fu la rigidità nel rispetto degli orari. Scrisse che mancare a un appuntamento o ritardare era come fare un buco in una barca. Una volta rimproverò un suo amico arrivato con soli cinque minuti di ritardo. Gli disse: “La prossima volta non entri”. Per queste sue ‘manie’ poteva risultare inopportuno e fastidioso. Qualche volta veniva a svegliarmi la mattina, di buonora. Per non disturbare gli inquilini non suonava il campanello, si metteva in mezzo alla strada e mi chiamava con quel suo timbro, rimasto sempre continentale, finché non lo sentivo. Alle quattro del mattino, e in inverno. Concepiva il tempo come se fosse sempre in tempi di guerra. Aveva preso l’abitudine ad alzarsi presto dai contadini, o dai piccoli borghesi che tenevano in casa l’asino e qualche botte di vino e che dovevano essere all’ “antu” (sul posto di lavoro) prima dell’alba se volevano “guadagnarsi” la giornata. E dai grandi dirigenti contadini, come Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, tutti ammazzati dalla mafia, aveva capito molte più cose della Sicilia di quelle che forse gli stessi dirigenti sindacali del suo tempo non avevano capito. Sapeva interrogarsi e come far nascere negli altri gli interrogativi necessari perché anche in loro si mettessero in movimento certe abitudini, certi processi. Dai giornalieri, dai mezzadri, dai lavoratori agricoli aveva capito quello che c’è di più profondo nella loro cultura: il rispetto per la natura e per gli uomini: le piante, gli alberi, le specie vegetali, le storie dei singoli e delle persone. Aveva l’ottimismo della ragione e della volontà, e per quanto conoscesse molti politici o dirigenti sindacali, pur essendone spesso amico, fu convinto che solo la fede nel cambiamento può muovere la storia. Grazie a lui fu costruita la diga sullo Jato e si organizzò il primo consorzio democratico per la gestione delle acque in Sicilia: un patrimonio delle lotte sindacali del territorio partinicese oggi finito – di Dio solo lo sa – nelle mani di quali gestori di sviluppo. Nel marzo 1970 denunciò da una radio trasmittente (la prima radio libera d’Italia) le condizioni di abbandono delle popolazioni dei paesi della valle del Belice distrutti dal terremoto del gennaio ’68. Dopo due anni nessuna casa si era ancora costruita e quelle popolazioni morivano letteralmente di freddo e di fame. Così la “Radio libera dei poveri cristi” fu la radio che scopriva il diritto alla comunicazione, anche come diritto alla parola di chi non aveva voce per farsi ascoltare. Anticipò Peppino Impastato che lo seguì nella sua esperienza di “Radio Aut”, alcuni anni dopo. Negò l’esistenza della “comunicazione di massa” e ritenne i modelli “trasmissivi” di Berlusconi, sui quali aveva cominciato a riflettere negli ultimi tempi con viva preoccupazione, alla base di molti dei mali della nostra società e della politica. Il suo motto fu: “Vivi in modo che in qualunque momento muori o t’ammazzano, muori contento”. Quando andai a vederlo, già morto, nella sua piccola casa di Tappeto, in una giornata di dicembre che sembrava estiva, aveva ancora il sorriso sul volto. (Giuseppe Casarrubea)
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