Perriera "Vi racconto il
romanzo della vita"
MARCELLO BENFANTE
Le autobiografie in genere suggellano un'esperienza artistica
conchiusa. Ma
Michele Perriera, per fortuna, ha ancora molti progetti in cantiere:
la sua
love story (con il teatro, con Palermo, con la scrittura, con la
vita) è
quindi ancora un work in progress che prevede, come ogni storia
avventurosa,
un'appendice.
Romanzo d'amore è forse la più bella prova narrativa di Perriera,
e però è
tutta attraversata da sdoppiamenti teatrali. Opera monumentale ma al
tempo
stesso di estrema leggerezza, cioè pervasa da una luminosa grazia
di
scrittura. Ricerca del tempo perduto, ma anche diario attentissimo
alle
smemoratezze dell'esistere, ai lapsus, alle lacune, alle amnesie.
Autobiografia straniata e romanzo di formazione, a tratti picaresco
e
persino feuilletonistico. Compendio magistrale, ma anche rapsodia di
un
autodidatta. Documento attendibile e al tempo stesso immaginario,
fatto
com'è in gran parte dell'impalpabile materia dei sogni. Itinerario
di
un'anima in tre tappe, Comedia in tre cantiche, partitura musicale
in tre
movimenti, pièce in tre atti.
C'è circa mezzo secolo di storia palermitana (e di rimbalzo anche
italiana)
in questo suo appassionato e appassionante Romanzo d'amore: vi si
trovano
menzionati e raccontati, ovviamente, gli uomini di teatro, gli
intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, ma anche i politici,
gli amici,
le persone care e una gran folla di comparse. L'autobiografia
diventa opera
corale. Ed emerge il ritratto di una città a cui Perriera ha dato
molto, ma
da cui molto ha pure ricevuto. La smentita del "nemo propheta
in patria", o
forse una sua variante di successo?
«La mia intenzione era di scrivere un romanzo autobiografico, che
incastonasse la mia esperienza (realissima e sognante) nelle
contemporanee
vicende di Palermo, dell'Italia, del mondo. Come dire: tutto quello
che sono
stato e che sono è l'esito di un concerto in cui, assieme alla mia,
si
possono ascoltare le voci di un intero universo, del quale sono
insieme il
figlio, l'esule e l'amante. È vero dunque che io devo moltissimo
alla mia
epoca e alle sue contraddizioni. Palermo ha spesso fatto molto, è
vero,
perché valesse anche per me il famoso detto "nemo propheta in
patria". E
molto, forse immeritatamente, mi ha tolto. Ma moltissimo mi ha dato:
non
solo con l'eccezionalità e l'emblematicità della sua
"natura", ma anche con
la generosità con cui talvolta ha voluto assecondare il mio viatico
di
conoscenza e di passione. Credo di aver fatto tutto il possibile per
smentire le molte persone che ritenevano indispensabile che io
emigrassi. Ho
sempre desiderato che qui, a Palermo, mi fosse ricambiato, almeno in
parte,
l'immenso amore che mi ha sempre animato verso questa città crudele
e
meravigliosa. Del resto io non ho mai scritto e mai fatto teatro per
il
successo. Ho fatto l'una cosa e l'altra per una ambizione più
grande:
conoscere e frequentare i segreti della vita e contribuire, se
possibile, a
migliorare il mondo».
I suoi Atti del bradipo sono un elogio della lentezza. Ma la sua
vita e la
sua opera sono state addirittura un ostinato panegirico del
rimanere, del
radicamento inestirpabile. Che genere d'amore è stato quello nei
confronti
di questa Palermo capace di una "sardonica, variopinta,
diabolica letizia"?
«Questa città induce di solito al cedimento e alla rinuncia. Se
vogliamo che
sia degna della sua intelligenza e della sua complessità, dobbiamo
scommettere sulla possibilità di non esserne schiacciati. Dobbiamo
accettare
la sfida della fatica e del dolore. C'è tanta gente, in questa
città, che
compie senza fare scalpore, veri capolavori di attenzione umana, di
sollecitudine morale. In questi ultimi quindici anni, in cui le
malattie del
secolo si sono scatenate contro di me, ho incontrato medici,
infermieri,
affettuose presenze che hanno illuminato la mia vita. Attualmente
sto
lottando con un tumore. Ebbene anche in questi giorni difficili mi
ha
commosso la generosità con cui certi medici Nicola Borsellino e
Sergio
Filosto, per esempio si prendono cura umana, oltre che scientifica,
dei loro
malati. Si può. Si può rendere più leggiadra questa durissima
Palermo. Ma
bisogna cominciare a guardare coraggiosamente negli occhi i molti
ignobili
mali che la rendono spesso inesorabile».
Scorrendo l'indice dei nomi si rimane colpiti non solo dalla
presenza della
voce "Dio", ma soprattutto dal suo ricorrere ben
venticinque volte (a cui si
aggiungono tredici citazioni di Cristo). Qual è il suo rapporto con
la
religione? È tutto riconducibile alla ritualità catartica del
teatro?
«Cristo è l'uomo più straordinario che io conosca. Ho la più
grande
ammirazione e la più grande simpatia per lui. È il più grande dei
maestri.
Non bisogna mai smettere di imparare da lui, anche dalla sua
capacità di
prendere a pedate i più volgari mercanti che profanano
l'intelligenza e la
sensibilità. Dio è lo sconosciuto, l'assente, l'invisibile. È
ciò che svela
profondità del vortice in cui ti attira la più generosa passione
di vivere.
Ho dedicato tutta la mia esistenza a ciò che non conosco
abbastanza, a ciò
che mi è più oscuro, a ciò di cui "senti" il Nulla. Da
questo vuoto bisogna
ripartire per ripopolare il deserto psicologico della società
postmoderna».
Il ricordo di figure di straordinaria statura morale, civile e
intellettuale
come Giuliana Saladino o il "soave" Marcello Cimino ci
suscita qualche
perplessità di fronte a una realtà odierna in cui Palermo esprime
un'intellighenzia diffusa ma sembra priva di personalità
altrettanto
candide, rigorose e autorevoli. Ha l'impressione che oggi la città
si sia
appiattita, omologata, o è più ottimista riguardo alle sue risorse
culturali?
«Occorre dirsi con chiarezza che la cultura e la spiritualità
stanno
attraversando una crisi violentissima. La banalità ci sovrasta
ovunque e gli
intellettuali, a forza di dissacrare, hanno finito per smarrire il
senso
stesso dei Valori. A Palermo avviene ciò che sta accadendo in tutto
il
mondo: c'è uno scadimento della vibrazione intellettuale e
fantastica. Gli
Atti del bradipo a cui lei accennava raccontano questa crisi in
chiave
visionaria. La lentezza che in qualche modo vi si celebra è una
sorta di
resistenza delle qualità umane primarie, contro il travolgente
precipizio
dell'intelligenza. Una vecchia regola vuole però che, quando si
tocca il
fondo, si risale. Cominciando da una profonda autocritica e da una
nuova
attenzione verso l'altro. Non sarà facile resistere al processo di
banalizzazione e di ingiustizia che caratterizza l'epoca. Bisogna
avere il
coraggio di tentare. Accettando di scommettere, ancora una volta,
sull'animale uomo. Per quanto non si sia fatto ammirare abbastanza,
è quanto
di meglio abbiamo. Ma per far questo senza retorica, bisogna
cominciare col
permettersi la "cognizione del dolore". E quel tanto di
fantasia e di
umorismo che manca agli automi».
Dove va il teatro oggi? E Palermo, questa città a detta di molti
così
teatrale, così tragediatrice? Quali speranze ha seminato la sua
scuola?
«Anche del teatro si può dire quello che dicevo sulla cultura nel
suo
insieme: a mia memoria, non è mai stato tanto vuoto, tanto banale e
tanto
poco coraggioso. Ci sono le eccezioni. E ad esse bisogna
aggrapparsi. Penso
che Palermo, fra qualche anno, sarà una città molto viva
teatralmente. O
almeno così voglio sperare. Tanti anni fa ne parlo in Romanzo
d'amore mi
parve indispensabile fondare una scuola di teatro, per ricostruire
idealmente e professionalmente un vero desiderio di trascendere la
miseria
esistenziale e teatrale dei tempi. Una volta Guicciardini mi disse:
"I tuoi
allievi si riconoscono subito, hanno un rapporto profondo e rigoroso
con la
scena". Sapranno o potranno mantenere questa condizione dello
spirito o lo
stanco opportunismo del teatro attuale li fagociterà
inesorabilmente? Chi
semina, in teatro, raccoglie molto tardi. Ora crescono in
tutt'Italia bei
fiori di colore Teate's. Certi frutti, cioè, di un modo
particolare, molto
sacrale, di sentire il teatro».
Lei ha scritto che la sua opera può essere considerata un
"febbrile
sondaggio negli orrori che incombono sulla nostra civiltà".
Oggi sembra
tornare alla ribalta (per restare in tema teatrale) un intellettuale
impegnato che svolge un ruolo più diretto di stimolo e di critica
della
politica. Pensa che gli artisti e gli uomini di cultura siano
chiamati, oggi
più che ieri, a svolgere questo ruolo?
«Penso che gli artisti e gli uomini di cultura siano chiamati a
svolgere un
appassionato ruolo critico verso la società, verso l'intelligenza e
verso se
stessi. Ci si attende che diffondano dubbi, coscienza critica,
entusiasmo
per ciò che può mutare in meglio la nostra vita. Non si è
meritevoli perché
si protesta. Si è meritevoli perché si opera con il proprio
lavoro, con la
propria parola, col proprio esempio con generosità e con ingegno. E
perché
si sanno scoprire gli inganni e le illusioni che diffondono non solo
gli
avversari, ma le nostre pigrizie, le nostre rinunce, i nostri stessi
opportunismi. Credo che i più onesti di noi stiano lottando per non
perdere
la dignità del pensiero e la delicatezza dei sentimenti. E per
rilanciare
sempre e di nuovo il gusto della fantasia».
MARCELLO BENFANTE
Le autobiografie in genere suggellano un'esperienza artistica
conchiusa. Ma
Michele Perriera, per fortuna, ha ancora molti progetti in cantiere:
la sua
love story (con il teatro, con Palermo, con la scrittura, con la
vita) è
quindi ancora un work in progress che prevede, come ogni storia
avventurosa,
un'appendice.
Romanzo d'amore è forse la più bella prova narrativa di Perriera,
e però è
tutta attraversata da sdoppiamenti teatrali. Opera monumentale ma al
tempo
stesso di estrema leggerezza, cioè pervasa da una luminosa grazia
di
scrittura. Ricerca del tempo perduto, ma anche diario attentissimo
alle
smemoratezze dell'esistere, ai lapsus, alle lacune, alle amnesie.
Autobiografia straniata e romanzo di formazione, a tratti picaresco
e
persino feuilletonistico. Compendio magistrale, ma anche rapsodia di
un
autodidatta. Documento attendibile e al tempo stesso immaginario,
fatto
com'è in gran parte dell'impalpabile materia dei sogni. Itinerario
di
un'anima in tre tappe, Comedia in tre cantiche, partitura musicale
in tre
movimenti, pièce in tre atti.
C'è circa mezzo secolo di storia palermitana (e di rimbalzo anche
italiana)
in questo suo appassionato e appassionante Romanzo d'amore: vi si
trovano
menzionati e raccontati, ovviamente, gli uomini di teatro, gli
intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, ma anche i politici,
gli amici,
le persone care e una gran folla di comparse. L'autobiografia
diventa opera
corale. Ed emerge il ritratto di una città a cui Perriera ha dato
molto, ma
da cui molto ha pure ricevuto. La smentita del "nemo propheta
in patria", o
forse una sua variante di successo?
«La mia intenzione era di scrivere un romanzo autobiografico, che
incastonasse la mia esperienza (realissima e sognante) nelle
contemporanee
vicende di Palermo, dell'Italia, del mondo. Come dire: tutto quello
che sono
stato e che sono è l'esito di un concerto in cui, assieme alla mia,
si
possono ascoltare le voci di un intero universo, del quale sono
insieme il
figlio, l'esule e l'amante. È vero dunque che io devo moltissimo
alla mia
epoca e alle sue contraddizioni. Palermo ha spesso fatto molto, è
vero,
perché valesse anche per me il famoso detto "nemo propheta in
patria". E
molto, forse immeritatamente, mi ha tolto. Ma moltissimo mi ha dato:
non
solo con l'eccezionalità e l'emblematicità della sua
"natura", ma anche con
la generosità con cui talvolta ha voluto assecondare il mio viatico
di
conoscenza e di passione. Credo di aver fatto tutto il possibile per
smentire le molte persone che ritenevano indispensabile che io
emigrassi. Ho
sempre desiderato che qui, a Palermo, mi fosse ricambiato, almeno in
parte,
l'immenso amore che mi ha sempre animato verso questa città crudele
e
meravigliosa. Del resto io non ho mai scritto e mai fatto teatro per
il
successo. Ho fatto l'una cosa e l'altra per una ambizione più
grande:
conoscere e frequentare i segreti della vita e contribuire, se
possibile, a
migliorare il mondo».
I suoi Atti del bradipo sono un elogio della lentezza. Ma la sua
vita e la
sua opera sono state addirittura un ostinato panegirico del
rimanere, del
radicamento inestirpabile. Che genere d'amore è stato quello nei
confronti
di questa Palermo capace di una "sardonica, variopinta,
diabolica letizia"?
«Questa città induce di solito al cedimento e alla rinuncia. Se
vogliamo che
sia degna della sua intelligenza e della sua complessità, dobbiamo
scommettere sulla possibilità di non esserne schiacciati. Dobbiamo
accettare
la sfida della fatica e del dolore. C'è tanta gente, in questa
città, che
compie senza fare scalpore, veri capolavori di attenzione umana, di
sollecitudine morale. In questi ultimi quindici anni, in cui le
malattie del
secolo si sono scatenate contro di me, ho incontrato medici,
infermieri,
affettuose presenze che hanno illuminato la mia vita. Attualmente
sto
lottando con un tumore. Ebbene anche in questi giorni difficili mi
ha
commosso la generosità con cui certi medici Nicola Borsellino e
Sergio
Filosto, per esempio si prendono cura umana, oltre che scientifica,
dei loro
malati. Si può. Si può rendere più leggiadra questa durissima
Palermo. Ma
bisogna cominciare a guardare coraggiosamente negli occhi i molti
ignobili
mali che la rendono spesso inesorabile».
Scorrendo l'indice dei nomi si rimane colpiti non solo dalla
presenza della
voce "Dio", ma soprattutto dal suo ricorrere ben
venticinque volte (a cui si
aggiungono tredici citazioni di Cristo). Qual è il suo rapporto con
la
religione? È tutto riconducibile alla ritualità catartica del
teatro?
«Cristo è l'uomo più straordinario che io conosca. Ho la più
grande
ammirazione e la più grande simpatia per lui. È il più grande dei
maestri.
Non bisogna mai smettere di imparare da lui, anche dalla sua
capacità di
prendere a pedate i più volgari mercanti che profanano
l'intelligenza e la
sensibilità. Dio è lo sconosciuto, l'assente, l'invisibile. È
ciò che svela
profondità del vortice in cui ti attira la più generosa passione
di vivere.
Ho dedicato tutta la mia esistenza a ciò che non conosco
abbastanza, a ciò
che mi è più oscuro, a ciò di cui "senti" il Nulla. Da
questo vuoto bisogna
ripartire per ripopolare il deserto psicologico della società
postmoderna».
Il ricordo di figure di straordinaria statura morale, civile e
intellettuale
come Giuliana Saladino o il "soave" Marcello Cimino ci
suscita qualche
perplessità di fronte a una realtà odierna in cui Palermo esprime
un'intellighenzia diffusa ma sembra priva di personalità
altrettanto
candide, rigorose e autorevoli. Ha l'impressione che oggi la città
si sia
appiattita, omologata, o è più ottimista riguardo alle sue risorse
culturali?
«Occorre dirsi con chiarezza che la cultura e la spiritualità
stanno
attraversando una crisi violentissima. La banalità ci sovrasta
ovunque e gli
intellettuali, a forza di dissacrare, hanno finito per smarrire il
senso
stesso dei Valori. A Palermo avviene ciò che sta accadendo in tutto
il
mondo: c'è uno scadimento della vibrazione intellettuale e
fantastica. Gli
Atti del bradipo a cui lei accennava raccontano questa crisi in
chiave
visionaria. La lentezza che in qualche modo vi si celebra è una
sorta di
resistenza delle qualità umane primarie, contro il travolgente
precipizio
dell'intelligenza. Una vecchia regola vuole però che, quando si
tocca il
fondo, si risale. Cominciando da una profonda autocritica e da una
nuova
attenzione verso l'altro. Non sarà facile resistere al processo di
banalizzazione e di ingiustizia che caratterizza l'epoca. Bisogna
avere il
coraggio di tentare. Accettando di scommettere, ancora una volta,
sull'animale uomo. Per quanto non si sia fatto ammirare abbastanza,
è quanto
di meglio abbiamo. Ma per far questo senza retorica, bisogna
cominciare col
permettersi la "cognizione del dolore". E quel tanto di
fantasia e di
umorismo che manca agli automi».
Dove va il teatro oggi? E Palermo, questa città a detta di molti
così
teatrale, così tragediatrice? Quali speranze ha seminato la sua
scuola?
«Anche del teatro si può dire quello che dicevo sulla cultura nel
suo
insieme: a mia memoria, non è mai stato tanto vuoto, tanto banale e
tanto
poco coraggioso. Ci sono le eccezioni. E ad esse bisogna
aggrapparsi. Penso
che Palermo, fra qualche anno, sarà una città molto viva
teatralmente. O
almeno così voglio sperare. Tanti anni fa ne parlo in Romanzo
d'amore mi
parve indispensabile fondare una scuola di teatro, per ricostruire
idealmente e professionalmente un vero desiderio di trascendere la
miseria
esistenziale e teatrale dei tempi. Una volta Guicciardini mi disse:
"I tuoi
allievi si riconoscono subito, hanno un rapporto profondo e rigoroso
con la
scena". Sapranno o potranno mantenere questa condizione dello
spirito o lo
stanco opportunismo del teatro attuale li fagociterà
inesorabilmente? Chi
semina, in teatro, raccoglie molto tardi. Ora crescono in
tutt'Italia bei
fiori di colore Teate's. Certi frutti, cioè, di un modo
particolare, molto
sacrale, di sentire il teatro».
Lei ha scritto che la sua opera può essere considerata un
"febbrile
sondaggio negli orrori che incombono sulla nostra civiltà".
Oggi sembra
tornare alla ribalta (per restare in tema teatrale) un intellettuale
impegnato che svolge un ruolo più diretto di stimolo e di critica
della
politica. Pensa che gli artisti e gli uomini di cultura siano
chiamati, oggi
più che ieri, a svolgere questo ruolo?
«Penso che gli artisti e gli uomini di cultura siano chiamati a
svolgere un
appassionato ruolo critico verso la società, verso l'intelligenza e
verso se
stessi. Ci si attende che diffondano dubbi, coscienza critica,
entusiasmo
per ciò che può mutare in meglio la nostra vita. Non si è
meritevoli perché
si protesta. Si è meritevoli perché si opera con il proprio
lavoro, con la
propria parola, col proprio esempio con generosità e con ingegno. E
perché
si sanno scoprire gli inganni e le illusioni che diffondono non solo
gli
avversari, ma le nostre pigrizie, le nostre rinunce, i nostri stessi
opportunismi. Credo che i più onesti di noi stiano lottando per non
perdere
la dignità del pensiero e la delicatezza dei sentimenti. E per
rilanciare
sempre e di nuovo il gusto della fantasia».
da Repubblica.it