dialogo interculturale:
il ponte
…" Imparare a conoscere la
lingua, la storia, la cultura, le abitudini, i pregiudizi e stereotipi,
le paure delle diverse
comunità’ conviventi e’ un passo essenziale nel rapporto interetnico..."
alex langer
IL
PONTE indica la relazione quale struttura esistenziale
fondamentale
IL
PONTE si attraversa nei due sensi : è
simbolo di reciprocità.
IL
PONTE è necessario per superare i solchi,
le fratture che separano i popoli e i luoghi prossimi
IL
PONTE indica il superamento degli ostacoli
naturali , il suo attraversamento apre alla novità dell’altro.
IL
PONTE mette in comunicazione due realtà ,
agevola il superamento della diffidenza o delle lacerazioni
pregiudiziali ,
assegna
alle realtà messe in dialogo pari dignità.
nadia
scardeoni
Materiali da
http://helios.unive.it/
Introduzione alla
comunicazione interculturale
1.1 Comunicare: “scambiare messaggi vincenti”
Esistono molte definizioni di
“comunicazione” a seconda del punto da cui si osserva il fenomeno:
quelle del linguista e del semiologo non sono certo le stesse del
sociologo, dello studioso di comunicazione aziendale o del massmediologo.
Per i nostri fini abbiamo optato per una definizione estremamente
semplice e l’abbiamo posta nel titoletto del paragrafo. Le quattro
parole scelte per il titolo sono fondamentali, come in ogni definizione,
e quindi mette conto discuterle in dettaglio.
Comunicare
Questo verbo descrive l’atto volontario, programmato,
consapevole di scambiare messaggi per perseguire il proprio fine.
La comunicazione non va confusa con l’informazione, che di
solito è involontaria ed è costituita da “sintomi” e “segnali” (un tuono
è un sintomo che ci informa dell’arrivo di un temporale; l’arrossire o
il sudore sono segnali che informano il nostro interlocutore del nostro
stato d’animo). Sintomi e segnali non sono volontari e intenzionali,
mentre lo sono i segni di cui si sostanzia la comunicazione, tant’è vero
che per i propri fini (cioè per scambiare messaggi vincenti) una persona
può anche mentire, cioè inviare segni falsi, mentre non si può
falsificare l’informazione.
Scambiare
Comunicare non significa “inviare dei segni
monodirezionali”, compiere degli atti comunicativi in solitudine:
secondo la saggezza popolare, infatti, parlare da soli è un segno di
follia.
La maggior parte della comunicazione è dialogica, ma anche
quando è monologica, come in una conferenza, il conferenziere che sa
comunicare tiene molto in considerazione il feedback dato dal sorriso
degli ascoltatori, dalla loro postura, dal fatto che continuino o
smettano di prendere appunti, e così via. Ed il saggista che sa scrivere
si pone il problema della chiarezza concettuale ed espositiva che
facilita il compito del lettore, della necessità di definire i termini
che forse il lettore non conosce, e così via: il lettore, per quanto
implicito, è ben presente nella mente di chi sa comunicare per iscritto.
Messaggi
Non ci si scambia solo parole: ciò che viene scambiato
tra i partecipanti ad un evento comunicativo è un messaggio, cioè una
struttura complessa composta di lingua verbale e di linguaggi non
verbali: gesti, grafici, icone, oggetti, indicatori di ruoli sociali,
layout grafico, ecc.
Il messaggio orale viene creato in maniera cooperativa per
cui i vari interlocutori collaborano alla sua creazione, negoziano
significati e linguaggi per giungere ad un messaggio conclusivo
accettato da tutti (anche nel caso di una lite ci sono elementi
accettati da tutti i litiganti: il fatto di essere in disaccordo, la
possibilità di andare sopra le righe, l’estremizzazione delle posizioni,
il rischio di una conclusione traumatica dell’evento comunicativo,
ecc.), mentre nel messaggio scritto ¾ tranne in scritture interattive
come, ad esempio, quella consentita dalle chat lines di Internet o dalla
posta elettronica ¾ questa negoziazione non è possibile.
Vincenti
Si comunica per raggiungere effetti pragmatici ben
precisi; nella comunicazione aziendale, “vincere” significa far
prevalere il proprio punto di vista sull’organizzazione dell’azienda,
sulle priorità strategiche, sui metodi di progettazione e produzione,
sulle prospettive di commercializzazione, sui prezzi da spuntare, e così
via. In quella accademica si comunica per veder accettato ed apprezzato
il proprio impianto concettuale e metodologico di ricerca e per
ottenere, dove possibile, un sostegno economico oltre che scientifico.
Nelle istituzioni internazionali si comunica per far prevalere la
visione “politica” in senso lato del proprio paese, della NATO, dell’ONU
o di qualunque altro ente di cui si sia espressione.
Nella comunicazione (apparentemente) monodirezionale il
conferenziere o lo scrittore lottano per vincere la noia o le
distrazioni degli ascoltatori e dei lettori; vinta questa prima
battaglia, la loro vittoria definitiva si realizza quando l’ascoltatore
o il lettore accettano, data la forza del messaggio, di modificare le
proprie idee, di ridisegnare l’architettura della propria conoscenza
[1].
Comunicazione vs Espressione
Abbiamo già visto sopra la contrapposizione tra
comunicazione intenzionale e informazione non intenzionale; è necessario
sgombrare il campo anche da un’altra contrapposizione che può risultare
ambigua: quella tra comunicazione ed espressione.
Si tratta di una dicotomia fortemente difesa dagli idealisti,
almeno fino a Croce, e abbandonata dagli anni Cinquanta in poi ritenendo
che anche l’uso espressivo della lingua sia in realtà una forma di
comunicazione.
Oggi si tende a riproporre la dicotomia: la differenza tra le
due nozioni sta nel fatto che nella “comunicazione” l’atto di discorso,
cioè la decisione di creare un messaggio, prevede un destinatario
intenzionalmente individuato ed avviene per uno scopo sociale, mentre
nella “espressione” non si parla o scrive a qualcuno per produrre un
risultato pragmatico, ma il tutto si esaurisce nell’atto stesso di
produrre il testo (o il quadro, la canzone, ecc.,): una lettera sulla
propria depressione è “comunicazione”, una poesia sulla stessa
depressione è “espressione”.
1.2 Situazione comunicativa, evento comunicativo
La comunicazione non si realizza se
non in “eventi” che hanno luogo in un “contesto situazionale”. Si
tratta di concetti da chiarire, perché proprio in alcuni dei loro
fattori si hanno delle variabili che risultano fonti di incidenti nella
comunicazione interculturale.
Secondo le prime definizioni, da Malinowsky a Fishman, la
“situazione comunicativa” veniva definita da quattro variabili:
a. luogo: Fishman parlava genericamente di
“luogo”, ma l’etnometodologia della comunicazione ha scisso il “luogo”
in due, il setting fisico e la scena culturale (Hymes 1972); la
caratteristica qualificante della comunicazione interculturale è quella
di avvenire tra persone che vengono da scene diverse e che,
indipendentemente dal setting fisico in cui si trovano, conservano le
regole e i valori del luogo culturale da cui provengono;
b. tempo: il tempo pare una costante, ma in realtà è una
variabile culturale e crea significativi problemi di comunicazione
interculturale, tant’è che dedicheremo a questo tema il paragrafo 2.1;
c. argomento: si tratta di un fattore di rischio perché gli
interlocutori, convinti l’argomento di cui stanno parlando sia
condiviso, possono dimenticare che i valori che sottostanno a tale
argomento di cui parlano non sono sempre condivisi nelle varie culture (cfr.
6.1);
d. ruolo dei partecipanti: è un altro elemento di grave
difficoltà: in ogni cultura lo status sociale viene attribuito e
mantenuto secondo valori e regole proprie, spesso fortemente distanti,
se non contrastanti, tra culture e culture. Nel prossimo capitolo tre
paragrafi (2.2, 2.3 e 2.4) sono dedicati a questo aspetto.
Dagli anni Settanta in poi la ricerca
sociolinguistica, quella pragmatica e quella di etnometodologia della
comunicazione hanno aggiunto altri fattori da tenere in considerazione
nel momento in cui si vuole analizzare un “evento comunicativo”.
Oltre agli elementi della situazione (elencati ai punti a, b,
c, d), un evento include:
e. un testo linguistico e...
f. ...dei messaggi extralinguistici: nella comunicazione
interculturale, che è di solito condotta in inglese (o, meglio, nel bad
English internazionale), le norme linguistiche sono abbastanza
condivise e proprio sulla lingua si focalizzano l’attenzione e lo sforzo
di chi parla: cercare il lessico appropriato, evitare errori grossolani,
ecc.; invece le norme dei linguaggi non verbali non vengono prese in
considerazione, quasi che i gesti, la mimica facciale, le distanze
interpersonali, ecc., fossero dei concetti universali. Proprio a queste
norme è legato uno dei principali problemi della comunicazione
interculturale e quindi verranno dedicati loro due capitoli;
g. degli scopi dichiarati e non che i partecipanti
perseguono: i messaggi sono vincenti nella misura in cui questi scopi
pragmatici sono raggiunti; le varie culture regolano in maniera diversa
il modo in cui si possono rendere espliciti certi scopi - e si tratta di
regole che coinvolgono valori fortemente marcati (cfr. capitolo 2) come
la gerarchia, lo status, il rapporto uomo-donna: il modo di velare o
enfatizzare gli scopi cambia da cultura a cultura – e anche all’interno
della stessa cultura, della stessa famiglia, si è notato ad esempio come
spesso uomo e donna si dicano You Just Don’t Understand Me (è il
titolo di Tannen 1990) a causa del modo femminile di velare i propri
scopi e i desideri, contrapposto al modo proprio dell’uomo che li mette
in luce;
h. degli atteggiamenti psicologici (o “chiavi”, come le
chiama Hymes 1972) che i partecipanti hanno nei confronti degli
interlocutori, della sua cultura, della sua azienda, istituzione o
università: sarcasmo, ironia, rispetto, ammirazione, diffidenza, ecc.,
emergono nel testo linguistico e soprattutto nei linguaggi non verbali,
per cui informano l’interlocutore su atteggiamenti che certo non
si vorrebbero comunicare (cfr. 1.1).
Spesso su questo piano possono sorgere fraintendimenti: la sensazione di
imbarazzo e di difficoltà di un asiatico si esprime, come indicatore di
“chiave”, con un sorriso, che l’occidentale prende come indicatore di
una chiave diversa, positiva, disponibile e rilassata;
i. la grammatica contestuale (basilare per l’analisi del
discorso interculturale secondo Scollon-Scollon, 1995) include, oltre a
molti dei parametri di Fishman e Hymes, anche il concetto di sequenza
prevista per un dato evento, che in alcune culture può essere
ritualizzata o abbastanza rigida e prevedibile, mentre in altre porta ad
avere una maggiore flessibilità: ne consegue che chi viene da una
cultura del primo tipo ha la sensazione di trovarsi nelle sabbie mobili,
nell’incapacità di gestire l’evento comunicativo.
Alcuni eventi possono essere
brevissimi (il grido "aiuto" di chi sta annegando, seguito dal tuffo del
bagnino), altri possono richiedere anche mesi, come alcune operazioni
commerciali (dalla visita alla fiera alla ricevuta di pagamento,
passando attraverso preventivi, ordinativi, fatture pro-forma e reali,
lettere di addebito e accredito, eventuali reclami, giustificazioni,
ecc.): maggiore è la durata dell’evento, più probabile è lo scontro
deliberato o l’errore involontario sul piano culturale.
Ci sono poi degli eventi particolarmente ritualizzati (una
cena formale, una conferenza, una riunione di un consiglio
d’amministrazione, una presentazione, ecc.) che ogni cultura gestisce
secondo regole proprie, la cui mancata conoscenza porta a situazioni
spiacevoli in cui la comunicazione viene fortemente appesantita e, in
alcuni casi, diviene impossibile. Dedicheremo il capitolo 6 ad alcuni di
tali eventi.
1.3 Posizioni “up” e “down” e rischio di
“escalation”
Con una metafora, la comunicazione
può essere definita come una partita a scacchi. E’ una situazione in cui
ogni giocatore si propone di vincere. Per tal fine egli dispone di una
serie di strumenti (la lingua e i linguaggi non verbali) e può
eseguire delle mosse.
Come in una partita, ogni giocatore cerca di trovarsi in una
posizione che le teorie sistemiche della comunicazione (Bateson 1972)
definiscono Posizione up e cerca di tenere l’avversario-interlocutore-collaboratore
in Posizione down: tenta cioè di non lasciargli l’iniziativa sul
modo in cui gestire l’evento comunicativo, la partita, cerca di impedire
che sia l’altro ad avere la scelta delle strategie, degli argomenti, e
così via (un’applicazione della teoria sistemica della comunicazione
alla vita aziendale è in Schmidt 1990). Se gli interlocutori sanno
comunicare, cioè condividono e rispettano le regole del gioco, la
partita giunge a conclusione normalmente; se invece le regole sono mal
conosciute o applicate si può arrivare ad un’escalation in cui
entrambi vogliono essere up: la comunicazione abortisce o si
giunge alla lite incontrollata
Questa normale dialettica tra posizioni up e down
può essere fortemente turbata dalle differenze culturali. Una mossa
permessa in una cultura (interrompere, ad esempio) può essere vietata in
altre; l’uso di strumenti quali il tono di voce o il modo di gesticolare
che sono normali in una data cultura può essere vissuto come aggressivo
o invadente in altre culture, producendo così messaggi non condivisi:
l’italiano che interrompe, alza la voce e gesticola può irritare un
interlocutore scandinavo che interpreta queste forme come attacchi e
reagisce di conseguenza. Ma l’italiano non voleva attaccare e quindi si
sorprende della reazione dello svedese, si sente aggredito e a sua
volta, reagisce alzando il tono di voce, e così si innesca una reazione
a catena che rallenta o blocca lo scambio comunicativo per un po’ - o
addirittura lo porta ad esito infelice, per cui nessuno dei due può
raggiungere gli scopi per cui si erano riuniti.
Questo studio vuole essere un contributo ad evitare che si verifichino
fenomeni di escalation non voluta.
1.4 I pezzi sulla scacchiera della comunicazione
Proseguendo la metafora della
comunicazione come una partita a scacchi in cui tutti i partecipanti
vogliono vincere, dovremo prendere in considerazione i “pezzi”, gli
strumenti con cui viene giocata la partita.
Gli esseri umani hanno come strumenti comunicativi il corpo,
oggetti sul corpo ed intorno ad esso, la lingua.
Spesso si è portati a credere che la comunicazione
linguistica sia tutta la comunicazione. Soprattutto chi usa una
lingua straniera, e quindi ha problemi superiori a chi usa la lingua
materna, focalizza buona parte della sua attenzione sulla lingua e perde
di vista i linguaggi non verbali: tuttavia
· tra il 75 e l’80% delle informazioni che raggiungono
la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi (Birkenbihl
1991)
· solo il 10-15% giunge dall’orecchio.
Siamo dunque molto più “visti” che
“ascoltati”, e molto spesso è proprio sulla base di quel che si vede
(aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o
non.
Inoltre il funzionamento del nostro cervello nel momento in
cui comprende un messaggio prevede che i due emisferi cerebrali
procedano con un ordine ben preciso, indipendentemente dalla qualità
dello stimolo verbale o visivo o audiovisivo che ricevono:
· prima si attiva l’emisfero destro del cervello
(quello analogico, globale, visivo, emotivo)
· poi i dati così pre-elaborati vengono passati all’emisfero
sinistro (logico, razionale, linguistico, analitico).
Dunque siamo prima “visti” e poi
“ascoltati”.
La priorità temporale e la prevalenza quantitativa dei
linguaggi visivi non intaccano certo il primato del linguaggio verbale
come strumento di comunicazione - ma si deve prestare attenzione a non
sottovalutare gli aspetti non verbali, che risultano particolarmente
connotati nelle diverse culture, per cui un gesto o un oggetto o un
vestito eleganti a Firenze sono insignificanti o ineleganti a Mosca: i
primi missionari in Congo pretendevano che le donne si coprissero il
seno, cosa che in quella cultura solo le prostitute facevano...
Dedicheremo l’intero capitolo 3 alla comunicazione effettuata
con il corpo, con i suoi movimenti, con i suoi odori e rumori, con la
distanza tra i corpi, con gli oggetti sopra e intorno ai corpi; il
capitolo 4 invece verterà sui principali problemi interculturali legati
alla lingua.
1.5 Le mosse nella scacchiera comunicativa
Quando si comunica si persegue un
macro-scopo (raggiungere un accordo all’interno di un gruppo di
progetto, condurre a buon fine una trattativa, convincere un’università
straniera a cooperare in un progetto Socrates, ecc.) per mezzo di una
serie di atti comunicativi che perseguono dei micro-scopi: nella
metafora della comunicazione come partita a scacchi questi atti
corrispondono a delle “mosse” comunicative: attaccare, rinunciare,
rimandare, interrompere, ironizzare, e così via (Schmidt 1990).
Siccome gli eventi comunicativi tipici del mondo aziendale,
produttivo, commerciale, legale sono competitivi e quindi fortemente
caratterizzati da mosse che ciascuno compie per passare in posizione
up o per far scendere down l’interlocutore, l’analisi di tali
mosse comunicative è fondamentale in un discorso sulla comunicazione
interculturale – e lo è ancor di più se si considera che chi parla
ricorre spesso a tutte le mosse disponibili nella sua cultura senza
tener conto del fatto che alcune di queste possono essere vietate o non
significative in altre culture.
Dedicheremo quindi il capitolo 5 ad un’elencazione delle
principali mosse comunicative, che sono una ventina, viste in
prospettiva interculturale.
1.6 Un modello di competenza comunicativa
Sulla base di quanto detto sopra,
possiamo procedere a delineare un modello di “competenza comunicativa”,
cioè di ciò che una persona deve possedere e padroneggiare per poter
comunicare. Abbiamo trattato altrove con ampiezza questo tema (Balboni
1998, Balboni-Luise 1994), quindi ci basterà qui accennarne nelle linee
essenziali.
La competenza comunicativa può essere visualizzata come una piramide a
tre lati [2],
ciascuno dei quali indica un “sapere” o “saper fare”:
a. saper fare lingua
Si tratta di saper comprendere, leggere, scrivere, fare un monologo (ad
esempio tenere una conferenza, fare la presentazione di un progetto,
ecc.), partecipare a un dialogo, oltre ad altre “abilità linguistiche”
che non rientrano nel fuoco di questo studio interculturale: queste
componenti della competenza comunicativa sono dei processi
universali, anche se i prodotti, cioè i testi che vengono
compresi o scritti, i dialoghi in quella data situazione, ecc., variano
da cultura a cultura per effetto delle regole comprese nelle altre due
facce della piramide.
Offriremo un approfondimento specifico su due abilità (monologare e
dialogare; cfr. cap. 6), mentre il discorso sulle altre abilità è
diffuso in tutto il volume;
b. saper fare con la lingua
Questa faccia della piramide include la dimensione
- sociale: chi sa comunicare deve sapere come individuare e
rispettare i rapporti di ruolo (o come attaccarli, se è il caso), sa
attribuire correttamente lo status sociale e gerarchico ai vari
partecipanti all’evento comunicativo, è appropriato nell’uso di
appellativi (titoli, Mr/Ms, ecc.), e così via: questa grammatica
sociolinguistica cambia fortemente non solo tra culture, ma anche
all’interno di culture che gli estranei considerano omogenee (si pensi
all’espressione della formalità e del rispetto in Lombardia, Veneto o
Sicilia...)
- pragmatica: comunicare efficacemente significa raggiungere i
propri scopi, vincere la partita; tale obiettivo è perseguito attraverso
una serie di atti, cioè di “mosse” intenzionali, mirate ad un effetto
preciso; anche la grammatica pragmalinguistica è fortemente connotata
culturalmente: come si è detto, atti accettabili in una cultura non lo
sono in altre
- culturale: la grammatica antropolinguistica e quella, più in
generale, antropologica di una comunità costituisce il tessuto comune su
cui si intrecciano tutti gli eventi in una data cultura; variando le
culture, variano queste grammatiche e nascono i problemi di cui ci
occupiamo i questo studio.
A questa seconda faccia della piramide è stata dedicata molta parte di
questo volume (oltre che, specificamente, il capitolo 5), perché
ovviamente è qui che si trovano i maggiori problemi di comunicazione
interculturale;
c. sapere i linguaggi verbali e non-verbali
Questa “faccia” include le grammatiche tradizionalmente indicate con
tale nome (per due secoli si è ritenuto che sapere una lingua
significasse conoscerne pronuncia, lessico e morfosintassi) e quelle,
generalmente trascurate, dei linguaggi non-verbali. Avremo quindi una:
c.1. competenza linguistica di cui fanno parte le componenti
·
lessicale, ad esempio la scelta delle parole, il modo di modificarle e
di crearne di nuove, ecc.
· morfosintattica, cioè meccanismi quali il singolare e il
plurale, il modo di chiedere, di negare, di vietare, di esprimere
comparazioni, di parlare del passato e del futuro, ecc.
· testuale, cioè la serie di meccanismi che garantiscono coerenza
logica e coesione formale a un testo, nonché le regole dei vari generi
(dialogo, conferenza, barzelletta, lettera, ecc.); si tratta di una
grammatica molto complessa e delicata: un testo costruito in linea
retta, straight to the point, è corretto per un americano ma rude
per un cinese, che preferisce un procedimento a spirale, come vedremo
· fonologica, che riguarda la pronuncia: non si hanno problemi di
comunicazione interculturale in questo settore
· paralinguistica, cioè quella componente “esterna” della
competenza fonologica che riguarda il tono di voce, la sottolineatura
delle parole, la velocità con cui si parla, e così via: qui i problemi
sono invece rilevanti.
A questa componente della competenza comunicativa è
dedicato il capitolo 4;
c.2. competenza extralinguistica: essa comprende
le competenze
·
cinesica, cioè l’uso comunicativo del corpo, delle sue posture e dei
suoi movimenti
· prossemica, che riguarda l’uso comunicativo delle distanze
interpersonali
· vestemica e oggettemica, che consentono di utilizzare per la
comunicazione l’abbigliamento e altri oggetti di vario tipo e natura.
Dedichiamo il capitolo 3 a questa componente della
competenza comunicativa - che rappresenta il settore dove avvengono i
maggiori errori interculturali, perché in genere si è poco consapevoli
del ruolo dei linguaggi non verbali e quindi li si monitorizza poco
durante la comunicazione.
Questo modello di competenza
comunicativa (cfr. Balboni-Luise 1994 e Balboni 1998 per un
approfondimento) descrive la competenza nella lingua/cultura
materna, ma per definizione (trattandosi di un modello universale) deve
essere applicabile anche alla descrizione della competenza nella
lingua/cultura straniera e nella comunicazione interculturale.
1.7 I parametri per valutare i problemi comunicativi
interculturali
Esistono molti parametri elaborati
dalle scienze della comunicazione e da quelle del linguaggio per
valutare di volta in volta la qualità di una mossa o di uno strumento di
comunicazione.
Tra questi i più produttivi nella nostra prospettiva sono i seguenti,
cui faremo costantemente riferimento nella trattazione dei vari aspetti
della comunicazione interculturale:
a) formale vs. informale
Si tratta di un’opposizione essenziale, se non altro perché nella
comunicazione “l’abito fa il monaco”: come abbiamo detto siamo prima
visti e poi ascoltati e un errore sul piano della formalità richiesta in
una data situazione può compromettere lo scambio.
Ogni cultura ha il suo modo particolare di identificare formalità ed
informalità, non solo nel linguaggio, ma anche nel modo di comportarsi,
di scegliere un regalo, di abbigliarsi;
b) polite vs. unpolite
Usiamo i termini inglesi perché essi includono non solo il “ben
educato” italiano, ma anche un concetto di adeguatezza alla situazione,
nonché un fattore di gentilezza e di rispetto sociale che va oltre
quella che in italiano noi definiamo “buona educazione”: ad esempio, la
sequenza “io e te”, comune in Italia, viene vissuta come unpolite
in Germania, Inghilterra, America, dove du und ich oppure you and I
sono invece richiesti; negli studi di pragmatica comunicativa esiste una
versione più forte del concetto di politeness: essa esprime
l’accettazione di un rapporto gerarchico (Scollon-Scollon 1995: cap. 3),
ma in questo studio useremo il termine nella sua accezione più diffusa,
visto che il nostro oggetto è la comunicazione e non l’antropologia
delle organizzazioni gerarchiche. (Sulla politeness cfr. Goody
1987; Clyne 1994:13ss);
c) forza mascherata vs. esplicita
In una “lotta” quale è la comunicazione la forza non va sempre
evidenziata, perché l’interlocutore potrebbe offendersi e interrompere
lo scambio: si pensi ad un gruppo di progetto che si scioglie perché una
personalità troppo dominante prevarica gli altri, si pensi ad una
trattativa che si arena di fronte ad una mossa comunicativa ritenuta
offensiva; spesso in una situazione formale la forza delle frasi e degli
atti comunicativi non può essere esplicita, per cui gli imperativi, il
verbo “dovere”, i gesti imperiosi della mano sono esclusi (cfr.
l’analisi dei directives in Clyne 1994: 63ss).
In questo campo la complessità interculturale è notevole: in
inglese un divieto viene raramente espresso con un esplicito “no, you
may not go” e la sua forza viene piuttosto mascherata con un
delicato “I’m afraid you can’t possibly go there, I’m sorry”; di
converso, ci sono culture, come ad esempio quella ebraica, che
privilegiano l’espressione diretta del proprio pensiero, in maniere che
appaiono brusche a tutti gli occidentali e che quindi sono destinate a
creare problemi nel momento in cui vengono tradotte linguisticamente, ma
non culturalmente, in inglese: quale problema un israeliano possa avere
con un greco, che maschera la forza ancor più che un americano, è facile
da immaginare; il problema si presenta quotidianamente anche all’interno
della cultura americana: i bianchi mascherano la forza dei loro atti
linguistici, mentre i neri, come gli ebrei, ritengono giusto esprimere
con forza le proprie opinioni, richieste, intenzioni (Wierzbicka
1991: 88ss; 121ss).
Direttività/implicitezza è una dicotomia fondamentale sia
nelle negazioni, come abbiamo visto sopra, sia nell’uso degli
imperativi: un inglese li usa per le istruzioni semplici, ma il più
delle volte, se deve davvero regolare il comportamento altrui, usa i
cosiddetti whimperatives, creati di solito ricorrendo a could,
should oppure would: tutto sono, tranne che richieste,
suggerimenti, consigli.
A complicare il problema, si ricordi poi che l’opposizione
esplicito/implicito per la forza pragmatica di un atto comunicativo è
regolata anche da un altro fattore, quello del genere del parlante: non
solo il maschio è in genere più esplicito della donna (Tannen 1990), ma
molte culture non consentono alla donna di essere esplicita nelle sue
richieste o nei suoi ordini.
Questa osservazione riprende l’idea di Grice che esista nella
comunicazione un “principio cooperativo” che permette ai parlanti di
lasciare molto di implicito nei propri atti comunicativi, nella certezza
che l’interlocutore li disambiguerà per conto suo – ma allo stesso tempo
le osservazioni fatte sopra permettono di notare che il principio
funziona all’interno di una data lingua-cultura, ma non è un universale
della comunicazione, tant’è vero che molte incomprensioni interculturali
nascono proprio dalla mancanza di un principio condiviso di
cooperazione;
d) politicamente corretto vs. scorretto
Ancorché tradotta in italiano, l’espressione politically correct
è culturalmente di matrice nordamericana; si tratta di un parametro di
giudizio che sta lentamente penetrando in Europa: non tanto in Gran
Bretagna, dove la consonanza con gli Stati Uniti è spesso più
linguistica che culturale, quanto nel BeNeLux e nell’area scandinava.
In base a questo parametro puramente culturale, quindi
estremamente rilevante nella nostra prospettiva, la scelta lessicale ha
valore “politico”: rientrano in questa sfera il rispetto etnico (ad
esempio “persona di colore”, che abbiamo preso in prestito
dall’americano per indicare un non-bianco; in italiano è invece
politicamente marcata la scelta tra “negro” e “nero”), il concetto di
parità tra uomo e donna, che è facilmente realizzabile nella lingua
inglese, dove il femminile è poco marcato per cui si riduce alle coppie
he/she, his/her, man/woman, ma che diviene spesso ridicolo in
italiano, dove il genere maschile o femminile distingue tutti i nomi,
gli articoli, gli aggettivi e spesso i pronomi...
In America la political correctness porta a situazioni
impensabili per gli europei: ad esempio il concetto di parità tra i
sessi può far sì che un uomo, aprendo la porta e cedendo il passo ad una
signora, si senta apostrofare come sessista;
e) uso libero vs. taboo
Solo la consuetudine e l’attenzione precisa consentono a persone che
frequentano ambiti internazionali di cogliere il continuo variare degli
argomenti di uso libero e di quelli tabooizzati. Spesso, ad esempio, gli
stessi italiani non si rendono conto di quanto sia taboo nella nostra
cultura l’accenno alle cure psicologiche: il consiglio di andare da uno
psicologo o da uno psicoanalista viene sentito come offesa, significa
“sei matto!”; l’italiano del nord cui uno straniero chiede qualcosa
sulla mafia esorcizza anzitutto il problema (“Primo, la mafia è in
Sicilia; secondo: Riina è in galera, ce la faremo”) e poi cambia
discorso. Allo stesso modo, un inglese rimesta in ogni turbidume della
Royal family ma reagisce se lo fa un non-inglese (soprattutto se
lo fa un Americano, cui si ribatte elencando le segretarie e le stagiste
del Presidente Clinton).
Ogni cultura ha dei taboo noti e ne ha altri che mutano rapidamente: ad
esempio il cenno al passato comunista dell’Europa orientale oppure al
fascismo pinochettiano in Cile è delicatissimo perché molte delle
persone che oggi hanno contatti con stranieri da posizioni manageriali
ed accademiche elevate hanno una storia personale in quei regimi e
quindi la semplice battuta di un italiano, a tavola, per riempire un
silenzio, può essere vissuta molto male dall’interlocutore e innescare
meccanismi di escalation.
Altre volte ci sono taboo incomprensibili per alcuni: da quello delle
carezze in testa a un bambino nelle Filippine, che fanno passare
l’italiano affettuoso per un pedofilo incallito, a quello che riguarda
la riservatezza degli europei sulla propria famiglia, atteggiamento che
non è compreso dai giapponesi: informarsi sulla famiglia
dell’interlocutore, sui figli, sull’eventuale divorzio sia suo sia dei
genitori, ecc., è normale in una cultura come quella nipponica in cui la
famiglia di provenienza rappresenta la credenziale base di una
personalità.
Tre taboo da ritenere universali (anche se vi sono eccezioni) sono
eros e thanatos, cioè i discorsi riguardanti il sesso e la morte, e
quelli sulle secrezioni del corpo (sudore, muco, cerume, sperma, urina,
feci, vomito). Anche i discorsi sulla digestione e sui sentimenti
personali vanno considerati taboo nelle culture di origine inglese;
f) cooperativo vs. arroccato
L’atteggiamento delle persone che sono impegnate in uno scambio
comunicativo può essere di due tipi: arroccato (“In questo momento ho la
parola io, quindi questo è il mio ‘territorio’ e nessuno intervenga
mentre esprimo il mio pensiero”) oppure cooperativo (“Sebbene io abbia
la parola, vi permetto di intervenire per integrare, correggere,
sostenere quanto dico”). Tendenzialmente gli italiani appartengono a
questo secondo gruppo, ma la loro disponibilità a collaborare si scontra
con l’irritazione fortissima dei nordici se vengono interrotti: essi
possono sentirsi talmente offesi da rinunciare a proseguire nel loro
discorso.
Anche un’intera cultura, non solo una persona, può essere valutata
secondo questa dicotomia. Ad esempio, le culture asiatiche, soprattutto
quella giapponese, sono globalmente arroccate di fronte a uno straniero:
“uno dei maggiori problemi [...] è che una volta commesso un grave
‘errore culturale’ risulta spesso impossibile porvi rimedio e possono
passare parecchi mesi prima che ci si renda conto che rifiuti gentili
significano in realtà isolamento e messa al bando” (Gannon 1994; trad.
it. 1997: 30).
Indietro
1 L’idea di evento
comunicativo come “battaglia” è insita nella nostra cultura: se, sulla
base delle teorie della conceptual metaphor theory (Lakoff-Johnson
1980), osserviamo le metafore militaristiche relative alla comunicazione
entrate nell’uso collettivo troviamo, ad esempio, che le affermazioni
sono “indifendibili”, che si devono “attaccare” i punti deboli
dell’argomentazione altrui, che le critiche “colpiscono il segno”, (in
inglese e francese si usano target e cible, ancor più
marcati), che si “demoliscono” e “distruggono” argomentazioni, che si
“vincono” discussioni solo se si ha una “strategia” precisa, che si
procede per “botta” e risposta, che si “sparano” dati e cifre, che su un
dato argomento non si “cede di un millimetro”, e così via (per alcuni
degli esempi chi scrive è debitore a Danesi-Mollica 1998: 5).
2 Byram-Zarate 1994 utilizzano, per definire la competenza
comunicativa interculturale, un modello diverso da quello della
competenza comunicativa intraculturale:
a.
saper essere, abbandonando l’etnocentrismo
b.
saper apprendere, osservando la pluralità culturale del
mondo
c.
sapere i tratti caratterizzanti della cultura con cui si
ha a che fare
d.
saper fare una sintesi di quanto osservato nei punti
precedenti.
Ci pare che il punto “a” rientri in un atteggiamento psicologico
di relativismo culturale che non ha nulla a che fare con una
“competenza”; “b” e “c” fanno parte della competenza “matetica”, cioè il
saper apprendere (vi abbiamo dedicato il capitolo 7), non di quella
comunicativa; il punto “d” è un corollario e non si configura come un
“sapere” autonomo.
Abbiamo riportato questo modello di competenza comunicativa
interculturale solo perché è tra i più diffusi, ma riteniamo che sia
difficilmente sostenibile sia nel modo in cui viene articolato,
mescolando componenti da diversi ambiti concettuali, sia sul piano
teorico: un modello di “competenza”, nel senso in cui la definisce
Chomsky, non può variare da situazione a situazione: il modello di
competenza comunicativa è per definizione lo stesso in ambito sia
intraculturale sia interculturale. E’ scopo di questo studio dimostrare
che il modello di competenza comunicativa usato nella letteratura
sociolinguistica e glottodidattica per il primo ambito può essere usato
anche per descrivere il secondo.
-----------------
Apprendere e insegnare la
comunicazione interculturale |
Indietro |
“L’acquisizione delle abilità di
comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi:
consapevolezza, conoscenza e abilità.
Tutto comincia con la consapevolezza: il
riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale
che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti
in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso
software mentale. [...]
Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre
culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro
simboli, i loro eroi, i loro riti [...].
L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla
conoscenza e dall’esperienza personale”
(Hofstede 1991: 230-231).
Crediamo
che questa citazione, tratta da uno dei padri della ricerca sulla
comunicazione interculturale, sia illuminante sul piano didattico.
Riprendiamo le tre nozioni evidenziate da Hofstede: consapevolezza,
esperienza ed abilità.
Il presente volume ha come scopo quello di portare alla
consapevolezza della varietà del mondo e di come questa influisca
sull’interazione tra persone che appartengono a culture differenti. Nel
complesso del volume, questo ultimo capitolo, specificamente didattico,
illustrerà come ogni persona, in maniera autonoma o in contesti di
formazione, possa trarre vantaggio dalla propria esperienza di
comunicazione interculturale, come possa continuare ad imparare dalla
propria interazione con membri di altre culture, costruendo giorno dopo
giorno la propria abilità, che nel nostro linguaggio specifico abbiamo
sempre definito “competenza comunicativa interculturale”.
Riprendiamo ora la “filosofia” interculturale che abbiamo
esposto nel paragrafo 0.3 per costruire su quelle basi una proposta
didattica coerente con tutta l’impostazione del volume. Se è vero che
entrare in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i
propri valori ma (a) conoscere gli altri, (b) tollerare le differenze
almeno fino a quando non entrano nella sfera dell’immoralità che,
secondo i nostri standard, non intendiamo accettare, (c) rispettare le
differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle
diverse culture, (d) accettare il fatto che alcuni modelli culturali
degli altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, (e)
mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti; e se
è vero che l’interculturalità come l’abbiamo definita noi è un
atteggiamento di fondo, che prende atto della ricchezza insita nella
varietà, che non si propone l’omogenizzazione ma mira soltanto di
permettere un’interazione il più piena e fluida possibile tra le diverse
culture, ne consegue che formare alla comunicazione (e, più in generale,
ad un atteggiamento) interculturale significa formare:
a) persone che
consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali
accettare, tollerare, rifiutare nelle varie situazioni in cui si trovano
ad operare
b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle
differenze culturali
c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituiscono la
curiosità, il rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle
proprie.
Con
queste finalità un corso di formazione alla comunicazione interculturale
non è più un semplice “addestramento”, un training finalizzato ad un
bisogno immediato, ma si colloca nella sfera dell’educazione, che cambia
la natura delle persone e, indirettamente, quella della società in cui
viviamo.
Proporremo anzitutto, nei paragrafi 7.1 e 7.2, due strumenti
che chiunque (un formatore di personale oppure una persona che vuole
migliorare la propria competenza comunicativa interculturale) può
portare con sé vita natural durante e continuare a compilare,
raccogliendovi il frutto delle sue osservazioni.
In 7.3 daremo infine alcune indicazioni sulla metodologia
della formazione in questo settore.
7.1 Uno strumento per
l’osservazione culturale
Una
“cultura” è l’insieme dei “modelli culturali” messi in atto da un popolo
per rispondere a bisogni di “natura”: nutrirsi, procreare, proteggersi
dal freddo, vivere in gruppo, ecc.
Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra
cultura, ne siamo generalmente inconsapevoli: ci sembra ad esempio
“naturale”, mentre è “culturale”, che ci sia un capofamiglia e non una
capofamiglia, che non si debba picchiare chi ha idee diverse dalle
nostre (ma sono passati pochi decenni dal fascismo, dagli anni di
piombo... e negli stadi di calcio ci si picchia oggi per tifo, neppure
per idee), che la gerarchia sia fatta in un certo modo, che nelle scuole
e nelle università un docente faccia domande di cui sa già la risposta,
e così via.
E’ quindi necessario saper osservare la propria cultura
mentre si osserva quella altrui. Gli antropologi hanno individuato
parametri e metodiche di osservazione sofisticatissimi; ma per i nostri
fini è meglio ricorrere ad una nozione sociolinguistica più semplice ma
più maneggevole, cioè quella di “ambito” situazionale. Per ogni ambito
vengono indicati alcuni modelli culturali che si possono osservare per
comprendere come davvero funziona la nostra cultura, per osservarci
dall’esterno, così come ci vedono membri di altre culture con i quali
vogliamo comunicare.
Il modello che proponiamo qui di seguito è basato su Balboni
1996a, a cui si rimanda per approfondimenti. Si può usare questa
tassonomia creando un file di banca dati in computer oppure in un
normale quaderno a fogli mobili con una voce per ogni pagina: in questa
griglia si può possono poi registrare
a. le riflessioni sui modelli culturali del nostro paese
b. le osservazioni che si fanno mano a mano le vicende
professionali o i momenti di vacanza ci portano in contatto con altre
culture.
Il fatto di avere delle voci da osservare porta a “vedere”
degli atteggiamenti, dei gesti, dei valori della nostra cultura che
prima passavano inosservati, quasi fossero naturali e non culturali, e
che nella stessa scheda queste osservazioni si mescolino con quelle
relative ad altre culture, mettendo le basi per un comparazione
interculturale.
Che sia realizzata su computer o su carta, questa tassonomia
rappresenta uno strumento semplice ma efficace per uscire dagli
stereotipi e creare, se possibile, dei sociotipi.
I domini che abbiamo selezionato, e che abbiamo articolato in
una serie di voci che ciascuno può modificare o integrare a seconda dei
propri interessi, sono i seguenti:
DOMINIO 1: LE RELAZIONI SOCIALI
a) Rapporto con uno
straniero
b) Rapporto giovani / adulti
c) Rapporto con i superiori
d) Corteggiamento, relazione amorosa
e) Relazioni omosessuali
f) Uso di offrire sigarette, bevande, ecc.
g) Modo di riparare ad errori, scusarsi
eccetera |
DOMINIO 2: L'ORGANIZZAZIONE SOCIALE
a) Sistema
istituzionale ed elettorale
b) Sistema giudiziario
c) Sistema bancario e finanziario
d) L'industria
e) L'agricoltura
f) Il terziario
g) Le tele-comunicazioni
h) I trasporti
i) I mass media
j) La criminalità
k) La/e religione/i
eccetera |
DOMINIO 3: LA CASA E LA FAMIGLIA
a) Dimensione della
famiglia
b) Ruoli nella famiglia
c) Rapporto genitori-figli
d) Autonomia dei figli da ragazzini, età dell’uscita da casa
e) Tipologia della casa
f) Tradizione e innovazione nelle case
g) Proprietà e affitto di abitazioni
h) Pulizia della casa
i) La casa di città
j) La casa di paese
k) La casa in campagna
l) Interesse della famiglia per la casa: pulizia, restauro, ecc.
eccetera |
DOMINIO 4: LA CITTA'
a) Rapporto
città-cittadina-paese-campagna
b) Rapporto centro-periferia
c) Traffico privato e traffico pubblico
d) Strutture produttive e città
e) Divertimento, sport e città
f) Città e cultura
g) Il governo della città
h) La città e gli abitanti: come questi si sentono “cittadini”,
padroni della città
i) Città e sostegno alle famiglie: asili, ricoveri, ecc.
j) Città e scuole
k) I problemi della droga
eccetera |
DOMINIO 5: LA SCUOLA
a) Scuola privata e
pubblica
b) Livelli scolastici
c) Prestigio sociale della scuola, degli insegnanti
d) Rapporto scuola-mondo del lavoro
e) Tradizione e innovazione nella scuola
f) Ruolo delle famiglie nella scuola
g) Le lingue straniere
h) Scuola come formazione personale e/o professionale
eccetera |
DOMINIO 6: I MASS MEDIA
a) MM pubblici e
privati
b) Autonomia dei MM, MM e politica
c) I giornali quotidiani
d) I settimanali politici e culturali
e) I settimanali per pubblici speciali (donne, sport, ecc.)
f) La pornografia
g) Televisione: informazione e intrattenimento
h) La radio
i) Il cinema d'autore e quello popolare
j) Presenza di mass media stranieri
k) Letteratura d'autore e d'evasione
eccetera. |
7.2 Uno strumento per
l’osservazione della comunicazione interculturale
Molti
esempi contenuti contenuti in questo libro, così come le raccolte
aneddotiche della letteratura sulla comunicazione interculturale in
azienda e come i siti Internet sulla comunicazione interculturale (cfr.
8.1) sono obsoleti nel momento in cui vengono pubblicati: la rapidità
degli scambi internazionali che portano le persone e le immagini
televisive e multimediali in giro per il mondo fanno sì che
l’interscambio di modelli culturali e di modelli di comunicazione
interculturale sia fluidissimo, costante, inarrestabile e non
descrivibile in tempo reale.
Al contrario, la struttura concettuale che abbiamo posto alla
base di questo volume non si modifica con il tempo: il concetto di
competenza comunicativa interculturale collocata sullo sfondo di alcuni
valori culturali e di alcuni fattori di particolare rischio comunicativo
(essenzialmente, quanto discusso nei paragrafi 1.6, 1.7 e nel capitolo
2) ci pare un modello universale, almeno allo stato attuale della
ricerca, ci pare cioè in grado di descrivere il fenomeno
indipendentemente dal luogo e ieri come oggi o domani – fatto salvo il
cambiamento indotto dalla comparsa di strumenti comunicativi di massa,
del computer, ecc.
Se è vero che il modello di descrizione della competenza
comunicativa interculturale è affidabile, allora chi opera in ambiente
internazionale può creare, come abbiamo detto già per la griglia
presentata in 7.1, un file oppure impostare un quaderno a fogli mobili
indicando gli elementi della competenza comunicativa interculturale da
tenere sotto osservazione quando si interagisce con stranieri, quando si
va all’estero, quando si raccontano aneddoti a tavola, quando si
guardano film stranieri.
L’elenco è implicito nell’indice di questo volume e può
essere arricchito, specialmente per quanto riguarda i valori culturali,
da alcune voci riprese dalla griglia del paragrafo precedente. I modelli
culturali e comunicativi da osservare sono:
Valori culturali di fondo
a) Il tempo
b) La gerarchia e il potere
c) Il rispetto sociale e la “correttezza politica”
d) Attribuzione e mantenimento dello status: la necessità di
salvare la faccia |
Uso del corpo per fini comunicativi
a) Sorriso
b) Occhi
c) Espressioni del viso
d) Braccia e mani
e) Gambe e piedi
f) Sudore (e profumo)
g) Rumori corporei
h) Toccarsi i genitali
i) Distanza frontale tra corpi
j) Contatto laterale
k) Il bacio
l) Lo spazio personale nel luogo di lavoro |
Uso di oggetti per fini comunicativi
a) Vestiario
b) Status symbol
c) Oggetti che si offrono: sigarette, liquori, ecc.
d) Regali
e) Danaro
f) Biglietti da visita |
La lingua
a) Tono di voce
b) Velocità
c) Sovrapposizione di voci
d) Superlativi e comparativi
e) Forme interrogativa e negativa
f) Altri aspetti grammaticali
g) Titoli e appellativi
h) Registro formale/informale
i) Struttura del testo |
Mosse comunicative
a) Abbandonare
b) Attaccare
c) Cambiare argomento
d) Concordare
e) Costruire
f) Difendersi
g) Dissentire
h) Domandare
i) Esporsi
j) Incoraggiare
k) Interrompere |
l) Ironizzare
m) Lamentarsi
n) Ordinare
o) Proporre
p) Riassumere
q) Rimandare
r) Rimproverare
s) Scusarsi
t) Sdrammatizzare
u) Tacere
v) Verificare la comprensione |
Situazioni comunicative
a) Dialogo
b) Telefonata
c) Conferenza
d) Presentazione della propria azienda, dei propri prodotti
e) Partecipazione a cocktail party, pranzo o cena
f) Riunione, lavoro di gruppo |
7.3 Insegnare
comunicazione interculturale
I due
paragrafi precedenti si basano su un’idea di apprendimento auto-diretto
e continuo che, a nostro avviso, rappresenta la modalità formativa
naturale per una persona impegnata nel fare quotidiano.
Tuttavia, riprendendo la metafora informatica, per imparare
ad imparare è necessario essere “formattati” in maniera giusta. La
formattazione è costituita dall’esperienza di apprendimento. La maggior
parte delle persone che operano in aziende, università e istituzioni
diplomatiche hanno nella propria storia di formazione due tipi di
esperienze:
a) insegnamento frontale in
aula
Dalla scuola all’università, alla maggior parte dei corsi di
formazione aziendali la modalità di formazione ritenuta naturale è
quella per cui chi “sa” veicola la propria conoscenza a chi “non sa”
verbalmente o con il supporto di qualche lucido o video
In realtà non è possibile parlare frontalmente della
comunicazione interculturale, non è possibile “insegnarla”, se non nei
termini che abbiamo cercato di proporre in questo studio: intendendo
cioè l’insegnamento frontale come sensibilizzazione al problema e
fornendo strumenti di analisi e catalogazione.
Ma se non sono condotte con una metodologia precisa (vedi
sotto), le lezioni frontali servono esattamene come le dimostrazioni di
tecnici informatici che montano un programma e, cliccando a velocità
inumana su icone e bottoni e cartelle e quant’altro, “spiegano” al
povero utente come funziona il programma: sul momento gli pare anche di
aver capito ma, uscito il tecnico, non è più neppure capace di avviare
il programma;
b) simulazioni più o meno
strutturate e controllate
Le simulazioni rappresentano la modalità “alla moda” nei
corsi di formazione aziendale, dove sono stati importati dalla
tradizione americana che, a differenza di quella italiana, utilizza
moltissimo la simulazione dalla scuola primaria al college. Di fronte a
questa importazione dal fascinoso nome inglese di roleplay gli adulti
italiani si rassegnano, ma lo fanno malvolentieri.
D’altro canto non si possono impostare giochi di ruolo
interculturali perché sono irrimediabilmente falsi: i problemi
interculturali sono di software di sistema, cioè di cultura profonda e
inconscia, di meccanismi di cui non siamo consapevoli, e nelle
simulazioni si lavora solo su ciò di cui si è consci e consapevole
[1]
.
Nessuna
delle due modalità, né quella tradizionale né quella innovativa, è
quindi funzionale all’insegnamento della competenza comunicativa
interculturale. Non lo è perché, parafrasando il discorso di Wilhem Von
Humboldt sull’insegnamento delle lingue straniere: “non si può insegnare
[la comunicazione interculturale], si può al massimo creare le
condizioni perché qualcuno l’apprenda”.
Per individuare una metodologia, un “come”, dobbiamo dunque
partire da una riflessione sui fini, sul “perché”. In questa prospettiva
dunque possiamo dire che la formazione del personale aziendale,
accademico e diplomatico impegnato in ambiente multiculturale può aver
senso, a nostro avviso, solo se essa
a) mira a rendere consapevoli le
persone dei problemi della comunicazione interculturale
b) le rende consapevoli del fatto che non si tratta di differenze
esotiche, di superficie, del tipo “il mondo è bello perché è vario”, ma
che si tratta di diversi software mentali, che operano cioè alla radice
stessa dell’interazione in un evento comunicativo
c) offre alle persone degli strumenti concettuali, semplici e
chiari (ma non per questo banalizzati, anche se dai cenni si può
cogliere che i problemi della competenza comunicativa interculturale
sono più sofisticati di quelli che abbiamo scelto di trattare
esplicitamente) quali quelli che abbiamo esposto nel capitolo 1,
relativamente alle nozioni di comunicazione, di competenza comunicativa
e di parametri di valutazione, nonché quelli esposti nel capitolo 2
relativo ai valori culturali che fanno da sfondo agli eventi
comunicativi
d) offre alle persone degli strumenti operativi, quali le liste di
punti da osservare che abbiamo presentato nei due paragrafi precedenti,
in questo capitolo; qualunque azienda o università può facilmente
trasformare quegli elenchi in un software, basato su un programma di
data base, da dare in dotazione al proprio personale per l’osservazione
continua - e la condivisione delle osservazioni con il resto
dell’azienda attraverso una banca dati aziendale che raccolga le
esperienze individuali
e) soprattutto, convince le persone che la realtà muta ogni
giorno, per cui le varie culture - sempre più interrelate - si
modificano, si integrano, per altri versi si ri-differenziano, per cui è
necessario continuare ad osservare giorno dopo giorno, anno dopo anno,
con l’occhio dello scienziato che osserva, cataloga e interpreta ciò che
avviene (sulla base delle chiavi che ha avuto nei corsi di formazione o
in volumi come questo)
f) fa scoprire che la comunicazione interculturale è certo
complessa, crea problemi, rallenta le operazioni, ma che l’alternativa è
una società omologata che costringe tutti a rinunciare alle proprie
radici e ai propri valori in nome di valori più universali - scelti da
chi? Fa scoprire, in altre parole, concludendo la metafora informatica,
che il mondo perfetto non è quello in cui tutti hanno Windows o
Macintosh o Unix, ma in cui ciascuno ha il sistema operativo che
preferisce o che si è trovato nel suo computer e che questo non gli crea
difficoltà nel collegarsi con altri.
Su queste premesse, nell’organizzazione di
corsi di formazione la metodologia non potrà che essere quella che
a) parte dalla
condivisione delle esperienze di comunicazione interculturali
effettivamente vissute dai partecipanti al corso, esperienze, aneddoti,
incidenti, impressioni che vengono elicitate dal formatore fin
dall’inizio della sessione;
b) prosegue fornendo la griglia di analisi, quale ad esempio
quella indicata in 7.2
c) insegna ai corsisti ad osservare spezzoni di video:
- film, in cui attori e registi si sforzano di essere “naturali” e
quindi di imitare consapevolmente gesti, distanze, mosse della vita
quotidiana, rendendole però facilmente osservabili proprio perché
arte-fatte
- talk show e spettacoli di varietà in cui ci sono interazioni spontanee
- telegiornali, tribune politiche, ecc., in cui abbiamo monologhi che si
alternano a dialoghi
- registrazioni autentiche di lavori di gruppo, di presentazioni
aziendali, di conferenze, di negoziazioni e trattative.
Non importa, in molti di questi casi, se non si capisce la lingua: la
massa di informazioni non-verbali e relazionali che si può ricavare è
immensa e il fatto di non poter contare sull’input verbale costringe,
finalmente, ad osservare tutto il restante meccanismo di comunicazione.
Lo scopo
di questa attività non è quello di istruire sui contenuti ma piuttosto
di far apprendere un metodo di osservazione, e quindi la sintesi
conclusiva dell’incontro non sarà basata sulle informazioni che si sono
date e che sono servite da esemplificazione, ma sul modo in cui i
partecipanti al corso sono riusciti ad osservare i personaggi dei video,
ad osservare se stessi “in differita”, richiamando alla mente episodi
del proprio vissuto che a questo punto assumono una luce nuova e vengono
interpretati in maniera diversa.
Come si nota, dunque, l’esperienza personale dei soggetti i
formazione rappresenta il punto di partenza e quello conclusivo di un
percorso che, dovendo solo rendere consapevoli e dare strumenti, non
richiede più di due giornate di lavoro e che può essere svolto anche con
gruppi relativamente numerosi: condividere le esperienze di 20 persone
arricchisce molto di più di quello che è possibile in un gruppo elitario
di 5 partecipanti.
Quanto
detto finora si riferisce a corsi specificamente organizzati per la
formazione interculturale di quadri, funzionari, tecnici, dirigenti,
ecc. Un caso diverso è rappresentato dall’introduzione di tematiche
interculturali all’interno dei normali corsi di formazione linguistica,
sia nelle scuole superiori che nelle università e nelle aziende.
Esiste una letteratura ormai consolidata sul tema, che
abbiamo cercato di riorganizzare in maniera innovativa in Balboni 1996
[2]
, ma è una letteratura spesso basata sugli stereotipi anziché sui
sociotipi. Inoltre, nell’insegnamento linguistico l’attenzione è e
rimane ancor oggi eccessivamente concentrata sull’aspetto verbale e
ignora di fatto le componenti non verbali: la correttezza
morfosintattica e la fluidità rappresentano i valori positivi,
dimenticando che si può essere corretti e fluent fin che si vuole ma se
non si raggiungono i propri scopi socio-pragmatici, che possono essere
raggiunti solo se si comunica anche sul piano socio-culturale, non si sa
usare la lingua straniera.
In sintesi, diremo che non si può relegare l’aspetto
culturale solo ad un momento dell’Unità Didattica, ma che la riflessione
(inter)culturale deve pervadere tutto l’insegnamento, deve sgorgare ogni
volta che i testi e i materiali didattici usati ne offrono lo spunto.
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1 L’opinione opposta è sostenuta
– in maniera non
sufficientemente convincente, a nostro avviso
– in alcuni saggi e
relazioni di esperienze da Dietmar Larcher e Helga Moser Rabenstein in
un volume molto interessante, Baur-Montali 1994. Il “vizio” di fondo di
questi approcci basati sulla simulazione di scambi comunicativi in
ambiente interculturale è che essi tendono ad applicare il principio “ti
butto in acqua: adesso nuota”, che sul piano didattico può funzionare
con bambini ma non è adatto ad adulti che hanno poco tempo, sono
fortemente razionali nel loro approccio ai problemi, non amano sbagliare
di fronte a colleghi.
2 Tra i
volumi più interessanti: Attard 1996, Baur-Montali 1994, Byram-Zarate
1994, Cain 1994, Garcia 1994, Nalesso 1997, Prodomou 1992, Valdes 1986
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Problemi di comunicazione
interculturale con allievi stranieri adulti |
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Prof. Paolo E. Balboni
Il fatto che gli studenti adulti con cui si lavora
abbiano una padronanza base dell’italiano, per cui la comunicazione
elementare è garantita, può far dimenticare che ogni persona
· sul piano concettuale, continua a pensare
secondo le proprie regole e categorie culturali
· sul piano comunicativo, assume la grammatica e il lessico della
lingua italiana ma conserva i propri codici extra-linguistici:
gestualità, distanza interpersonale, simboli di status e di
gerarchia, ecc., che vengono percepito come universali, mentre cambiano
in ogni cultura
In altre parole, si controlla
l’aspetto formale della lingua, ma perde di vista il fatto che la lingua
non è solo pronuncia, lessico e grammatica, ma è una realtà ben più
complessa e legata a fattori culturali, per cui un gesto o un vestito
possono contraddire quanto detto dalla lingua, possono deviare
l’attenzione dell’interlocutore da quello che viene detto al modo in cui
lo si dice, possono creare momenti di tensione e anche errori
irreparabili.
Vedremo dunque qui di seguito alcuni aspetti della
comunicazione interculturale che vanno tenuti in considerazione
nell’interazione con studenti stranieri adulti. Verranno elencati molti
aspetti curiosi, talvolta sorprendenti: lo scopo non è quello di dare
una sventagliata di informazioni sminuzzate, bensì di
· “aprire gli occhi”, facendo notare alle persone che operano in
ambiente multiculturale alcuni aspetti da osservare
· fornire una griglia logica degli strumenti comunicativi e delle
principali mosse comunicative, dei valori e dei parametri da tenere in
conto, in modo che l’osservazione non sia casuale ed episodica, ma possa
trasformarsi in appunti all’interno di una griglia che incrocia le
nazionalità e gli aspetti gli aspetti della comunicazione.
Prima di muovere all’analisi è anche
utile ricordare che gli esseri umani comunicano con il loro corpo, con
oggetti, oltre che con la lingua. Spesso si crede che la comunicazione
linguistica sia tutta la comunicazione, tuttavia,
· 83% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale
passa attraverso gli occhi
· solo 11% giunge dall’orecchio...
Siamo dunque più, molto più “visti” che “ascoltati”, e
molto spesso è solo dopo aver deciso, sulla base di quel che si vede
(aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o
non.
Inoltre il funzionamento del nostro cervello nel momento in
cui procede alla comprensione prevede che i due emisferi cerebrali
procedano con un ordine ben preciso, indipendente dalla qualità dello
stimolo verbale o visivo che ricevono: prima si attiva l’emisfero destro
del cervello (quello analogico, globale, visivo, emotivo) e poi i
dati così pre-elaborati vengono passati all’emisfero sinistro (logico,
razionale, linguistico, analitico): siamo dunque prima “visti”
e poi “ascoltati”.
La priorità temporale e la prevalenza quantitativa non
intaccano certo il primato della lingua come strumento di comunicazione
- ma si deve prestare attenzione a non sottovalutare gli aspetti non
verbali, che risultano particolarmente connotati nelle diverse culture.
1. I parametri per valutare i problemi interculturali
Esistono molti parametri elaborati
dalle scienze della comunicazione e da quelle del linguaggio per
valutare di volta in volta la qualità di una mossa o di uno strumento di
comunicazione. Tra questi i più produttivi nella nostra prospettiva
sono:
a) formale vs. informale: si tratta di un’opposizione essenziale,
se non altro perché nella comunicazione “l’abito fa il monaco”, siamo
prima visti e poi ascoltati, e un errore sul piano della formalità che è
richiesta in molte situazioni può compromettere lo scambio. Ogni cultura
ha il suo modo particolare di identificare formalità ed informalità, non
solo nel linguaggio, ma anche nel modo di comportarsi, di scegliere un
regalo, di abbigliarsi;
b) polite vs. unpolite: usiamo i termini inglesi perché essi
includono non solo il “ben educato” italiano, ma anche un concetto di
adeguatezza alla situazione, nonché un concetto di gentilezza e di
rispetto sociale che va oltre la cosiddetta “buona educazione”: ad
esempio, la sequenza “io e te” viene vissuta come unpolite in
Germania, Inghilterra, America, dove “du und ich” o “you and I” sono
invece richiesti;
c) forza mascherata vs. esplicita: in una “lotta” quale è la
comunicazione la forza non va sempre evidenziata, perché l’interlocutore
potrebbe offendersi e interrompere lo scambio;
d) politicamente corretto vs. scorretto: ancorché tradotta in
italiana l’espressione politically correct è culturalmente di
matrice nordamericana; si tratta di un parametro che sta lentamente
penetrando in Europa: non tanto in Gran Bretagna, dove la consonanza con
gli Stati Uniti è spesso più linguistica che culturale, quanto nel
BeNeLux e nell’area scandinava. In base a questo parametro puramente
culturale, quindi estremamente rilevante nella nostra prospettiva,
la scelta lessicale ha valore “politico”: rientrano in questa sfera il
rispetto etnico (ad esempio “persona di colore”, che abbiamo preso in
prestito dall’americano per indicare un non-bianco; in italiano è
politicamente marcata la scelta tra “negro” e “nero”), le pari
opportunità al mondo femminile, facilmente realizzabile in inglese, dove
il femminile è poco marcato (he/she, his/her, man/woman) diviene
spesso ridicola in italiano, dove il genere maschile o femminile
distingue tutti i nomi, gli articoli, gli aggettivi e spesso i
pronomi...
e) uso libero vs. taboo: solo la consuetudine e l’attenzione
precisa consente a persone che frequentano ambiti internazionali di
cogliere il continuo variare degli argomenti di uso libero e di quelli
tabooizzati. Spesso, ad esempio, gli stessi italiani non si rendono
conto di quanto sia taboo nella nostra cultura l’accenno alle cure
psicologiche: il consiglio di andare da uno psicologo o da uno
psicoanalista viene sentito come offesa, significa “sei matto!”;
l’italiano del nord cui uno straniero chiede qualcosa sulla mafia
esorcizza il problema (“Primo, la mafia è in Sicilia, in parte del Sud;
secondo: Riina è in galera, ce la faremo”) e poi cambia discorso. Allo
stesso modo, un inglese mesta in ogni turbidume della royal family
ma reagisce se lo fa un non-inglese (soprattutto se lo fa un Americano,
cui si ribatte elencando le segretarie e stagiste del Presidente Clinton).
Ogni cultura ha dei taboo noti e ne ha altri che mutano rapidamente, e
solo due taboo sono da ritenersi universali (anche se vi sono eccezioni)
sono eros e thanatos, cioè i discorsi riguardanti il sesso e la
morte. Anche i discorsi sulla digestione e sui sentimenti personali
vanno considera taboo nelle culture di origine inglese;
f) atteggiamento cooperativo vs. arroccato: l’atteggiamento
delle persone che stanno comunicando può essere arroccato, del tipo “in
questo momento ho la parola io, quindi questo è il mio momento e nessuno
intervenga mentre emetto il mio messaggio”, oppure può essere
cooperativo: “sebbene tu abbia la parola, mi permetto di intervenire per
integrare, correggere, sostenere quanto tu dici”. Tendenzialmente gli
italiani appartengono a questo secondo gruppo, ma la loro disponibilità
a collaborare si scontra con l’irritazione fortissima dei nordici se
vengono interrotti: essi possono sentirsi talmente offesi da rinunciare
a proseguire nel loro discorso.
2. Alcuni valori problematici sul piano comunicativo
Vedremo in questo paragrafo alcuni
valori, alcuni software of the mind, come dice Hofstede, di cui è
di solito inconsapevoli e che possono creare problemi.
2.1 Il tempo
Nulla pare più naturale ad una
persona che la nozione di tempo (la cui esistenza in fisica è messa in
dubbio da molte filosofie di questo secolo...). E’ ovvio a un
italiano che la giornata inizia con l’alba, mentre è ovvio a molti
asiatici e africani pensare che la giornata finisca con il tramonto e
che quindi l’inizio della giornata successiva coincida con l’inizio
della notte. E’ ovvio che Natale sia d’inverno, Pasqua a
primavera e così via, perché usiamo il calendario solare - ma l’altra
sponda del mediterraneo usa il calendario lunare, quindi le festività
progrediscono di undici giorni all’anno...
Se l’esempio fatto sopra ha grande valore per far intuire la
complessità del problema, esso non pone problemi sul piano comunicativo.
Ma il concetto di tempo crea, per altri versi, molti problemi su quello
relazionale:
· il concetto di puntualità, ad esempio, è molto
cangiante: per le culture industrializzate la puntualità è essenziale,
per un orientale o un arabo spesso è un’indicazione di massima;
· tempo come corda o come elastico: secondo gli orientali e, per
certi versi, anche per molti centroamericani e brasiliani, noi europei e
i nordamericani viviamo il tempo come una corda tesa: può anche
rilassarsi, ma rimane pur sempre della stessa dimensione, della stessa
natura; per gli orientali, invece il tempo è un elastico, che di
norma è in posizione di riposo, si tende nel momento in cui c’è una
ragione per farlo, poi torna a rilassarsi
· “il tempo è danaro”: questa frase è naturale in una
cultura industriale, ma certe sue applicazioni creano forti problemi
comunicativi: una telefonata americana va straight to the point,
mentre una telefonata italiana inizia comunque con convenevoli, e in
molte culture tagliare i convenevoli (al telefono, in incontri privati,
in una trattativa, anche tra sconosciuti: si pensi all’acquisto di un
tappeto in un negozio arabo...) è disdicevole: un interlocutore sente di
star perdendo tempo (e danaro) e l’altro sente di essere di fronte ad
una persona rude, incivile - e il problema comunicativo si innesca
· orrore del tempo “vuoto”: il rifiuto del silenzio è tipico di
molte culture, per cui in molte lingue ci sono riempitivi da usare in
macchina, a tavola, durante le pause di riflessione: è quel small
talk in cui eccellono gli anglosassoni e che invece non interessa
agli scandinavi (quanti minuti di silenzio, di “tempo vuoto” ci sono in
un film di Bergman? Per contrapposto, pensiamo al sovrapporti si scene e
di dialoghi in un montaggio americano), gli arabi, gli orientali in
genere. Un cinese ben educato, anche se sa bene la risposta, lascia
passare qualche secondo dopo una domanda intelligente, per dimostrare
quanto sia degna di pensarci bene prima di rispondere
· il tempo futuro: sono ben note interiezioni quali l’arabo
inshallah o il suo omologo spagnolo si Dios quiere,
se Dio vuole. Non si tratta di mero fatalismo, come può pensare un
europeo, ma di una radicata necessità religiosa, esplicita nel Corano,
di riconoscere sempre che il futuro è nelle mani di Dio e che quindi
anche l’uso del tempo futuro dei verbi può risultare blasfemo: una sfida
a Dio
1.2
il tempo strutturato: la scaletta, l’ordine del giorno, l’agenda
dei lavori sono, per i latini, “utili suggerimenti” , ma per uno
svedese si tratta di una riedizione delle tavole della legge: frasi
come “possiamo saltare questo punto e tornarci dopo” oppure “questo
punto lo completiamo in seguito: tanto una soluzione si trova” sono
degli affronti personali per il nordico, per la sua strutturazione
del tempo che si deve trasformare in progetto e in azione. |
2.2 La gerarchia e lo status
La gerarchia è la concretizzazione di
un’idea del potere; a seconda delle culture le comunicazioni interne
alla gerarchie vengono regolate sulla base di quell’idea di potere: una
gerarchia italiana non ammette che una persona che svolge una funzione
di quarto livello faccia avere proposte o obiezioni al livello 2 senza
passare per il suo superiore di terzo livello; se crede che quest’ultimo
gli sia ostile, può con qualche rischio rivolgersi ad un pari grado del
suo superiore; in un’azienda americana invece il lift boy può
fare avere un progetto a un funzionario di altissimo livello: se la
proposta è buona, può saltare vari livelli - e se è cattiva si licenzia
senza dare il tempo ai suoi superiori di licenziarlo. In altre parole,
in alcuni casi si comunica tra funzioni, in altri tra persone; siccome
ogni persona ricopre una funzione in una gerarchia, i problemi
comunicativi vengono risolti da diversi mix delle due componenti a
seconda di ogni cultura.
In molte culture asiatiche e africane il concetto di
gerarchia è fortissimo e viene esibita, non solo con status symbol ma
anche con domande che si pongono al primo incontro e che a noi possono
sembrare quasi impertinenti: la prima domanda è “come ti chiami?” e la
secondo può facilmente essere “che professione fai?”. In Turchia, in
un’università di carattere internazionale, un professore universitario è
stato redarguito per aver tagliato il panettone e servito da bere
durante una festina natalizia; sempre per restare in Turchia, alcuni
commensali socialdemocratici (quindi ideologicamente restii
all’accentuazione delle gerarchie), si sono stupiti in un ristorante
gestito da un italiano quando, a fine serata, il gestore italiano ha
invitato il capocuoco italiano a sedersi alla sua tavola: aveva infranto
la gerarchia.
Alla base della gerarchia c’è il
concetto di “status” che può essere attribuito dalla società o
guadagnato sul campo. In molte culture, ad esempio quella cinese, l’età
è un fattore di status: l’anziano, in quanto anziano, merita rispetto.
Si tratta di un caso di status “attribuito”: oltre al caso dell’età,
sono esempi di status attribuito sia l’appartenenza a
un’aristocrazia (si pensi al ruolo dei “principi” arabi, che guidano le
delegazioni e conducono trattative indipendentemente dalla loro abilità)
sia il sesso, per cui in molte culture orientali e in quella araba la
donna non ha status alto quindi è esclusa dalla comunicazione con
stranieri. In questi casi di status “attribuito” l’insegnante italiano
commette infrazioni gravissime se cerca di rompere le convenzioni,
spingendo membri di età inferiore a sostituirsi all’anziano per avere
una comunicazione più precisa e snella: spesso ciò può compromettere il
contatto. Il problema non si pone quando il prestigio di status non è
“attribuito” ma acquisito sul campo, con la propria preparazione,
il proprio curriculum.
Connesso al problema dello status e del suo riconoscimento da
parte di tutti i partecipanti a un evento comunicativo c’è quello del
rifiuto di “perdere la faccia”: un arabo giungerà a negare platealmente
l’evidenza, in alcune situazioni, e potrà attribuire al demonio un
incidente da lui provocato di fronte agli interlocutori pur di non
perdere la faccia. In questo caso, pretendere scuse è un’offesa
definitiva, tale da far chiudere il rapporto: significa voler far
pubblicamente perdere la faccia.
Il problema del “salvare la faccia” è fortemente sentito in
molte culture asiatiche, africane e latino-americane, dove viene
definita con la parola honra.
3. La comunicazione non verbale
3.1 Uso del corpo per fini comunicativi
Tutto il corpo, che è fonte di molte
“informazioni” involontarie quali il sudore, il tremito, l’arrossire,
ecc., viene utilizzato anche per “comunicare”, cioè per veicolare
significati volontari, o per sottolineare significati espressi con la
lingua.
Vedremo quindi cosa “dicono” le varie parti del corpo,
tralasciando interpretazioni psicologiche (ad esempio: braccia conserte
= chiusura nei confronti dell’interlocutore) che pur essendo
intuitivamente valide rientrano tuttavia nell’ambito delle
interpretazioni.
a. Sorriso
Spesso chi ascolta sorride. In Europa questo esprime un
generico accordo, o almeno attesta la comprensione di quanto si sta
dicendo; in altre culture questa interpretazione non è altrettanto
certa: ad esempio, per non offendere un ospite straniero con un diniego,
un giapponese imbarazzato può limitarsi a sorridere e mantenere il
silenzio, in quanto non vige la nostra equazione “silenzio = assenso”
(“chi tace acconsente”). In una trattativa interpretare il dissenso come
assenso è grave.
b. Occhi
In Occidente guardare l’interlocutore negli occhi è inteso
come un segno di franchezza, ma in molte culture, ad esempio in Asia, il
fissare una persona dritto negli occhi può essere una sfida (o un
richiamo erotico). Mentre in Cina guardare negli occhi di chi parla è un
segno di attenzione, in Giappone ci si guarda di quando in quando, ma
mai durante un commiato: gli occhi vanno focalizzati a terra, in un
punto a lato della persona che si sta salutando.
Gli occhi abbassati, quasi chiusi in una fessura, significano
disattenzione e noi in Europa, ma in Giappone possono rappresentare una
forma di rispetto, ad esempio verso un conferenziere: gli si comunica
che l’attenzione è massima, che non si vuol correre il rischio di
distrarsi - ma il conferenziere europeo che non conosca questa
convenzione ha la certezza che i suoi ascoltatori si sono addormentati.
c. Espressioni del viso
Esprimere le proprie emozioni, sensazioni, giudizi,
pensieri con la mimica facciale è una cosa “ovvia” nell’Europa
mediterranea, in Russia e, in parte, in America, ma in Europa
settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza
controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, preferendo
educare i bambini fin da piccoli ad una certa imperscrutabilità, cioè ad
una riservatezza riguardo i propri sentimenti.
d. Braccia e mani
Spesso non si sa dove tenere braccia e mani: incrociarle
davanti al petto dà un senso di chiusura, tenerle allacciate dietro il
corpo può dare la sensazione di un’eccessiva informalità. Quindi di
solito si tengono accanto al corpo o si pone una mano in tasca. Molte
culture, ad esempio quella turca e quella cinese, non accettano entrambe
le mani in tasca.
Al di là di queste considerazioni, ci sono vari problemi di
significati che le nostre mani portano portano agli interlocutori:
· si ritiene, soprattutto in culture euro-americane, che
una stretta di mano stritolante dimostri sincerità e “virilità”, ma
questo non Ë vero per altre culture, dove l’eccesso di forza è solo
fonte di fastidio; in Oriente la stretta di mano è inusuale, per cui non
sempre sanno dosarne la forza
· i gesti della mano spesso sottolineano o sostituiscono le parole, ma
essi hanno diversi significati: il segno di vittoria tipico di W.
Churchill (la "v" con indice e medio) significa “vittoria” se il palmo è
rivolto verso l’interlocutore, ma è un insulto (ha più forza di un
chiaro “va a fartelo mettere...”) se il dorso della mano è rivolto
all’interlocutore: corrisponde, ma con forza maggiore, al medio teso che
esce dal pugno chiuso in America; ci sono due gesti che hanno causato
due famose gaffe di Bush e Clinton: il primo ha effettuato il
gesto americano con il pugno chiuso e il pollice eretto verso l'alto che
significa "OK", ma il contesto era Manila, ed in estremo Oriente quel
gesto corrisponde al medio che esce eretto dal pugno chiuso... Clinton
ha usato un altro segno americano per dire “OK”, quello fatto con
pollice e indice uniti a formare una "O", ma lo ha fatto alla Duma di
Mosca, e nei paesi slavi quel gesto significa “Ti faccio un ... grande
così”
· Gli italiani muovono molto le mani mentre parlano: ciò spesso li fa
ritenere aggressivi, invadenti, e la cosa è grave se questa sensazione
viene confermata dal tono di voce, dalle frequenti interruzioni, e così
via, come vedremo in seguito. In tutto il mondo i comici che vogliono
imitare gli italiani muovono istericamente braccia e mani e parlano a
voce alta. Si tenga anche presente che il cinema italiano più noto nel
mondo, da Salvatores a Amelio, da Sordi a Troisi passando per La
Piovra (lo spettacolo più visto al mondo nella storia del
cinema) è di ambiente meridionale, dove l’uso delle mani è
particolarmente accentuato.
e. Gambe e piedi
In molte culture accavallare le gambe non ha alcun valore
comunicativo, mentre in incrociarle, cioè appoggiare la caviglia al
ginocchio lasciando quindi che si veda la suola delle scarpe, viene
ritenuto unpolite e comunica scarso rispetto; gli arabi tuttavia vivono
questi atteggiamenti in maniera molto risentita, perché ritengono che si
comunichi disprezzo sia quando si mostra la suola della scarpa sia
quando, avendo semplicemente accavallato le gambe, si fa oscillare,
quasi nel gesto di dare calcetti che hanno un significato molto forte:
“vattene da qui”.
Nelle culture scandinave e in quelle orientali spesso
togliersi le scarpe è un gesto naturale, che indica relax.
f. Sudore (e profumo)
Il sudore è naturale e può informare sulla tensione emotiva
di una persona (ponendo il problema di come detergerlo in pubblico);
l’odore di sudore ha invece valore comunicativo: assolutamente bandito
in culture come quella italiana (chi si accorge di odorare si sente a
disagio, quindi le sue performance, anche linguistiche, sono intaccate),
in altre culture è considerato normale; nel mondo arabo un maschio
deodorato è meno “maschio”, e se è sensibilmente profumato è un
pervertito. Il sudore ha un valore positivo, di sincera partecipazione,
in Giappone (come nelle discoteche occidentali).
Quanto ai profumi, la definizione di "buono" e di "modica
quantità" varia da cultura a cultura: in Giappone sono particolarmente
intensi anche tra maschi, in Italia i profumi devono essere artificiali,
non riscontrabili in natura.
g. Rumori corporei
In quasi tutte le culture ciò che esce dal corpo è
considerato negativamente e quindi si pone il problema culturale di come
liberarsene con discrezione.
Soffiarsi il naso (per quanto discretamente) è permesso nelle
culture occidentali, mentre in Giappone è considerato irrispettoso e
volgare. Lo stesso vale per il ruttare e dar sfogo a rumori intestinali,
vietati nelle culture occidentali e meglio tollerati in Asia; in
Giappone una specie di risucchio indica soddisfazione dopo un pasto.
Il ruttare dopo un pasto, sebbene stia lentamente declinando
come uso, è ancora talvolta permesso (ma era richiesto, come indice di
sazietà e piacere) dopo un pasto in Scandinavia, Russia, Sud-est
asiatico.
Vomitare è escluso in molte culture, ma non in tutte; in
quella Giapponese, in particolare, il vomitare per postumi di
un’ubriacatura è una sorta di omaggio ai compagni con cui si è passato
una bella serata, bevendo ritualmente senza curarsi egoisticamente del
proprio malessere successivo.
Sputare e scatarrare è comunissimo in Oriente e, in parte,
nelle culture arabe e nere africane, mentre è vietato in quelle
occidentali.
f. Toccarsi piedi e genitali
Alcune culture orientali accettano, anche se si tratta di un
costume in regresso, il fatto di accarezzarsi i piedi in una specie di
massaggio rilassante, senza che questo abbia alcun significato
irrispettoso
E’ invece “poco educato” in Italia ma decisamente offensivo
in altre culture, ad esempio quella greca, il gesto abituale degli
adolescenti di sistemarsi i genitali, schiacciati dai jeans: significa,
soprattutto in momenti di tensione, di lite, “ti mostro che cosa sei: un
c...”.
3.2 Distanza tra corpi
Tutti gli animali vivono in una sorta
di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio
della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da
un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è data dalla
distanza del braccio teso (circa 60 cm.).
La “bolla” è un dato di natura, mentre da sua dimensione e il
suo valore di intimità sono dati di cultura e quindi variano:
l’infrazione alle regole “prossemiche”, cioè alla grammatica che regola
la distanza interpersonale, può generare una crisi comunciativa, cioè
far interpretare come aggressivi e invasivi, quindi necessari di una
reazione, dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo
significato nella cultura di chi li ha compiuti.
Le culture nord-mediterranee ritengono che la sfera
dell’intimità, la “bolla”, sia data dalla distanza di un braccio teso:
che si avvicina di più invade il campo dell’altro, mettendolo a disagio
e dandogli la sensazione di essere aggredito (se poi questa invasione si
accoppia con un accentuato movimento delle mani ed un tono di voce alto,
tipici del Mediterraneo, la sensazione di un nordico di essere aggredito
si trasforma in certezza e genera una reazione). Ma nel Mediterraneo
arabo spesso che parla tocca l’interlocutore sul petto o sul
braccio.
Al capo opposto troviamo gli europei non mediterranei e gli
americani che richiedono che ciascuna “bolla” sia rispettata, per cui i
due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio.
C’è una tendenza generalizzata nel mondo dei contatti
internazionali all’aumento della distanza interpersonale, forse dovuta
al fatto che la cinematografia è quasi interamente di origine
anglosassone e funge da “persuasore occulto” nell’imporre nuove
grammatiche di comunicazione interpersonale.
Quanto al contatto laterale vigono svariate regole: molti
mediterranei si prendono a braccetto (addirittura per mano nei paesi
arabi) anche tra maschi, cosa esclusa nel nord Italia e nel resto
d’Europa. Anche nelle zone rurali dell’Oriente sopravvive l’abitudine di
prendersi per mano tra persone dello stesso sesso - ma in Giappone il
prendersi a braccetto ha una connotazione sessuale, così come il
camminare molto vicini, a contatto di spalla, anche se la ragazza sta
qualche centimetro avanti.
3.3 Uso di oggetti
Si è spesso osservato che, a
differenza di quanto recita la saggezza popolare, nella comunicazione
"l'abito fa il monaco”: gli oggetti che poniamo sul nostro corpo ed
intorno ad esso nei luoghi di abitazione o di lavoro, la macchina che si
usa, ecc., sono tutti status symbol, e in alcuni casi sono
indicatori di rispetto per l’interlocutore. Poiché il rispetto mostrato
per l’interlocutore è un dato essenziale ma variante in ogni cultura,
può spesso succedere che la nostra indicazione di rispetto non venga
compresa o venga mal interpretata.
a. Vestiario
La formalità dell’abbigliamento è essenziale per comunicare
il rispetto che si porta ad una persona.
In Italia un vestito "formale" include camicia, cravatta,
giacca; negli USA è sufficiente la cravatta, anche con una camicia a
maniche corte e la giacca poggiata sullo schienale — atteggiamento che
da noi sarebbe di amichevole informalità. In Oriente il concetto di
formale in abito europeo è ancora impreciso.
Una giacca cammello o di tweed inglese è adeguata ad un
incontro formale in uffici, università, ecc. in Europa e in Oriente ma
non in America dove un impiegato o un funzionario non vengono accettati
in ufficio se non hanno un abito grigio, blu o nero: cammello, tweed,
toppe di pelle sui gomiti sono per il weekend. La sola strategia per non
commettere errori è costituita dal parlarne chiaramente.
b. Status symbol
Gli status symbol variano da cultura a cultura, da
classe a classe, e spesso non vengono compresi dagli interlocutori di
altre culture, per cui non vengono posti in atto comportamenti attesi:
ad esempio stemmini sul bavero (in Italia si usano al massimo quelli di
Rotary e Lions), cravatte con il colore di Oxford o Harvard, e così via,
sono strumenti di comunicazione sociale molto rilevanti in America e
irrilevanti in Italia.
Tra gli status symbol hanno un ruolo particolare
quelli che indicano la ricchezza: un Rolex d’oro al polso, pesanti
catene su petti villosi o sui polsi, grevi anelli con pietra preziosa
sulle dita robuste di un arabo o di uno slavo possono portare l’europeo
“raffinato” a pensare di trovarsi di fronte ad un buzzurro, ad una
esibizione di ricchezza rapidamente e spesso malamente acquisita, di un
parvenu mentre in quelle culture l’esibizione di ricchezza è
culturalmente approvata; anche la possibilità di accedere a servizi rari
è uno status symbol: il telefono cellulare, che gli italiani spengono
prima di una riunione e che non va esibito perché ormai di uso
generalizzato, è segno di forte vicinanza al potere in Africa o
nell’Europa slava, dove i ripetitori cellulari sono pochi e quindi i
numeri disponibili sono limitati.
c. Oggetti che si offrono: sigarette, liquori,
ecc.
Offrire è sempre un gesto di rispetto e accettare significa
ricambio di rispetto; in culture in cui il rispetto interpersonale ha
molto valore (Africa, Asia ma, in parte, anche America Latina) il
rifiuto può essere uno sgarbo: rifiutare un tè alla menta in un
bicchiere opacizzato dall’uso può essere un desiderio giustificato, ma è
offensivo per l’arabo che lo ha offerto. In questi casi l’eventuale
rifiuto va giustificato con ragioni di salute (un finto diabete è la
soluzione in molti casi) o di ordine religioso.
Anche l'insistere nell’offrire o lo schernirsi nell’accettare
sono regolati dalla cultura: ad esempio, nel sud d'Italia si insiste
molto, secondo la tradizione greca, in un modo che un Inglese ritiene
francamente eccessivo, invadente, imbarazzante.
Ci sono poi problemi legati a ciò che si può offrire: oggi,
offrire una sigaretta in America può essere un insulto (e in Giappone
non si offrono affatto), come offrire alcool a un arabo, o come
insistere per far bere vino a un commensale inglese o americano che dopo
la cena deve tornare a casa in macchina.
d. Regali
In Cina regalare un orologio, che richiama il passare del
tempo, è un memento mori, quindi assolutamente inaccettabile,
come i fiori (soprattutto bianchi) in Oriente, i crisantemi in Italia, i
fiori gialli in Messico... : il comunicare rispetto e amicizia con i
regali è spesso rischioso. In Giappone esiste una vera e propria cultura
della confezione dei regali., che indica lo status della persona cui
viene fatto, mentre in Germania regalare fiori con il cellophane intorno
è offensivo...
I regali costituiscono un importante mezzo di comunicazione
sia intimo (regalare fiori è dunque “rischioso”), sia sociale, in
occasione di inviti a cene, ecc. La tendenza è sempre più quella ad
aprire il regalo, soprattutto se si tratta di un pacchetto, per
comunicare il fatto che è stato gradito;
e. Danaro
Il danaro ha un fortissimo valore di status symbol,
come indicatore non solo di ricchezza, ma anche di successo sociale. Le
culture differiscono molto sul modo di esibire il danaro: a fronte di
culture europee, più o meno legate al concetto di understatement,
per cui si dimostra la ricchezza con il possesso di oggetti lussuosi
(abbigliamento, automobili, ecc.) ma non parlando apertamente di danaro,
troviamo la cultura americana, quelle Orientali e quelle di molti paesi
emergenti in cui l’esibizione del danaro è accettata e ricercata.
Se in Italia parliamo ancora di “vil danaro” e la parola
“lucrare” è ignobile, mentre “senza fine di lucro” è puro, le culture
puritane ricordano che l’amor di Dio per la persona giusta si vede anche
sotto forma di gratificazione materiale: per cui anche i cattolici
americani, intrisi di puritanesimo, possono esibirsi nello spillare alle
vesti della Madonna mazzette di dollari durante le processioni, ed è
possibile che una persona venga presentata anche con riferimento al suo
reddito annuo: he makes half a million a year! Parlare del
proprio stipendio è assolutamente fuori luogo in Italia, tranne tra
colleghi e per solidarietà sindacale, mentre è naturale in culture in
cui il danaro va mostrato. Quindi non deve stupire se, di fronte a un
italiano che si scusa se la commessa della libreria non ha tagliato il
prezzo dalla sovraccoperta di un libro da regalare, troviamo l’americano
che dice il costo del regalo, per comunicare l’estremo valore in cui
tiene la persona cui è stato fatto.
4. Aspetti verbali
La lingua è prima di tutto
espressione sonora, ma è anche costituita dalla scelta delle parole, dal
modo in cui usiamo alcuni aspetti della grammatica e, soprattutto, da
quello in cui strutturiamo i nostri “testi”.
4.1 Uso della voce
La nostra voce può dare l’impressione
che siamo rinunciatari o aggressivi, indipendentemente da quello che
effettivamente vorremmo essere; il nostro silenzio è del tutto neutro in
Scandinavia, assolutamente imbarazzante in Italia...
L’aspetto sonoro della voce è un po’ come quello visivo: è il
primo ad essere percepito e, proprio perché viene analizzato in maniera
inconsapevole, anche in questo caso si può dire che “l’abito fonologico
fa il monaco”: l’inglese che sente due italiani che discutono
serenamente ritiene che stiano litigando, mentre magari stanno
semplicemente constatando di essere d’accordo, ma lo fanno con un tono
di voce e un reciproco interrompersi che in Inghilterra verrebbe usato
solo in un litigio.
Se consideriamo che gli italiani agitano le mani, hanno una
grande mimica facciale, invadono la “bolla” dell’interlocutore, vediamo
come l’alto tono di voce e l’interrompersi aggiungono una conferma di
“aggressività”.
C’è poi il problema della sovrapposizione di voci. Le culture
mediterranee l’accettano, quasi tutte le altre la vietano, sia sotto
forma di interruzione, sia come parlare contemporaneo. Pare che questa
sia invece una caratteristica propria degli italiani, tant’è vero che
nella metafora scelta da Gannon per descrivere l’Italia, (un paese che è
paragonato a un’opera lirica) il parlare insieme viene equalizzato al
duetto o al quartetto tipico del melodramma.
4.2. Alcune scelte lessicali
Abbiamo già trattato il tema dei
taboo nel paragrafo sui parametri di giudizio della comunicazione
interculturale, mentre abbiamo solo accennato al problema della
“correttezza politica”, che qui riprendiamo, isieme agli insidcatori di
status, cioè gli appellativi quali “signore/a/ina” o i titoli
quali “dott.”, “ing.”, ecc. Il loro uso cambia significativamente da
cultura a cultura.
Iniziamo dall’abitudine comune in Italia, a scuola come tra
colleghi, di chiamare una persona per cognome: si tratta di una scelta
abbastanza inusuale in Europa, e del tutto fuori luogo nel mondo
anglofono: “Brown, come here” è usato solo dal sergente cattivo
nel campo di addestramento dei marines...
Il cognome, in inglese, va sempre preceduto da un
appellativo, che può essere Dr in ambito accademico (solo per
coloro che hanno ottenuto un PhD), ma di norma è Mr per un
uomo e, oggi, Ms (pronunciato come se fosse scritto Miz)
per una donna. La classica distinzione tra Mrs e Miss è
contestata nel nome della parità tra uomo e donna, in quanto solo di una
donna si viene a sapere se è sposata o non.
I titoli che corrispondono ad un professione (“Ingegnere”,
“Architetto”) non sono accettati: le uniche professioni che hanno un
titolo sono quella medica (Dr) e la docenza universitaria (Prof).
Le culture spagnola, italiana e tedesca accentuano i titoli e gli
appellativi, mentre quelle scandinave e anglosassoni li sfumano; la
Francia sta evolvendo in direzione anglosassone.
Quanto al formale/informale, notiamo
che ad esempio in Svezia durante gli anni Settanta c’è stato un
abbandono generalizzato del “lei” a favore di “tu”, mentre in Francia
vous resta molto usato; Italia il passaggio dal “lei” al “tu” tra
colleghi è rapido, così come in inglese, dove darsi del tu significa
usare il nome di battesimo anziché Mr/Ms + cognome, che indica un
registro formale.
Anche nell’appiattimento della seconda persona, cioè nella
generalizzazione dell’informalità, la necessità di indicare il registro
formale rimane viva. In inglese come in italiano l’uso dei
condizionale nelle offerte (“would you like...”, “vorresti / le
piacerebbe”) oppure la richiesta di autorizzazione e di pareri
(“Secondo te, posso...”; “Che ne diresti se...”) comunicano un senso di
rispetto e di formalità. Questo viene sottolineato anche
dall’eliminazione di interiezioni e parole di natura volgare (quali “fucking”,
“incazzato”, ecc.) e dall’uso intensivo di espressioni che attutiscono
la forza delle nostre richieste, quali “per piacere”, “grazie”. E così
via.
Culture che si esprimono in inglese, che devono quindi
marcare con forme linguistiche la mancanza dell’alternanza tra “tu/lei”,
“du/Sie”, “tu/vous”, “tu/Ud.”, “tu/vocé”,
ecc., tendono a usare moltissimo please e thank you, anche
laddove un italiano non li userebbe; il loro mancato uso fa ritenere a
un anglofono che noi siamo poco polite, il che risulta grave se si
aggiunge al tono di voce, alla mobilità delle mani e alla vicinanza
eccessiva che ci fanno ritenere aggressivi.
4.3 Struttura del testo
Chiamiamo “testo” la componente
verbale, linguistica, di un evento comunicativo, che ha anche molte
componenti non verbali, cui si è fatto cenno sopra.
Essenzialmente esistono tre modi di costruire un testo:
· il testo
italiano, spagnolo, tedesco procede dal punto A al punto B non come una
retta ma come una linea continuamente interrotta da digressioni, da
ulteriori digressioni nella digressione, e così via: una linea spezzata
che rende conto della complessità dell’argomentare che si vuole fare:
l’informazione principale e tutte quelle accessorie (le digressioni)
vengono incastonate l’una nell’altra, per cui ne risulta un testo,
scritto o orale, complesso, articolato, con un forte uso di pronomi
relativi e altri meccanismi di coesione tra le varie parti del testo; la
struttura del verbo in queste lingue, con le sue sei persone, i molti
modi e tempi, consente di raccordare le varie parti della macro-frase
che si produce;
· il testo inglese va invece straight to the point, e tutte le
informazioni accessorie, che nel testo italiano erano collocate in frasi
secondarie, in digressioni, qui vengono poste di seguito. Il testo si
traduce quindi in una serie di frasi brevi e semplici, con forte uso
delle ripetizioni (osteggiate in italiano). Il sistema verbale inglese,
che è assolutamente scarno, funziona bene in questo tipo di strutture,
ma non regge nel momento in cui si pensa in italiano e si vuole parlare
in inglese: le digressioni, le frasi secondarie e terziarie, richiedono
una logica verbale che l’inglese non possiede. Questo vale anche per la
traduzione di un testo scritto italiano, che va spezzato nelle sue
componenti e riscritto con frasi semplici e lineari;
· il testo asiatico e arabo procede invece a spirale, per progressivi
avvicinamenti al punto d’arrivo, senza forzature (che vengono viste come
unpolite), senza andare subito al punto (altra forma di
unpoliteness).
La percezione del testo prodotto
secondo le regole di un’altra cultura è assai pericolosa: un americano
ritiene inconsapevolmente che il testo di un italiano o di un tedesco
sia fumoso, che si voglia coprire a suon di digressioni qualche cosa di
non chiaro; viceversa, l’europeo ritiene che il testo americano sia
povero concettualmente, banale, semplicistico. Entrambi, europei e
americani, ritengono che il testo orientale sia una perdita di tempo,
un’ectoplasmatica nebbia che non si sa cosa celi e dove porti. E si
tratta di percezioni che mettono a rischio la buona riuscita della
comunicazione.
5. Le mosse comunicative
Nei paragrafi precedenti abbiamo
visto gli strumenti a disposizione di chi gioca la “partita”
comunicativa per scambiare messaggi che lo vedano vincente.
Avere la scacchiera e i pezzi non basta per vincere, cioè per
dare un esito felice alla propria comunicazione: bisogna conoscere le
mosse e le regole che le governano. Schmidt ne elenca una ventina, che
qui di seguito si vedranno in prospettiva interculturale, cioè cercando
di vedere se essere sono egualmente accette o non-accette e se producono
gli stessi effetti nelle varie culture. Useremo la terminologia
introdotta nella definizione di comunicazione per cui avremo “mosse
up” e “mosse down”, a seconda che esse tendano a favorire chi
le compie nel tentativo di prendere controllo dell’evento comunicativo
oppure che mirino piuttosto a permettere di evitare una escalation,
cioè un diverbio, lasciando raffreddare gli animi, prendendo tempo,
ammettendo l’errore, e così via.
a) Attaccare è la mossa up per eccellenza;
in Italia (ma anche in Russia, dove l’espressione diretta delle opinioni
è gradita) un attacco condotto con garbo è di solito accettato, e tra
amici è ammesso anche un attacco diretto, mentre in molte culture questa
mossa è inaccettabile; in alcuni casi (ad esempio in molte culture
asiatiche) basta lo sguardo puntato dritto negli occhi per trasformare
una mossa neutra in un “attacco”.
b) Costruire, cioè l’accettazione della proposta
dell’interlocutore ma integrandola nella propria: è una mossa che porta
in posizione up (è la proposta originaria che funge da cornice,
da quadro di riferimento) in maniera indiretta. Essa è accettata in
tutte le culture ed è indispensabile soprattutto in quei casi in cui
l’attacco (mossa “a”) è culturalmente vietata.
c) Dissentire è per certi versi una variante dell’attacco (mossa
“a”), per cui diventa accettabile ovunque solo se usata come
introduzione a un tentativo di costruire insieme (mossa “b”). I modi di
dissentire variano da cultura a cultura: gli italiani tendono ad
accentuare immediatamente il 10 per cento di disaccordo e tacere sul
restante, su cui c’è accordo (“chi tace acconsente”), mentre a livello
internazionale è indispensabile la procedura opposta, “sì... ma...”:
prima si esprimono esplicitamente le ragioni di concordanza e poi quelle
di disaccordo.
Ricordiamo anche che molte culture non accettano la
possibilità di dire “no” ad un ospite straniero ritenuto importante, per
cui il dissenso viene manifestato in maniera indiretta (il sorriso
accompagnato dal silenzio in Giappone, ad esempio), o non può essere
espresso (l’obbligo di rispondere “sì” ad una domanda “sì-no” nelle
culture swahili). Totalmente differente la situazione russa, in cui un
dissenso aperto è gradito ed è segno di serietà, di volontà di costruire
insieme.
Chi dissente presuppone per sé una posizione di pari dignità
rispetto a quella dell’interlocutore (e quindi, se parte da posizione
down, si configura una sorta di inizio delle ostilità) e gioca tutto
sul contenuto della sua critica: se questa è valida ed il dissenso è
esposto con tatto, è una mossa efficace.
d) Esporsi, parlare di sé, delle proprie opinioni, ritenendole
importanti per gli altri: se essi le accettano confermano la posizione
up di chi si espone. In molti casi il rischio è che questa mossa
venga percepita come esibizione, vanteria, sicumera, soprattutto se non
è realizzata con forme linguistiche polite (condizionale, “forse”, “si
potrebbe” “mi pare che” ecc.). Un informant inglese di questa
nostra ricerca ci ha detto esplicitamente che ci si può esporre
“superficialmente e mai nell’ambiente di lavoro. La sincerità non è
necessariamente d’obbligo”.
e) Ordinare è una mossa rischiosa perché è collegata ad un valore
essenziale, quello di gerarchia e mette in campo due variabili molto
forti, quella della formalità/informalità e quella della esplicitezza/implicitezza
della “forza” pragmatica della mossa.
Ogni cultura ha dei metodi propri per mascherare tale forza,
ed un errore in questo senso può essere grave. Nella cultura italiana
(ma anche in molte culture orientali), l’ordine è accettato senza
discussione se viene da un superiore. In altre culture esprimere un
ordine come suggerimento o proposta è invece d’obbligo. Spesso sono
quindi gli italiani a non capire che I think you should... è in
realtà un ordine e non un consiglio...
f) Proporre sostituisce l’ordinare in molte culture (vedi
sopra); se la proposta segue quella dell’interlocutore ed è differente,
o addirittura contraria, è una variante dell’attaccare e può
condurre all’escalation. Nelle culture in cui l’attacco esplicito
è vietato, esso assume spesso la forma di una controproposta.
j) Cambiare argomento: può essere un escamotage
per togliersi da una situazione imbarazzante (ed è quindi una mossa
down) o per togliere l’interlocutore dai problemi (ed è una mossa
up), ma può essere anche aggressiva: la frase italiana “il problema
in realtà è un altro” viene poco gradita nelle culture straniere. I
russi, amanti della discussione diretta, vedono abbastanza male questa
mossa.
k) Ironizzare è una mossa rischiosissima perché ogni
cultura ha una sua nozione di ironia; le culture orientali e quelle
arabe rifiutano questa mossa, che in Italia può essere up, se
conferma la posizione di superiorità di un interlocutore che può
permettersi di essere ironico, o può essere down se serve per
togliersi da una situazione difficile con una battuta. Gli americani
ritengono l’ironia troppo “inglese” e non l’apprezzano, soprattutto in
situazioni di lavoro; anche i tedeschi sono restii ad accettare la
“presa in giro” all’italiana e sono poco ironici, soprattutto riguardo
alla politica e la vita pubblica, ritenendo che il concetto di Stato non
sia oggetto di ironia.
l) Interrompere: mossa frequente in Italia, dove è
spesso una forma di collaborazione con chi sta parlando, ma
assolutamente inaccettabile in quasi tutte le altre culture, che la
vivono come un attacco personale sgarbato.
m) Tacere di fronte a una domanda può essere up
oppure down a seconda che venga compiuta da chi domina o da chi
subisce l’andamento dello scambio comunicativo; in molte culture è
ritenuta una mancanza di civiltà e significa una resa senza condizioni.
n) Scusarsi è una mossa inutile per chi è up mentre
è tipica di chi è in posizione di inferiorità, anche se spesso serve a
parificare la relazione perché costringe l’interlocutore a smettere di
esercitare ironia, di recriminare, di mostrarsi superiore: le scuse
indicano un “punto a capo” dopo un errore, che viene in qualche modo
dimenticato.
Come si vede, quindi, sono le mosse
di attacco che rischiano di provocare incomprensione culturale e che
risultano delicate; ci sono poi mosse neutre in italiano che possono
essere viste come aggressive da stranieri, soprattutto se compiute con
il nostro tono di voce (considerato sempre “litigioso” dagli stranieri),
con il nostro accentuato gesticolare e la notevole vicinanza tra gli
interlocutori, che possono farci ritenere invadenti. Non sono tanto le
mosse in sé, quindi, a risultare fonte di errore, quanto il loro
accoppiarsi a peculiarità linguistiche e gestuali degli italiani.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
I dati presentati in questo provengono dal nostro volume
BALBONI, P. E. 1999
Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione
interculturale, Venezia, Marsilio.
I principali testi sul tema sono:
BRICK J. 1991, China: A Hanbook of Inter.Cultural Communication,
Sydney, NCELT&R.
BRISLIN R. et al. 1986, Intercultural Interactions: A Practical Guide,
Los Angeles, Sage.
HOFSTEDE G. 1991, Cultures and Organizations: Software of hte Mind,
Londra, McGraw-Hill England.
KNAPP K., W. ENNINGER, A. POTHOFF 1987, Analysing Inter-Cultural
Communication, Tubinga, Narr.
NALESSO DIANA M. (cur.) 1997, Cultural Awareness. Linguistic and
Cultural Training Towards Mobility in Europe, Trieste, IRRSAE Friuli
- EU Soctrates Programme.
OLESKY W. (cur.) 1989, Contrastive Pragmatics, Amsterdam,
Benjamins.
SCOLLON R., S. WONG SCOLLON 1995, Intercultural Communication: A
Discourse Approach, Cambridge, Blackwell.
TOMALIN B., S. STEMELSKY 1993, Cultural Awareness, Oxford, O.U.P.
VALDES J. M. (cur.) 1986, Culture Bound, Cambridge. C.U.P.
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Il fattore culturale
nell'insegnamento della lingua |
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Paola Celentin e Graziano
Serragiotto[1]
Questo intervento è diviso
in due parti: nella prima si definiscono le caratteristiche principali
che, a livello culturale, possono influenzare l'insegnamento di una
lingua; nella seconda parte ci sono degli esempi specifici per la lingua
italiana.
1. L’interculturalità nell’insegnamento della lingua
1.1. Il binomio lingua-cultura
Se parliamo di insegnamento di una lingua non ha senso parlare di
qualcosa di astratto: non significa imparare solo regole, costruzioni e
quindi non è solo lo strumento linguistico che deve interessare colui
che apprende. Una persona che possiede uno strumento linguistico deve
anche poterlo contestualizzare e quindi considerare la cultura dove tale
strumento è usato. Questo perché la lingua e la cultura si sono sempre
influenzate vicendevolmente. Quando pensiamo ad una lingua, pensiamo ad
uno strumento usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi
dietro c'è una cultura che fa da supporto a tale strumento.
Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza
considerare lo strumento linguistico. Una cultura viene ad essere
descritta attraverso di esso. Possiamo affermare che esiste un binomio
lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che
regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati
in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto stesso.
1.2. L'influenza della cultura sulla lingua e viceversa
Alcuni antropologi e sociologi, quando si parla dell'apprendimento di
una seconda lingua, parlano dell'effetto di una seconda cultura su tale
apprendimento. La lingua non è qualcosa di artificiale e quindi non ha
senso parlare di isolamento della lingua dalla cultura. Un'ovvia
influenza la si può vedere nel vocabolario: come afferma Boas, le parole
di una lingua sono adattate all'ambiente dove vengono usate. Basti
pensare alle numerose e varie parole per esprimere un certo fenomeno in
un Paese: per esempio un evento atmosferico come la pioggia in
Inghilterra o il colore bianco della neve presso gli Eschimesi. In
questo modo si capisce come la cultura abbia influenzato la lingua: un
determinato fenomeno culturale ha come risposta una varietà linguistica
per descriverlo. D'altra parte lo strumento linguistico influenza la
cultura: una certa varietà di parole serve a descrivere un determinato
fenomeno.
Questo è per far capire come chi si accinge ad imparare una lingua
diversa dalla propria debba imparare anche una cultura diversa, cioè ci
si deve rendere conto di una certa dipendenza dei due fattori e quindi
arrivare ad includere la cultura nello studio di una lingua.
1.3. Caratteristiche dell'acquisizione di una cultura
Il processo di acquisizione di una seconda cultura è stato studiato da
vari punti di vista. Da parte dell'apprendente avviene una sorta di
acculturazione, cioè un graduale adattamento ad un target culturale
senza però abbandonare o rinunciare all'identità della lingua nativa. Il
fattore più importante che influenza l'acculturazione è la "diversità" o
distanza sociale tra due culture (W.R. Acton and Judith Walker de
Felix, Acculturation and mind, in Valdes J.M., Culture Bound,
C.U.P., Cambridge, 1986).
L'acculturazione può comprendere diversi stadi a seconda delle esigenze
dell'apprendente: si può passare da un livello minimo di conoscenza di
base per scopi necessari (livello soglia), fino ad un livello di
parlante nativo dove la pronuncia e i gesti sono molto simili se non
uguali a quelli dei nativi.
E' importante sottolineare che a seconda dell'impatto della
lingua/cultura sugli studenti si hanno esiti diversi nell'apprendimento,
in base allo shock culturale subito a causa della diversità della
cultura proposta dalla propria.
Se gli studenti che imparano una seconda lingua hanno un orientamento
positivo verso la stessa o se il desiderio di essere parte del gruppo
che parla la lingua è molto alto, tale affettività può servire come
motivazione, addirittura, a seconda della professione (interesse
strumentale) possiamo avere diversi atteggiamenti (si pensi ai giorni
nostri come il francese venga discriminato perché ha perso quella
valenza o importanza che aveva nel mondo del lavoro).
L'acquisizione di una seconda lingua implica l'acquisizione di una
seconda cultura e questo per l'alto contenuto sociale della lingua. Per
interpretare meglio il fenomeno è bene soffermarsi sull'uso e il
significato di questi tre termini: acculturazione, shock culturale
e distanza sociale.
1.3.1. Acculturazione
L'acculturazione è il processo con cui una persona si adatta a una nuova
cultura. Possiamo affermare che il modo di pensare di una persona, di
agire e di comunicare differiscono e cambiano da una cultura all'altra.
Per tenere conto di questi fattori è necessario sottolineare il contesto
dove una lingua viene imparata, cioè se è una lingua seconda o una
lingua straniera. Si vengono a creare due presupposti:
a) imparare una lingua seconda in una cultura nativa dove la
lingua è sempre imparata in un contesto per capire le persone di
un'altra cultura;
b) imparare una lingua straniera in un contesto non naturale per
vari usi specifici (lavoro, turismo o altri interessi).
1.3.2. Shock Culturale
Lo shock culturale si riferisce a dei fenomeni che vanno da una semplice
irritabilità ad uno stato psicologico di panico o crisi. Tale shock è
più evidente nel contesto di una cultura nativa (lingua seconda), mentre
è minimo in un contesto non naturale (lingua straniera).
Lo shock culturale è associato a sentimenti di estraniamento, rabbia
ostilità, indecisione, frustrazione, tristezza per la lontananza da casa
da parte dello studente. Questo è dovuto alle differenze rispetto alla
propria cultura che spesso non vengono capite. Tali differenze possono
portare a repressione, regressione isolamento e rifiuto. si può vedere
come Douglas Brown (Brown D. H., Learning a second culture, in
Valdes J.M., Culture Bound, C.U.P., Cambridge, 1986 ) presenti
questo shock culturale come quattro successivi stadi di acculturazione.
Il primo stadio vede l'eccitazione e l'euforia da parte della persona
per le novità che ha trovato. Nel secondo stadio appare questo shock
culturale perché l'individuo sente l'intrusione di differenze più
culturali. Nel terzo stadio vediamo che alcuni problemi di
acculturazione sono risolti mentre altri persistono: la persona comincia
ad accettare le differenze nel pensare e nel sentire. Il quarto stadio
comporta o un'assimilazione o un adattamento, un'accettazione della
nuova cultura e una confidenza in sé, nella "nuova" persona che si è
sviluppata in questa cultura.
Gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale nel passaggio da uno stadio
all'altro: non devono forzare il passaggio, ma seguire cercando di
capire le sensazioni di frustrazione e di rabbia in modo da arrivare ad
una profonda e personale forma di apprendimento.
1.3.3. Distanza sociale
La distanza sociale si riferisce alla prossimità cognitiva e affettiva
di due culture che vengono a contatto in un individuo. Per distanza si
intende le differenze che esistono tra le due culture.
John Schuman (1976a) dice nella sua ricerca che più grande è la distanza
sociale tra due culture più forte è la difficoltà che l'apprendente
incontrerà nell'imparare una seconda lingua e viceversa, minore è la
distanza sociale, migliore sarà la situazione di apprendimento. Tale
distanza è difficile da misurare obiettivamente, si può arrivare ad una
percezione, comunque, l'importante è vedere la relazione tra distanza
sociale e l'acquisizione di una seconda lingua.
1.4. La cultura
nell'insegnamento linguistico
Alla base dell'analisi dell'interculturalità vi è la ricognizione di
come le due culture (quella del parlante e quella dell'apprendente)
siano simili e di come differiscano. Una simile analisi apre delle
possibilità per l'insegnante nell'approccio dell'insegnamento di una
seconda lingua. Bisogna stare attenti a non cadere nell'eccesso con gli
stereotipi, ma un'informazione generale può essere molto utile per
l'approccio, venendo a contatto con fattori culturali: in questo modo
l'esperienza dell'insegnare e l'insegnamento diventano entrambi più
piacevoli ed efficaci.
Per cultura si intende i modi che un popolo usa per esprimere se stesso,
i quali assumono forme diverse a seconda dei contesti e con
significati diversi a seconda del messaggio che si vuole
trasmettere.
E' necessario che ci sia una corretta informazione sui costumi e sugli
usi di un popolo, analizzando la distribuzione del fenomeno,
cercando di non dare degli stereotipi che potrebbero falsare
l'interpretazione, ma fornendo piuttosto dei "sociotipi" ( cfr. Balboni
P. E., Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione
interculturale, Venezia, ed. Marsilio, 1999), e cioè delle
caratterizzazioni che derivano da una generalizzazione razionale di
stereotipi empiricamente verificabili.
Per fare questo si devono tenere in debito conto anche gli aspetti non
verbali di una lingua, perché anch'essi fanno parte della cultura e
possono essere diversi a seconda delle popolazioni: il linguaggio del
corpo, la lingua oggetto, la lingua dell'ambiente.
Per linguaggio del corpo si intendono il movimento, la postura,
la gestualità, l'espressione del viso, lo sguardo, il toccare e la
distanza.
Per lingua oggetto si intendono i segni, i disegni, gli
artefatti, il vestiario e l'adornamento personale.
La lingua dell'ambiente è quella fatta di colori, luci,
architettura, spazio, direzioni ed elementi naturali che parlano
all'uomo della sua natura.
Ogni parlante nativo assimila delle esperienze sociali individuali
caratteristiche della propria cultura. Ogni società accumula delle
regole seconde le quali alcune considerazioni concrete sono interpretate
astrattamente e sono valide tra coloro che comunicano attraverso l'uso
comune della stessa lingua.
Tra le società con strutture socioeconomiche molto diverse, le
differenze interculturali giocano un ruolo significativo quando i membri
di una cultura imparano la lingua dell'altra.
L'approccio in classe, quindi, è importante: una volta stabiliti quali
valori e quali comportamenti devono essere insegnati, si deve vedere
come ciò debba essere fatto. Una volta che si è capito il legame tra
pensiero, cultura e lingua, assieme alla conoscenza delle differenze
culturali, distanze, somiglianze e come queste influenzino
l'apprendimento di una lingua, l'insegnante ha inserito la cultura nel
curriculum.
Per analizzare queste differenze culturali si possono usare vari metodi:
la comparazione, la creazione di situazioni o di simulazioni, il
chiarimento dei malintesi attraverso i giornali, i media o l'isola
classe. Si tratta quindi di fare più che di parlare di valori culturali,
fare secondo schemi diversi dalla propria cultura.
L'insegnante non deve tener conto solo della cultura che deve essere
appresa, ma anche della cultura del nativo, le difficoltà che lui
potrebbe avere, le problematiche che si trova ad affrontare, in modo che
l'insegnamento diventi proficuo attraverso l'aggancio alla vita normale.
Quello che è importante è che ci sia un contatto diretto fra l'ambiente
e l'insegnamento.
La persona che apprende dovrebbe avere il seguente atteggiamento (cfr.
Balboni, 1999):
• conoscere gli altri, quindi non basarsi
su stereotipi, ma entrare in diretto contatto con la nuova cultura;
• tollerare e rispettare le differenze, cioè rendersi conto che tali
differenze possono esistere, senza rinunciare al proprio modello
culturale
• accettare una varietà di modelli, nel senso che ognuno è il migliore
per quella cultura, ognuno è l'espressione di un popolo, arrivando a
quello che Freddi ha definito "relativismo culturale" (Freddi G.,
Didattica delle Lingue Moderne, Minerva Italica, 1985). Secondo questo
principio, non esiste una cultura migliore di un'altra, ma ognuna
rappresenta in modo completo un popolo.
Questo permetterà di
arrivare all'acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale
passando attraverso tre fasi (cfr. Balboni, 1999).
1. consapevolezza (l'essere coscienti che gli altri hanno un
diverso software mentale)
2. conoscenza (bisogna conoscere le altre culture per poter
interagire)
3. abilità (date dalla consapevolezza assieme alla conoscenza e
all'esperienza personale).
2. L'interculturalità nell'insegnamento dell'italiano
Come evidenziato nella prima parte di questo intervento, l'esistenza di
un insieme di valori culturali rende l'apprendimento di una lingua
straniera non un puro esercizio comunicativo, ma qualcosa che va ad
incidere sull'intera personalità dell'individuo e sulla sua stessa
natura. L'entrare in contatto con persone portatrici di valori culturali
diversi dai propri può mettere in crisi la persona e portarla ad una
chiusura mentale che irretisce anche l'apprendimento linguistico.
Al contrario, bisogna cercare di favorire uno sviluppo armonioso delle
competenze del learner, in modo tale da ampliare la sua capacità
di relazionare con l'altro.
2.1. Dalla teoria alla pratica: evitare gli stereotipi e
abbordare i sociotipi
Alla radice di questi problemi troviamo fondamentalmente una diversa
maniera di concepire i valori dell'esistenza (spazio, tempo, relazioni
umane, divinità…) che si articola in un sistema concettuale vasto e
complesso.
Non si può quindi evitare il problema riconoscendo le diversità ma
limitandosi ad una presa d'atto. Bisogna cercare di capire le
motivazioni che portano una certa cultura ad esprimersi in un modo
piuttosto che in un altro, studiando il suo vissuto e le sue radici. Ciò
non deve portare ad assimilare aprioristicamente tutte le manifestazioni
della realtà straniera, bensì a riflettere, confrontare e comprendere.
Dagli stereotipi bisogna dunque passare ai sociotipi, cioè delle analisi
che mettano in evidenza i tratti salienti di una cultura, cercando
ovviamente l'omogeneizzazione ma evitando l'appiattimento delle varietà.
2.2. Un esempio: difficoltà interculturali fra stranieri e
italiani
I problemi interculturali fra Italiani e stranieri sorgono quando questi
sono posti in contatto fra di loro da necessità "economiche" ben
precise: lavorare, fare acquisti, concludere trattative… Il turista
difficilmente si renderà conto del gap culturale che lo separa
dalla gente fra la quale si trova a trascorrere un periodo di vacanza,
in quanto i suoi bisogni primari vengono soddisfatti in modo quasi
"automatico". Laddove invece entrano in gioco valori più profondi, come
ad esempio la concezione del tempo e dell'onore in un rapporto
lavorativo, una scarsa coscienza culturale può portare ad incidenti
anche fatali.
Vediamo quindi quali sono i maggiori problemi che possono incontrare gli
stranieri che entrano in contatto con gli Italiani e a cosa siano
dovuti.
2.2.1. Il tono della voce
Normalmente gli Italiani adottano un tono della voce notevolmente
superiore a quello degli altri popoli; per questo due Italiani che si
stanno semplicemente scambiando delle formule di saluto o che stanno
conversando del più o del meno vengono spesso scambiati per due
litiganti. Nei rapporti internazionali questo fattore, legato al nostro
gesticolare vivace e alla nostra presunta aggressività, porta a pensare
che si sia in feroce disaccordo con il nostro interlocutore, mentre in
realtà si sta solo esponendo il proprio punto di vista.
La vicinanza
Gli Italiani, come in genere i popoli latini, sono abituati a tollerare
una distanza minima fra i corpi, e anche il contatto fisico (p.e. mano
sulla spalla) è abbastanza frequente. Questo crea problemi agli
stranieri abituati invece ad un maggior spazio vitale, come ad esempio i
popoli nordici. Quindi, quello che per un Italiano può essere un invito
a stringere dei legami più intimi o comunque più amichevoli può essere
letto da uno straniero come un'inutile invadenza.
Nei rapporti fra uomo e donna invece, quella che può essere la naturale
espansività italiana può venire interpretata, specialmente dai popoli
musulmani, come un segnale esplicito di interesse verso l'altra persona.
Ciò porta quindi a fraintendimenti e a spiacevoli "spiegazioni", che
vengono vissuti dall'altro come delle sconfitte e possono comportare un
arroccamento sulle proprie posizioni.
La gestualità
Caratteristica prettamente "latina" è la forte gestualità, che
accompagna, sottolinea, mima gran parte del discorso italiano. Questi
gesti, del tutto spontanei per noi, sono spesso incomprensibile per gli
stranieri, o possono dar luogo a fraintendimenti con gesti simili delle
altre culture. Purtroppo questa gestualità è anche difficile da
esplicitare a parole e solo frequenti contatti con la nostra civiltà
possono portare ad una comprensione non ambigua degli stessi.
La puntualità
In ambito internazionale l'Italiano gode fama di persona poco puntuale o
che comunque non è molto affidabile da questo punto di vista. In realtà,
gli Italiani tollerano un ritardo che rimane nell'arco del quarto d'ora;
anzi, in questo spazio di tempo non è nemmeno considerato ritardo.
Altri popoli valutano invece la puntualità in modo completamente
diverso. I popoli nordici sono molto più ligi nel rispettare gli
appuntamenti dati, e considerano prova di scarsa serietà anche qualche
minuto di ritardo; gli slavi, e specialmente i Russi, tollerano (ed
applicano) ritardi anche di mezz'ora o tre quarti d'ora. Questo dipende
anche dal fatto che nelle grandi città (come Mosca appunto) l'arrivo in
orario non è legato tanto alla volontà personale, quanto alle condizioni
del traffico e all'affollamento dei mezzi pubblici. Inoltre, l'attesa è
considerato un elemento necessario di qualsiasi trattativa economica;
qualche ora di anticamera è da mettere sempre in preventivo.
La flessibilità
Per noi Italiani il fatto che una riunione abbia un ordine del giorno è
un elemento utile ma non indispensabile: anche se poi si passerà la
maggior parte del tempo a discutere di tutt'altro, ugualmente si lascerà
la seduta convinti di aver impegnato utilmente la propria giornata,
risolvendo problemi che comunque andavano affrontati, anche se non erano
indicati nella scaletta. Al contrario, persone provenienti da tutt'altro
retroterra culturale possono trovare un procedimento del genere
enormemente irritante e provocatorio, in quanto comporta una perdita di
tempo e una mancanza di rispetto verso le persone che hanno stilato
l'elenco degli argomenti da trattare.
Inoltre, il nostro "escamotage" per coprire queste massicce digressioni
(vale a dire il punto "varie ed eventuali") non è molto apprezzato
all'estero, o meglio, non è compreso; viene letto dagli stranieri come
l'ennesima riprova della nostra mancanza di serietà nell'affrontare
problemi e trattative, lasciando ampio spazio all'improvvisazione.
I dialetti e le flessioni
dialettali
Gli Italiani, anche se ovviamente raramente se ne accorgono, danno alla
loro parlata coloriture e accenti locali, che possiamo, a grandi linee,
dividere in settentrionali, centrali e meridionali. Gli stranieri che
studiano l'italiano (specialmente ai primi livelli) sono abituati ad una
flessione più di tipo centro-settentrionale e sono quindi messi in crisi
da pronunce o parole che si discostano notevolmente da quanto da loro
appreso in patria. Questo problema, ovviamente, si presenta un po' per
tutte le lingue, ma in Italia rasenta la vera e propria incomprensione,
specialmente quando si raggiungono alti livelli di elocuzione.
Argomenti taboo
Ci sono degli argomenti che sono taboo quasi in tutte le culture (sesso,
morte, funzioni corporali…), quello che differisce è il loro livello di
"impraticabilità". In Italia non sono minimamente tollerati, in ambiente
formale, i discorsi che riguardano il denaro, lo stipendio, le entrate
di vario tipo e men che meno quelli che toccano l'argomento "tasse".
Altri Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, considerano del tutto
normale parlare a tavola del proprio reddito, facendone anzi elemento di
vanto.
Altro elemento che tendenzialmente si minimizza è la posizione
gerarchica o comunque i rapporti di potere all'interno di un gruppo di
lavoro. Questo può spiazzare ad esempio un Giapponese, abituato invece
ad un preciso ordine gerarchico a cui fare riferimento per stabilire i
suoi legami lavorativi e sociali.
In Italia invece l'argomento sesso è affrontato quasi subito
(specialmente negli ambienti a netta prevalenza maschile) in maniera
abbastanza esplicita e diretta, soprattutto da un punto di vista
scherzoso. Questa nostra "facilità" può essere interpretata da uno
straniero come un pensiero fisso del popolo italiano, o comunque una
faccenda prioritaria nell'impostare qualunque relazione, creando così
problemi di comunicazione, specialmente quando nel gruppo si introduce
una donna. Inoltre bisogna tener presente che molti dei nostri giochi di
parole a questo proposito (come ad esempio tutte le frasi con
complemento oggetto maschile singolare esplicitato da un pronome) sono
difficilmente comprensibili da uno straniero, che quindi può
interpretare le nostre risate come un motteggio nei suoi confronti.
Lo status
Gli elementi che individuano lo status di una persona cambiano da Paese
a Paese e sono uno dei segnali più difficili da interpretare per chi
proviene dall'estero. Oltretutto la loro evoluzione, specialmente negli
ultimi tempi, è talmente rapida, da mettere spesso in crisi anche gli
stessi indigeni. Ad esempio, fino a poco tempo fa lo squillo del
cellulare contraddistingueva le persone che occupano una posizione di
rilievo o che comunque hanno un incarico di responsabilità. Ora invece,
vista la diffusione di massa dell'oggetto, le persone veramente "up"
spengono il telefonino nei luoghi pubblici, o comunque laddove potrebbe
disturbare gli altri, lasciando che a farlo suonare siano i meno
"evoluti" da un punto di vista sociale.
Altro elemento indicatore dello status di una donna rimane comunque la
pelliccia, anche se le battaglie ecologiche e animaliste degli ultimi
tempi hanno portato ad un'interpretazione "politica" anche di questo
capo d'abbigliamento.
Nell'ambiente giovanile, le marche del vestiario rimangono in ogni caso
i segnali più precisi dello status rappresentato, anche se si assiste ad
una sempre più evidente omogeneizzazione.
Infine, per un Italiano, il segnale più visibile del suo status rimane
comunque la macchina, o meglio, le macchine. Il possederne una, o più di
una, di grossa cilindrata indica lo stato di benessere goduto dalla
famiglia in questione, non solo per il prezzo dell'autovettura, ma
soprattutto per le spese connesse con il suo mantenimento (bollo,
assicurazione, carburante,…).
La frequentazione di certi luoghi piuttosto che di altri (bar,
ristoranti, palestre, discoteche, scuole…) indica particolari
appartenenze sociali e elitarie, ma si tratta di vere e proprie "mappe"
difficilmente decifrabili da uno straniero, se non dopo un lungo periodo
di permanenza nello stesso posto, frequentando persone di varia
estrazione.
Il tempo (policronico e
monocronico)
Un Italiano "in gamba" è quello che riesce ad occupare il suo tempo con
le più diverse attività, sia nell'ambito lavorativo che in quello
sociale-ricreativo. Il fatto di non riuscire ad occuparsi di più di una
cosa alla volta è indice di scarsa elasticità mentale e flessibilità,
dote fondamentale per un Italiano, che si trova spesso a doversi
confrontare con repentini cambiamenti politici, economici e anche
climatici. Questa gestione del tempo è detta "policronica" e non sempre
è compresa ed apprezzata da uno straniero.
Specialmente i popoli germanici vedono in questa nostra organizzazione
un caos totale, che non può portare a niente di buono: una scansione
regolare degli impegni, oltre che una rigida divisione degli stessi fra
persone con competenze diverse è la loro maniera di gestire lavoro e
vita in generale e si capisce quindi come questo comporti
inevitabilmente dei conflitti con lo standard italiano.
Lo spazio (gestione degli spazi)
L'Italiano (in maniera contraria a quanto fatto con il tempo) è portato
a suddividere gli spazi in maniera molto rigorosa. Questa è una tendenza
più moderna che altro, in quanto, fino a non molto tempo fa (secondo
anteguerra), la popolazione era ancora prevalentemente distribuita in
piccoli centri rurali, dove le terre erano lavorate spesso in comune e
dove i confini erano tramandati solo oralmente. Gli stessi attrezzi di
lavoro erano utilizzati da più famiglie a rotazione. La relativamente
recente "inurbazione" e quindi la necessità di vivere molto più a
stretto contatto con il prossimo ha portato a una chiusura personale e a
una netta divisione delle zone di competenza.
L'Italiano è molto socievole e aperto quando è lui a scegliere con chi
esserlo, mentre reagisce in modo diametralmente opposto quando è
obbligato ad entrare in contatto con il prossimo e a condividere questa
intimità forzata.
Anche nell'ambiente di lavoro il fatto di avere un ufficio per conto
proprio indica un avanzamento in grado e quindi è molto ambito.
L'Italiano tende poi a personalizzare questo spazio, con quadri,
oggetti, foto …. In casa ognuno ricava il proprio ambiente; i bambini
più fortunati sono quelli che possono contare su una propria cameretta e
ad una certa età è quasi obbligatorio avere la propria stanza per farne
quello che si vuole.
Questo fenomeno ha conseguenze però anche negative, perché lo spazio
pubblico viene considerato spazio di nessuno, e quindi un terreno in cui
tutto è lecito. Questo non è minimamente compreso da Svizzeri, Austriaci
o Tedeschi, che considerano invece lo spazio pubblico come qualcosa "di
tutti", da rispettare quindi ancor di più dello spazio proprio.
Espressività del volto
L'Italiano spesso esprime le proprie impressioni e sensazioni più con il
viso che con le parole, attraverso una mimica facciale molto articolata.
Frequentemente, infatti, facendo il resoconto del dialogo avuto con una
persona ci troviamo a dire: "E poi ha fatto una faccia, come a dire…".
Per noi è quindi del tutto usuale lasciar trasparire in questo modo il
nostro pensiero, convinti che ciò sia indice di sincerità. Non funziona
sempre così presso gli altri popoli, come ad esempio i Giapponesi, la
cui rigida maschera facciale è una vera e propria necessità sociale.
Difficile per loro quindi non solo interpretare i nostri segnali ma
anche capirne la necessità, visto che esistono le parole per comunicare
meglio e in maniera meno suscettibile di fraintendimenti la stessa cosa.
Struttura del testo (divagazione
italiana)
Il discorso italiano è sempre costellato da distinguo, precisazioni,
digressioni, parentesi, ecc.… A noi sembra quanto meno poco
"scenografico" cominciare subito con il nocciolo del discorso: e dopo
cosa diciamo? Inoltre, ci pare che senza un adeguato corredo di esempi
il nostro interlocutore non debba capire quale è il nostro vero intento.
L'Italiano dà molta importanza alle sfumature e pretende che esse siano
tutte colte e apprezzate dall'altro.
Totalmente diversa è invece la maniera di organizzare il discorso (sia
orale che scritto) presso altri popoli. I Francesi infatti procedono per
ragionamenti logici molto serrati, gli Anglosassoni amano esporre
innanzitutto il "subject", ricorrendo poi a precisazioni solo se si
rende necessario. Ciò può creare problemi nella conversazione o nei
rapporti di lavoro: l'esposizione italiana può sembrare fumosa e
inconcludente, mentre a noi quella straniera può sembrare stringata e
troppo poco dettagliata.
Interrompere
Per un Italiano è normale, durante una conversazione, un dibattito, una
tavola rotonda, interrompere la persona che sta parlando, magari anche
solo per confermare il proprio accordo con quanto va affermando. Anzi,
spesso chi parla cerca approvazione nell'interlocutore per continuare il
proprio discorso, magari anche con un semplice "mhmh" oppure "è vero",
"certo".
Tuttavia, oltre a noi, solo gli Spagnoli tollerano questo genere di
intromissione. Per tutti gli altri popoli si tratta di una mancanza di
rispetto e di un'invasione dello spazio altrui, quindi si bloccano e
continuano con difficoltà il loro discorso. Un Italiano a volte può
interpretare un intercalare (come ad esempio, "isn't it" degli Inglesi)
come una richiesta di conferma, e quindi rispondere ( "Yes, it is!")
mentre invece l'altro non si aspettava assolutamente alcun cenno, e
interrompe la sua battuta. Si crea quindi un meccanismo di conflitto
culturale di cui le persone non sono assolutamente consce e che imputano
ad una mancanza di educazione dell'altro.
Il silenzio (gli Italiani non lo
tollerano)
L'Italiano deve sempre parlare, magari anche solo del più e del meno, ma
deve sempre riempire il silenzio, difficilmente lo tollera al di fuori
dei casi in cui è strettamente necessario (lavoro, studio, cinema,…). Ad
esempio, durante un pasto in compagnia, è obbligatorio intavolare una
conversazione più o meno allegra con i propri commensali, evitando di
parlare di lavoro e cercando così di stringere dei rapporti più intimi.
Al contrario, altri popoli reputano che la condizione di "anormalità"
sia il parlare, e che quindi una volta cessata la causa per la quale si
era resa obbligatorio la conversazione, ci si dedica altro, o
semplicemente si continua a fare in silenzio ciò che si era iniziato. Un
Russo converserà con voi amabilmente se siete seduti davanti a un bel
bicchiere di tè e fuori scende la neve, ma sicuramente non si dilungherà
in convenevoli se state facendo la coda per il latte: un attimo di
distrazione può comportare la perdita della posizione acquisita.
Il cibo e l'alcol
Per un Italiano il momento conviviale di maggior prestigio è il pasto,
in quanto il cibo è fonte di piacere. La tradizionale buona cucina
italiana, apprezzata in tutto il mondo, è qualcosa di cui un Italiano va
fiero, specialmente perché si accompagna ad un'atmosfera festosa e
amichevole. A differenza di altre culture, in cui il piacere maggiore è
dato dal consumo di alcool che accompagna il pasto conviviale (vedi i
popoli Nordici o Statunitensi, ad esempio), l'Italiano ritiene che sia
il cibo l'elemento prioritario, e quando ha ospiti stranieri, ci tiene a
far loro apprezzare le specialità del luogo.
Il forte significato attribuito al cibo e di conseguenza al pasto porta
l'Italiano a scandire la sua giornata in base ai pasti da consumare e ai
relativi "tempi" considerati ottimali per il loro consumo. Solo più di
recente, la distribuzione del lavoro in turni nelle fabbriche ha portato
a rompere questa scansione rituale del tempo.
Questa organizzazione della giornata può creare conflitto con altri
popoli, abituati magari a consumare un'abbondante colazione, ma a
saltare o quasi il pranzo, oppure che non dedicano sufficiente
attenzione alla qualità del cibo che consumano (come ad esempio i
Giapponesi).
La famiglia
L'Italiano viene spesso considerato dagli altri popoli un "mammone"
perché rimane legato alla sua famiglia d'origine per tutta la vita in
maniera anche abbastanza consistente. L'età media dell'abbandono del
nido da parte dei giovani corrisponde grossomodo con quella del
matrimonio; solo per motivi di lavoro, di studio o per conflitti
interni, un ragazzo sceglie di andare a vivere per conto proprio prima.
Questa realtà non è invece condivisa da altre culture, come ad esempio
quella tedesca, dove l'indipendenza e l'autonomia della prole sono
stimolate dai genitori stessi. L'Italiano viene visto come una persona
poco sicura, che matura lentamente e che ha sempre bisogno della
convalida di almeno altre due persone per decidere cosa fare.
2.3. Come affrontare il problema
La situazione analizzata in precedenza è abbastanza complessa e
variegata e ci fa capire come atteggiamenti e valori per noi del tutto
"normali" non sono considerati alla stessa stregua dagli altri popoli.
Si rende quindi necessario uno studio approfondito delle realtà "altre"
rispetto alla nostra, prendendo in considerazione non solo le diversità
linguistiche ma anche quelle culturali, religiose, economiche,
spirituali, ecc. e riflettendo sul fatto che parlare un'altra lingua non
significa tradurre il significato di un discorso, ma arrivare veramente
a pensare secondo i parametri di un'altra cultura.
Questo però non deve portare ad un'omogeneizzazione della cultura o,
peggio, all'assunzione acritica dei valori di un altro popolo: ci sono
degli elementi che vanno al di là della semplice tolleranza e che
mettono in gioco il nostro credo religioso e la nostra morale e che
quindi non possono essere accettati se non rinnegando le nostre origini.
Le nostre origini invece vanno tutelate e difese, in quanto sono un
patrimonio unico e irripetibile tramandatoci direttamente dai nostri avi
e che fanno di noi quello che siamo.
In realtà, quello che vogliamo promuovere, è una maggiore
sensibilizzazione ai problemi legati ai rapporti interculturali e una
formazione alla tolleranza delle diversità; creare un clima di dialogo e
di apertura, che porti al confronto e all'arricchimento reciproco. Solo
in questo senso può essere intesa una reale globalizzazione della
cultura: non una perdita di valori, ma un'acquisizione di strumenti e
mezzi per osservare la realtà in maniera produttiva. Non da spettatori
ma da attori di questo vasto scenario mondiale in continua evoluzione.
Scopo dell'educazione linguistica deve quindi essere anche quello di
dotare l'allievo delle conoscenze adeguate ad un'analisi approfondita
del tessuto sociale in cui si troverà ad operare. Quindi schemi
d'interpretazione, parametri, strutture concettuali per affrontare
l'altro e il diverso in maniera critica e costruttiva. I benefici di un
tale approccio riguardano non solo la competenza linguistica, ma
ricadono sull'intera personalità.
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1 Pur concepito insieme dai
due autori, la stesura della prima parte (“L’inteculturalità
nell’insegnamento della lingua”) è opera di Graziano Serragiotto, quella
della seconda parte (“L’interculturalità nell’insegnamento
dell’italiano”) è opera di Paola Celentin
Canzoni ed insegnamento di una
lingua straniera: aspetti comunicativi |
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|
di Maria Paola Nicosia
Canzoni si o canzoni no nella lezione di lingua straniera? Strumenti
efficaci e validi o semplici momenti di svago da offrire agli studenti
per liberare la mente da ogni pensiero? Vent’anni fa la risposta a
questi quesiti propendeva, senza alcun dubbio, per una soluzione
negativa del problema che, in tal modo, cessava subito di essere tale,
lasciando sopito tutto quel ricco potenziale insito nelle canzoni. Esso
è stato poi fortunatamente recuperato e sempre più valorizzato grazie ad
un nuovo approccio sviluppatosi in seguito all’affermarsi di nuove
scienze, quali l’etnografia della comunicazione e la linguistica
testuale. In base ad esse, la canzone è diventata un vero e proprio
”genere comunicativo” che chiama in gioco tutta una serie di componenti
che ne mutano e rivalutano l’utilizzo nel campo dell’insegnamento delle
lingue straniere.
Questa nuova prospettiva evidenzia come la canzone, nel momento in cui
viene proposta, attivi un processo specifico in cui il messaggio poetico
viene simultaneamente trasmesso da un locutore e ricevuto da un
destinatario. In altre parole, il momento dell’esecuzione viene visto
come fondato su questo stretto scambio di apporti tra un Io parlante ed
un Tu che ascolta.
A tale proposito alcuni autori sottolineano come l’interprete, per mezzo
di vari elementi verbali ed extra-linguistici, porga all’ascoltatore dei
veri e propri stimoli che lo mettono in grado di giungere alla
comprensione del testo. In altre parole, l’interpretazione di una stessa
canzone può variare per scelte diverse da parte dell’interprete quali,
ad esempio, il bisogno di adattare il testo alla propria personale
esperienza o al contesto sociale in cui vive oppure per propria volontà
di non ripetersi o ancora per venire in contro alle aspettative del
pubblico.
Tutto ciò può tradursi concretamente in un cambiamento dell’esecuzione
vocale, della melodia che, ad esempio, può cambiare se la canzone viene
portata in un altro paese e, non ultimo, si può manifestare in veri e
propri cambiamenti nel vocabolario e nella sintassi del testo. Questi
ultimi possono essere determinati dal desiderio di adattare una canzone
ad un contesto specifico nel quale l’esecuzione ha luogo, dalla
necessita di rimuovere difficoltà semantiche che di solito si presentano
nelle canzoni tradizionali oppure dalla necessita di recuperare ritmi e
suoni che si sono alterati nel tempo.
Per influenza di tutti questi fattori il testo, che costituisce di per
sé un qualcosa di astratto, perde la propria astrattezza e svela il
proprio carattere di flessibilità che può essere percepita in ogni
singola esecuzione creando, di volta in volta, un effetto diverso
nell’ascoltatore. Da parte sua quest’ultimo riveste un ruolo che
contribuisce non meno di quello dell’interprete a costituire
l’esecuzione, egli fa parte dell’esecuzione e giunge alla comprensione
del messaggio trasmessogli non solo grazie ai molteplici input
fornitegli dall’interprete, ma anche guidato dal proprio mondo, dalla
propria esperienza dotando la canzone di un ulteriore personale
significato aggiuntivo. Questo fattore sembra essere confermato dalla
constatazione che nella maggior parte delle canzoni moderne si manifesta
la totale assenza di interlocutori specifici ed identificabili, mentre è
evidente l’alto uso del pronome personale di prima persona singolare.
Esso viene reso dall’esecuzione abbastanza ambiguo da attenuarne il
valore referenziale nella mente dell’ascoltatore che non lo percepisce
come completamente appartenente al locutore.
Ecco che allora le parole diventano sufficientemente impersonali da far
sì che ogni ascoltatore le avverta come proprie, come espressione della
propria esperienza.
Questa particolare personale appropriazione da parte dell’ascoltatore
viene poi facilitata e sostenuta anche da altre caratteristiche presenti
nelle canzoni quali: l’alto uso di verbi senza persona espressa che,
apparentemente sono in prima persona, e l’alto uso del presente
semplice, che sembra agire disancorato dal tempo. Questo fa si che una
canzone divenga presente ogni volta ed ovunque la si ascolti.
In considerazione di questi aspetti Murphey (1990), la cui opera
rappresenta uno degli studi più attenti e validi sul ”discorso delle
canzoni”, ritrova una certa affinità tra il genere canzone e la
conversazione di ogni giorno, ma nello stesso tempo, puntualizza come le
canzoni non possono essere viste come conversazioni nel vero e proprio
senso della parola. Esse posseggono una qualità pseudo-dialogica poiché
noi abbiamo accesso solo ad una parte della conversazione, sembrano
mirare a descrivere sogni idealizzati o pure intenzioni nell’agire,
mentre questo accade in misura minore nella conversazione ed infine si
presenta in esse la mancanza di precisi referenti di luogo e tempo che
stimola un’interpretazione degli stessi da parte dell’ascoltatore
influenzata dalla propria situazione d’ascolto per cui vengono
identificati con il qui e l’ora della situazione di enunciazione.
Per quel che riguarda le procedure attivate dall’ascoltatore nel
processo di percezione ed interpretazione di una canzone, egli è aiutato
da alcune componenti della stessa quali la melodia, la rima, la
ripetizione e la ridondanza.
In riferimento al primo elemento, pur nel riconoscimento della
differenza tra linguaggio parlato e linguaggio cantato, tra modello
intonativo del primo, che consiste in un complesso sistema di suoni che
fluttuano costantemente dall’alto al basso a seconda delle
caratteristiche individuali e delle personali sensazioni, e la curva
melodica del secondo, che segue uno sviluppo graduale rappresentato
dalle note musicali, una somiglianza tra i due sistemi può comunque
essere trovata. Un’intonazione ascendente nel linguaggio parlato indica
un incremento d’enfasi e spesso corrisponde con una curva melodica
ascendente nella canzone che annuncia l’approssimarsi di un punto
cruciale che l’ascoltatore deve ricordare per comprendere il testo.
La rima poi dimostra essere un altro strumento utile nell’aiutare
l’ascoltatore a riconoscere ciò che è più importante per la sua
comprensione di una canzone. A tal proposito la Licari (1983), la cui
opera costituisce un’altra seria indagine sulla natura delle canzoni
come genere comunicativo, ricorda che nella procedura di congiungimento
di un testo con una melodia, i tempi forti e le note lunghe possono
essere usati per mettere in evidenza certe parti del testo.
L’ascoltatore ode queste parti per prime e le ricorda più a lungo.
Le parole in rima possono anch’esse essere enfatizzate in questo modo e
vengono a costituire uno schema guida che aiuta l’ascoltatore nella
comprensione della canzone e ne riassume il messaggio. L’uso del
ritornello che caratterizza molte canzoni costituisce poi un altro
prezioso aiuto per l’ascoltatore. Vi può essere una ripetizione di una
sola frase oppure di due o quattro identiche frasi alla fine di una
strofa. Queste parti ripetute sono chiamate forti poiché catturano
facilmente l’attenzione e danno una sintesi del messaggio della canzone.
Di conseguenza, sin dal primo ascolto, è possibile avere una
comprensione globale del testo considerato il fatto che questo non fa
altro che ampliare quanto espresso in forma concisa nel ritornello.
La ridondanza svolge infine anch’essa un ruolo molto importante nella
conversazione ed in particolar modo nelle canzoni. Essa consiste in
tutto quel complesso di informazioni che ci vengono fornite dalla
situazione o dagli altri codici extra e para linguistici che
sottolineano le parti rilevanti del discorso del locutore cosicché
l’ascoltatore può cogliere degli spunti al fine di elaborare le proprie
ipotesi anche sugli altri segmenti del discorso.
Ascoltatore presente ed attento dunque dovrà rivelarsi colui che intenda
cogliere il vero significato di una canzone, al quale si richiederà
comunque non solo un’approfondita analisi delle scelte verbali e
musicali sopracitate o dell’interpretazione della canzone da parte del
cantante, ma anche un recupero della dimensione storica e sociale delle
canzoni, aspetti che possono davvero rivelarsi fondamentali per
garantirgli, insieme alle altre componenti, pieno successo nel proprio
compito.
Ed è proprio nel riconoscimento attuato dal nuovo approccio comunicativo
dell’importanza di tutte queste dinamiche presenti nel mutuo scambio tra
cantante ed ascoltatore attivo che ritroviamo la chiave per una
rivalutazione della canzone in campo glottodidattico, in termini di
accentuazione delle capacita di comprensione e produzione orali dei
nostri ascoltatori, gli ”alunni”.
Riferimenti bibliografici:
MURPHEY T, (1990), Song and Music in Language Learning: An analysis
of pop song and music in teaching English to speakers of other languages,
tesi non pubblicata, cortesia dell’autore.
LICARi A. (1983), Forme d’Ascolto e d’Interpretazione nella Moderna
Canzone Francese, Bologna, CLUEB.
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Dalla competenza comunicativa alla
competenza comunicativa interculturale |
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(pubblicato in Babylonia2/1996. 46 -52).
Daniela Zorzi
Università di Bologna
La crescente presenza nella scuola italiana di bambini e adolescenti
stranieri, per lo più immigrati o profughi, mette sempre più in crisi il
modello monoculturale e monolinguistico che propone la scuola italiana.
Modello già storicamente improponibile (anche se a volte proposto) nelle
zone di bilinguismo sociale e già fortemente messo in discussione negli
ultimi trent'anni, quando, in conseguenza della mobilità interna, i
contatti fra culture regionali e dialetti diversi si sono fatti sempre
più frequenti ed è diventato palese, anche alla scuola, che per molti
bambini l'italiano era, citando De Mauro, la prima delle lingue
straniere. Nel microcosmo della classe, la reazione dell'insegnante ora
come allora è sempre la stessa: mi hanno dato un bambino calabrese,
napoletano, marocchino, cinese .... non sa l'italiano e io non so che
cosa fare. Al di là del fatto che sotto la frase "non sa l'italiano" si
nasconde un'infinita varietà di situazioni, in termini di conoscenze e
capacità linguistiche - che va dal non saper dire buongiorno al non
saper riconoscere una subordinata di terzo grado in dipendenza da un
tempo storico -, ciò di cui si lamenta l'insegnante è l'inadeguatezza
della competenza del bambino "altro" in relazione a quanto richiede la
scuola. In realtà il problema linguistico era ed è la punta di un
iceberg: sicuramente è uno degli elementi che turba maggiormente
l'equilibrio della classe e incide nell'accettare o meno un ragazzo, ma
molto spesso l'insufficienza linguistica, facilmente documentabile in
relazione alla competenza del ragazzo autoctono monolingue, è
un'etichetta di comodo per coprire il disagio che sia l'insegnante sia
gli altri ragazzi provano davanti a comportamenti, abitudini, modi di
parlare o di tacere, modi e tempi di reazione che si discostano a quelli
del gruppo maggioritario. Di ciò, e le esperienze di moltissimi paesi
con storie di immigrazione molto più forti e più antiche della nostra lo
confermano, non sempre si è consapevoli, quindi si cerca quasi
esclusivamente di coprire il deficit linguistico, o tutt'al più quello
relativo ai contenuti disciplinari del nostro sistema di istruzione.
Anche questa operazione, però, nel nostro contesto privo di una forte
tradizione dell'insegnamento dell'italiano come lingua seconda, risulta
difficoltosa: non si sa chi possa farlo (l'insegnante di lettere? la
maestra? l'insegnante di sostegno? un interprete bilingue? per citare
solo alcune modalità sperimentate in Italia), con quali competenze, in
quali momenti e in relazione a quale programma di base.
Se questa, appena tratteggiata, è la situazione più comune in
cui si trova (spesso da un momento all'altro) l'insegnante a cui capita
in classe un bambino straniero, e se - come è prevedibile dato
l'andamento della migrazione straniera in Italia - il numero dei bambini
stranieri tenderà a crescere, allora è ragionevole, oltre e al di là di
ogni valutazione morale, cominciare a pensare a una pedagogia che
preveda un'utenza multiculturale.
In questa sede, vorrei vedere come il concetto di competenza
comunicativa, su cui in maniera più o meno esplicita si è fondato negli
ultimi 15 anni anche in Italia l'insegnamento delle lingue straniere e
della lingua materna nella cornice dell'educazione linguistica, possa
essere interpretato e attuato nella pratica didattica in modo da
diventare uno strumento efficace in contesti in cui due o più culture
devono convivere. Il mio contributo rientra nell'ambito della pedagogia
interculturale, intesa come un atteggiamento e un punto di vista: non
intende proporre contenuti specifici, ma si traduce in un modo di
rapportarsi alla diversità, vista come risorsa per lo sviluppo di un
gruppo misto. Questo atteggiamento è caratterizzato, innanzi tutto, da
un aggiustamento reciproco fra le varie parti: non deve, cioè, essere
solo lo 'straniero' ad adeguarsi al modello della cultura ospite, ma
anche gli 'autoctoni' devono rinegoziare i loro valori e le loro
certezze, cercando di identificare i comportamenti che portano
all'esclusione (volontaria o coatta) dell'estraneo.
1. Sulla competenza comunicativa
Nell'ambito dell'insegnamento linguistico, si è passati da un
prevalente, se non esclusivo, interesse per la forma della lingua a un
prevalente interesse per l'uso, interesse quest'ultimo che pervade, in
varia misura e con diverse modalità, tutti gli approcci definiti
comunicativi. L'elemento che accomuna questi approcci è l'aspirazione a
far sì che l'apprendente sviluppi la competenza
comunicativa. Questa include la conoscenza del sistema
linguistico (cioè sapere se o in che misura qualcosa è formalmente
possibile all'interno di una data lingua), ma non si limita ad essa, in
quanto la competenza puramente linguistica
circoscrive la descrizione a un
parlante-ascoltatore 'ideale'; che conosce 'perfettamente' la
propria lingua; che non è sottoposto ai 'condizionamenti' di
ordine psicologico e sociologico nell'applicazione delle proprie
conoscenze ai fini dell'esecuzione; che appartiene, infine, a una
comunità linguistica 'omogenea'.
(Zuanelli Sonino, 1981: 40). |
Per formare una competenza comunicativa, concorrono, quindi, altre
componenenti: la conoscenza psicolinguistica (sapere se o in che misura
qualcosa è fattibile in virtù dei mezzi di implementazione di cui si
dispone, cioè in virtù della capacità dei parlanti di trasformare una
realtà mentale (il significato) in una realtà sociale ai fini della
comprensione (Zuanelli Sonino, 1981: 68)); la conoscenza socioculturale
(se e in che misura qualcosa è appropriato in relazione al contesto in
cui è usato e valutato); la conoscenza de facto, (sapere se e in
che misura qualcosa è di fatto realizzato dalla comunità parlante quella
lingua, e non soltanto possibile). La competenza comunicativa non solo
richiede che il parlante abbia queste conoscenze, ma anche che sviluppi
l'abilità d'usarle (Hymes, 1971).
Da questi principi teorici generali - che nascono all'interno
di una teoria sociolinguistica dell'uso linguistico, senza un originario
interesse per la pedagogia delle lingue - sono derivati, come si diceva,
i vari approcci didattici di tipo comunicativo. Questi hanno messo
l'accento su vari aspetti della comunicazione: alcuni hanno privilegiato
il "che cosa è adatto dire in una certa situazione", e quindi quali sono
le realizzazioni linguistiche che si ritengono più comuni o più usate
per esprimere "nozioni" (ad es. spazio, tempo, quantità ecc.) e
"funzioni" (ad es. chiedere e dare informazioni, presentarsi, accettare,
rifiutare ecc.). Altri hanno messo l'accento sul contesto
d'apprendimento: in particolare sulla relazione fra il compito cognitivo
da svolgere (ad es. trovare argomentazioni convincenti affinché X faccia
Y), il gruppo dei partecipanti (come i partecipanti al gruppo devono
negoziare rapporti e informazioni per accordarsi su quali sono
argomentazioni davvero convincenti) e gli elementi linguistici necessari
per portare a termine il compito assegnato. Altri, ancora, hanno messo
l'accento sullo studente come individuo, riconoscendo a ciascuno la
propria specificità e quindi offrendo percorsi di apprendimento
differenziati, fra i quali il singolo studente può scegliere quello più
adatto alle proprie capacità, alle proprie inclinazioni e ai propri
obiettivi.
Caratteristica comune a tutti questi approcci è l'attenzione
per lo studente più che per la struttura della lingua da insegnare. In
momenti e in modi diversi ci si è occupati dei bisogni dello studente,
cercando di identificare quali sono i suoi obiettivi e di quali
strumenti ha bisogno per interagire linguisticamente con la cultura con
cui vuole/deve essere a contatto: quali nozioni e quali funzioni
linguistiche gli sono più utili per i suoi scopi, quali strategie di
comunicazione deve conoscere e attivare per avere incontri
soddisfacenti, quali atteggiamenti deve assumere per avvicinarsi al
parlante nativo. Questi è considerato il modello per
eccellenza, il punto d'arrivo, mitico e frustrante allo stesso
tempo, perchè mai raggiungibile, di tutto il percorso pedagogico.
L'attenzione per il soggetto apprendente ha avuto l'indiscutibile
vantaggio di sviluppare una serie di studi sia sull'apprendimento
(motivazione, stili d'apprendimento, memoria, preferenze rispetto a
tecniche e contenuti, personalità ecc.) sia sull'uso sociale del
linguaggio, cioè come l'apprendente negozia verbalmente informazioni e
relazioni con gli altri partecipanti del gruppo tramite la lingua che
sta imparando. Questi approcci, però, hanno evidenziato soprattutto lo
"sforzo" che l'apprendente fa in direzione della lingua e della cultura
d'arrivo, tralasciando le modalità di negoziazione che il parlante
nativo può o potrebbe mettere in campo per facilitare
l'incontro.
2. Sulla competenza comunicativa interculturale
Mentre, come si diceva, l'attenzione della pedagogia linguistica è
essenzialmente rivolta a far sì che l'apprendente sviluppi la capacità
di interagire secondo il modello dei parlanti nativi, gli studi sulle
interazioni verbali (e sociali) fra parlanti di lingue diverse hanno
cercato di descrivere, tramite analisi del "dettagli" dell'interazione
- quello che realmente avviene in questi incontri e hanno portato una
serie di informazioni sul come, sul quando e, a volte, anche sul perché
alcuni incontri non hanno successo, rilevando, in particolare come
il fraintendimento interculturale è un prodotto
mutualmente costruito da tutti i partecipanti all'interazione, non
è responsabilità di uno solo.
(Chick, 1990: 254) |
Analizzando incontri
interculturali si è visto come l'interazione fra persone di
culture diverse sia marcata da una serie di momenti di asincronia, che
si manifestano in silenzi, sovraposizioni, reazioni impreviste,
interruzioni, ecc. che mostrano la difficoltà di stabilire e mantenere
una cooperazione conversazionale a causa delle differenze nel background
culturale e nelle convenzioni di comunicazione. I partecipanti,
normalmente inconsapevoli sia delle conoscenze socioculturali sia delle
convenzioni comunicative che contribuiscono alla loro interpretazione
(e, normalmente, inconsapevoli anche delle proprie convenzioni
conversazionali), hanno solo la percezione di un incontro fallimentare,
le cui cause sono raramente identificate. Spiegano quello che è accaduto
più spesso in termini psicologici che in termini sociologici o
culturali, percependo l'altra persona come non cooperativa, aggressiva,
stupida, incompetente o con spiacevoli caratteristiche personali.
Ripetuti incontri interculturali falliti con diverse persone portano nel
tempo, alla formazione di stereotipi culturali negativi (Chick, 1990:
253 e sgg.)
Il fallimento può essere di vari tipi: può non esserci
comunicazione, cioè l'enunciato di un parlante non comunica nessun
messaggio all'interlocutore, oppure un fraintendimento, quando si
comunica qualcosa che non si voleva dire (Gumperz, 1982). I
fraintendimenti - a loro volta - possono essere o di tipo
pragmalinguistico, quando si attribuisce erroneamente una certo
significato a un enunciato (ad esempio quando un consiglio viene
interpretato come un rimprovero), o di tipo sociopragmatico, quando il
contributo dell'altro non è ritenuto adatto alla situazione, in seguito
a diverse valutazioni dei parametri sociali che determinano le scelte
linguistiche (ad esempio l'uso del registro sbagliato per troppa o
troppo poca formalità) (Thomas, 1983).
Le competenze che assicurano una effettiva comunicazione
interculturale sono così complesse e oscure e legate al contesto, che in
nessun modo possono essere direttamente insegnate come un insieme di
conoscenze. Comunque un'efficace comunicazione interculturale può essere
imparata. Essere consapevoli delle fonti potenziali di asincronia e
delle sue possibili conseguenze negative sono un prerequisito necessario
per l'apprendimento in quanto permette di ripercorrere
retrospettivamente il discorso, di cercare e di identificare eventuali
punti di asincronia per mettere in campo adatte strategie di riparo (Chick,
1990).
A titolo d'esempio, riporto un incontro molto problematico,
fra un belga e un africano (Blommaert, 1991: 27 e sgg.), che mette in
evidenza sia il punto di incomprensione sia le modalità di risoluzione.
A è il belga, B è l'africano. Si trovano a Bruxelles in un pomeriggio
d'inverno.)
A: Vuoi un caffè?
B: No, grazie, non ho fame.
A: Vuoi un CAFFE'?
B: No, grazie. (breve pausa) Non ho
fame.(lunga pausa)
A: Vorresti andare a bere qualcosa?
B: Certo, con piacere, fa proprio
freddo.
A: Magari un caffè?
B: Bene, volentieri.
B reagisce alla domanda iniziale come se gli avessero offerto del
cibo, in quanto nella sua cultura (Haya, nel nord della Tanzania) agli
ospiti si offrono chicchi di caffè da masticare, come simbolo di
amicizia, ospitalità e ricchezza. Di conseguenza è del tutto coerente la
categorizzazione che B fa di caffé come "cibo". La categorizzazione del
belga, è, invece,
"bevanda calda". Le prime due battute del dialogo mettono in
evidenza la differenza delle due concezioni, che porta a un
fraintendimento di tipo pragmalinguistico. B si accorge che il suo
intervento non è appropriato quando A ripete la domanda, sottolineando
la parola caffé. A, dopo una pausa, riformula l'invito passando da "caffé"
a un più generale "bere qualcosa". B questa volta accetta e ciò dà ad A
una base per ritornare alla proposta iniziale, che finalmente ha
successo. Il fraintendimento è stato rimediato.
In questo scambio si possono identificare tre fasi: una prima
di "osservazione" di ciò che sta accadendo, in cui i partecipanti si
accorgono del fallimento della comunicazione: i loro contributi sono
perfettamente coerenti con i loro assunti culturali, ma non funzionano
in quella situazione; segue una seconda fase, la 'ricerca di un terreno
comune' in cui A evita l'elemento problematico (caffè). Entrambi si
accordano quindi sul 'bere qualcosa'. A questo punto inizia la fase del
'dialogo': viene apprezzata esplicitamente l'idea di andare a prendere
qualcosa di caldo e si è creata una base comune per accettare l'idea di
caffé come bevanda.
Questo esempio mostra come la competenza interculturale
consista nel raggiungere un reciproco adattamento (e non solo
l'adeguamento dell'apprendente ai modelli linguistici e culturali del
paese ospitante).
Obiettivo primario della pedagogia interculturale - di
conseguenza - è trovare strategie didattiche perché soggetti di origini
culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro
indipendentemente dalle differenze di lingua, comportamenti culturali e
credenze. L'attenzione si sposta, quindi, dal lavoro che fa il singolo
apprendente al modo con cui due persone di culture diverse riescono a
negoziare significati e relazioni tramite un mezzo linguistico in cui
hanno competenze molto sbilanciate. Questo non significa abdicare a una
funzione didattica da parte di chi ha le maggiori competenze, ma,
assumendo che il significato sia socialmente negoziato (piuttosto che
individuale) e situato nel processo di interazione faccia a faccia
(piuttosto che nella testa del singolo parlante), significa vedere la
relazione personale non solo come una risorsa per l'apprendimento
linguistico da parte del più debole, ma anche per l'allargamento dei
confini culturali e linguistici di entrambi.
Nella gestione didattica ciò ha due implicazioni. Da un lato
porta a non vedere la presentazione di contenuti culturali (quali la
vita quotidiana in Marocco, le caratteristiche dell'Islam, o la scuola
in Cina) come centrale nell'approccio interculturale: Nanni (1993: 77),
a giusta ragione, sostiene che limitarsi a questo tipo di contenuti
significa già aver fatto una scelta dogmatica e
moralistica che prefigura una proposta educativa sostanzialmente
conservatrice per quanto possa essere aperta sul piano delle idee. |
Dall'altro implica la costruzione di un clima di classe che favorisca
reciproci adattamenti a fronte delle diversità linguistiche e culturali:
parlando di insegnamento dell'italiano, si mette l'accento sui
meccanismi interattivi e sulla dinamica della gestione della classe e si
cerca di impostare una didattica che consideri ogni studente come un
individuo, e al contempo, sviluppi l'abitudine alla partecipazione
cooperativa ai lavori di classe (Contento et al., 1994).
3. A proposito di "competenza partecipativa"
Come si diceva in precedenza, la comunicazione interculturale è
caratterizzata (fra l'altro) dal processo, attivato da tutti i
partecipanti, finalizzato a trovare accordo nella situazione in atto. In
ambito scolastico, la prima operazione da fare, quindi, è definire la
situazione, facendo diventare l'implicito dei comportamenti oggetto di
discorso. Si tratta, cioè, di rendere esplicita la "norma" di
comportamento verbale e non verbale adeguata al contesto classe di una
scuola italiana, norma a cui di solito ci si adegua come se fosse l'unico
comportamento possibile. Due strategie sembrano produttive: da
un lato riflettere insieme su "che cosa si fa tutti i giorni in classe",
cercando di entrare nei dettagli delle azioni routinizzate (ad esempio:
quando suona la campana dell'intervallo, i ragazzi si alzano subito, o
aspettano l'autorizzazione dell'insegnante?); dall'altro riflettere
insieme sulla varietà di routines possibili, in alternativa a quelle
attivate in quel contesto-classe: gli studenti possono raccontare
esperienze fatte in altri ordini di scuola (ad es. alle elementari
potevo/non potevo stare nel corridoio durante l'intervallo) o esperienze
di amici che frequentano scuole diverse, e l'insegnante può raccontare
"quello che succedeva quando andava a scuola lui" (ad esempio di quando
si stava seduti nel banco a braccia conserte se non incrociate dietro la
schiena; o del mutato valore sociale di refettorio e doposcuola, che una
volta, ben diversamente da oggi, connotavano disagio sociale od
economico). Sono attività che portano alla consapevolezza sia di quello
che avviene veramente in classe, sia di come "ciò che di fatto avviene
nella propria classe" non sia universale e quindi nè ovvio nè scontato
per studenti con esperienze diverse.
A titolo d'esempio propongo una lista, del tutto
approssimativa, di tratti del contesto "classe", che possono variare a
seconda dei luoghi e delle situazioni. Questi elementi potrebbero
diventare oggetto di discorso e di riflessione per tutti i ragazzi del
gruppo, in quanto ciascuno di loro al momento di iniziare quella scuola
ha dovuto rapportarsi a una serie di situazioni differenti rispetto alla
sua esperienza precedente, sia scolastica, sia pre-scolastica:
- Diversa struttura dell'ambiente
fisico e dell'organizzazione logistica: disposizione del banchi e della
cattedra; usi differenziati dei locali della scuola (aule, palestre,
laboratori, cortili).
- Diverse convenzioni che regolano
l'uso di materiali didattici: in certe scuole elementari a tempo pieno,
ad esempio, i bambini devono lasciare a scuola i libri e i quaderni, in
altre li riportano a casa tutti i giorni; nella provincia di Bolzano i
libri di testo per la scuola dell'obbligo sono di proprietà della scuola
che li presta al singolo studente: questi, al termine dell'anno
scolastico, dovrà restituirli in ottime condizioni, perché possano
essere usati da un altro studente l'anno successivo: questo fatto -
ovviamente - modifica il rapporto dello studente con il libro.
- Diverse convenzioni, nella vita
di classe, relative alla mobilità e alla gestualità: alzarsi o meno al
cambio dell'ora; alzarsi o meno durante la spiegazione dell'insegnante;
convenzioni che regolano l'andare in bagno, al refettorio ecc; se/quando
alzare la mano o alzarsi in piedi per rispondere o chiedere la parola;
se/quando alzarsi per andare a parlare con un altro compagno.
- Diverse convenzioni
nell'interazione con l'insegnante: se/quando parlare spontaneamente;
se/quando rispondere alle domande; modalità diverse di dare
ordini/consigli/esortazioni/rimproveri.
Conoscere queste convenzioni e imparare ad agire all'interno di questi
confini fa parte di una componente della competenza comunicativa, che
potrebbe definirsi "competenza di partecipazione", intendendo con questo
termine la capacità di riconoscere i tratti costitutivi degli eventi
comunicativi, e di sapersi rapportare ad essi.
Se per il ragazzo italiano questa competenza si è sviluppata
nel tempo, tramite le informazioni date dall'istituzione (ordini,
istruzioni consigli e rimproveri dell'insegnante) e il rinforzo dato
dall'ambiente sociale intorno a lui (modello proposto o imposto da
familiari e da amici; precedenti esperienze nel contesto italiano), per
il ragazzo straniero, giunto da poco da un contesto scolastico e sociale
diverso, sviluppare questa competenza diventa di necessità un processo
accelerato, pena la sanzione sociale. In questo processo può essere
aiutato da informazioni sul contesto e sulle regole socioculturali che
regolano la partecipazione: lo studente deve essere consapevole di quale
atteggiamento il gruppo si aspetta da lui, anche se ciò non significa
che debba necessariamente adeguarsi. Da un lato deve sapere quali
inferenze (di solito negative) si traggono da comportamenti che si
discostano molto da quelli del gruppo maggioritario; dall'altro, nel
caso non infrequente all'interno di un contesto istituzionale come la
scuola, in cui 'debba' seguire certe regole, sapere che ci sono, come
funzionano ed eventualmente anche perché ci sono e a che cosa servono,
può aiutarlo ad adeguarsi. Raggiungere un equilibrio fra il rispetto dei
tratti culturali dei singoli e le regole di un'istituzione è sicuramente
problematico (le punte estreme, in Italia, si vedono nella difficoltà di
accettazione e di inserimento dei bambini zingari, stigmatizzati a
priori, e spesso con comportamenti che confermano alcuni degli
stereotipi). Una strategia attenuativa del conflitto è rendere
oggetto di discorso e di negoziazione non solo le diverse convenzioni
culturali e istituzionali, ma anche la misura in cui è opportuno o
neccessario adattarsi, senza ricorrere alla semplice imposizione.
Un esempio di come possono essere rese esplicite le regole
socioculturali in un contesto didattico, lo offre Saville-Troike (1992).
Racconta di una studentessa giapponese che si inchinava regolarmente
davanti agli insegnanti. Un professore, cercando di insegnare le regole
sociolinguistiche inglesi, le disse di non farlo con insegnanti
anglosassoni, perché era considerato inappropriato. La ragazza,
avvilita, reagì dicendo che sapeva benissimo che gli americani non si
inchinavano, ma che quella era la sua cultura e che, se non si fosse
comportata così, avrebbe mancato di rispetto e non sarebbe stata una
persona corretta. Le diverse convenzioni sono così state rese esplicite
e giustificate: si è costruita una base per eventuali accordi o per
un'accettazione consapevole dell'alterità. Saville-Troike conclude che
si dovrebbe parlare delle regole sociolinguistiche, ma che si dovrebbe
lasciare alla decisione degli studenti se produrle o meno.
D'altra parte, senza forzare una persona a cambiare
comportamento, è molto importante informarla che la media dei parlanti
interpreta il comportamento 'diverso' come un segnale particolare.
L'esempio seguente, anche questo riferito da Saville-Troike (1992),
mette in evidenza il disagio che deriva dal fatto che i partecipanti
all'interazione non chiariscono i presupposti del loro comportamento.
All'inizio di un corso di inglese per stranieri, fu chiesto agli
studenti di presentarsi agli altri con il nome di battesimo. A giro di
tavolo tutti dissero il loro nome, finché un anziano signore giapponese
anunciò: "Voglio essere chiamato signor Tanaka". Questo gelò
l'insegnante e gli altri studenti. Ovviamente era suo diritto essere
chiamato in maniera formale, ma gli sarebbe stato utile sapere che, in
quel contesto, il suo atteggiamento suonava distante, scortese e veniva
interpretato come segno di poca amichevolezza.
In quest'ultimo esempio sembra fallire la reciprocità di
atteggiamento su cui si fonda la competenza comunicativa interculturale:
è sbagliato aspettarsi che l'adeguamento debba
essere unilaterale e completo: la migliore dimostrazione di
competenza interculturale sta nel chiarire che cos'è la tua
identità culturale e nel segnalare all'interlocutore che ti
aspetti che lui voglia venirti incontro, proprio come tu sei
disposto ad andare incontro a lui.
(Dirven & Pütz, 1993: 152) |
4. Conclusioni
Introducendo il concetto di competenza di partecipazione, come una delle
componenti della competenza comunicativa interculturale, siamo andati
nella direzione degli obiettivi che si propone un approccio didattico
orientato sull'interculturalità: favorire, attraverso la vita di classe
una dinamica acquisizione del sapere, lo sviluppo
delle abilità (comprese quelle di azione sociale) e l'internalizzazione
di valori e atteggiamenti che potranno consentire ad insegnanti e
alunni di non provare alcun disagio di fronte alla diversità
culturale.
(Lynch, 1993:1) |
Siamo partiti dall'assunto che una competenza comunicativa
interculturale - al pari della competenza comunicativa - non possa
essere "insegnata", in quanto si manifesta attraverso comportamenti
linguistici e non linguistici assolutamente dipendenti dalle infinite
variabili del contesto di situazione. Si ritiene allo stesso tempo che
possa essere "imparata", o al di là della banale semplificazione, che si
possano creare, anche in classe, alcune condizioni che aiutano a
stabilire positive relazioni con persone di culture diverse.
Si tratta innanzi tutto di cambiare la prospettiva didattica:
non è il bambino straniero a dover imparare (per adeguarsi) il modello
di comportamento degli autoctoni, ma sono tutti i partecipanti al gruppo
(cioè anche i bambini italiani e gli insegnanti) che - insieme - devono
trovare un accordo sul comportamento adeguato. Ciò non significa
abdicare al proprio modello culturale, ma trovare modalità di
negoziazione per cui ciascuno attutisce o esalta aspetti della propria
cultura per venire incontro all'altro.
L'adeguamento reciproco richiede una consapevolezza del
proprio e dell'altrui comportamento, o, per lo meno la consapevolezza
che certi comportamenti usuali in una certa cultura possono essere
inusuali o avere valori differenti in un'altra. Rapportando questa
affermazione a una classe di scuola italiana, vediamo che un primo passo
è rendere esplicite le norme di comportamento che regolano la vita
quotidiana in quel contesto, norme che i partecipanti della stessa
cultura danno per scontate, e che raramente diventano oggetto di
discorso. Usualmente si sanziona chi si distacca da queste norme
(straniero o autoctono che sia), ma quasi mai si mettono in discussione
o diventano oggetto di riflessione. Conoscere le regole tacite
dell'evento a cui si sta partecipando e renderle esplicite a chi fa
parte di un'altra comunità aiuta a giustificare comportamenti diversi,
in apparenza estranei o minacciosi. E' ovvio che tale consapevolezza non
è d'aiuto solo nel caso in cui siano presenti studenti di culture molto
distanti dalla nostra: la varietà delle culture italiane, e la varietà
delle abitudini e delle tradizioni familiari che ogni studente si porta
dietro al momento di entrare in classe, è stato, è o può essere ragione
di conflitto o di incomprensione. Un atteggiamento che non solo rispetti
l'alterità, ma che la veda come una risorsa (non necessariamente un
modello da imitare, ma uno stimolo per mettere in discussione il proprio
modello senza subirlo acriticamente) "riconosce a ciascuno (immigrato o
autoctono che sia) il diritto a non dover essere il sosia di altri e a
non essere costretto nei limiti dell'omologazione" (Contento et al.,
1994: 9). E' proprio in questo senso che i bambini "altri", o con una
bella espressione di Canevaro "i bambini che vengono da lontano", sono
una risorsa e un arricchimento per tutto il gruppo:
l'uomo non ha soltanto bisogno dell'altro, ma
dell'altro differente da sè. Attraverso i rapporti in cui
sia dominante l'identità egli rischia di dialogare con altri se
stesso; può ricevere molte rassicurazioni, ma gli mancheranno
stimolazioni per attivare strategie di cambiamento e ampliare la
propria prospettiva esistenziale.
(Contini, 1983: 156) |
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Zuanelli Sonino, E. 1981. La competenza comunicativa. Torino,
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Imparare a parlare in italiano:
note pedagogiche |
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|
(pubblicato in in La formazione dei dirigenti
scolastici italiani all'estero. IRRSAE- Abruzzo. pp. 19-31).
Daniela Zorzi Calò - Università di Bologna
0. Imparare a parlare significa essenzialmente imparare a
risolvere in tempo reale i problemi che pone l'interlocutore, problemi
cognitivi e linguistici, mediandoli con le proprie esigenze di
comunicazione. Ciò vuol dire che, per parlare, non è sufficiente avere
la frase adatta da dire a un certo momento (anche se, ovviamente, è
necessario saper formulare verbalmente il proprio pensiero,
indipendentemente dall'interlocutore), ma bisogna percepire il
contributo del partner e a questo adeguare ciò che si vuol dire.
Sul piano didattico dunque, si lavora su due livelli: da un lato si
esercitano le abilità di produzione, si cerca cioè di mettere in grado
lo studente di saper produrre testi comprensibili, curando gli aspetti
sistematici (morfosintassi, lessico, pronuncia e intonazione),
dall'altro si creano occasioni per attivare abilità di
interazione, cioè la capacità di negoziare con l'interlocutore un
prodotto discorsivo mutualmente comprensibile e accettabile. Questo
significa ad esempio, rivalutare il ruolo dell' "ascoltatore" rendendolo
co-partecipante, dandogli gli strumenti non solo perché possa assentire
a quanto gli viene detto, ma anche intervenire con le sue conoscenze
sull'argomento, con le sue opinioni o i suoi dubbi nel costruire
congiuntamente il discorso. All'"ascoltatore", inoltre, si deve
dare modo di affinare gli strumenti linguistici per prendere a sua volta
la parola e condurre il gioco. Tutto ciò, ovviamente modifica il
comportamento del "parlante": non può proseguire con il suo monologo
indipendentemente dal contributo del partner, ma deve prenderne atto con
commenti o valutazioni fino ad assumere come centrale l'argomento
proposto dal suo interlocutore. Si devono quindi creare condizioni
didattiche perché gli apprendenti siano esposti a un parlato non
pianificato, così da risolvere i problemi imprevedibili che man mano si
presentano.
In questa sede mi occuperò di come si può sviluppare in classe la
capacità di interagire con gli altri a livello discorsivo, cercando di
isolare alcune caratteristiche del parlato allo scopo di rendere il
concetto "abilità di interazione" utilizzabile sul piano pedagogico.
Saranno, quindi, proposte alcune attività fattibili in classe
(ovviamente da adeguarsi alle specifiche situazioni didattiche). Per
ciascuna saranno rese esplicite le abilità richieste allo studente, le
sottocompetenze che vengono sviluppate e le modalità di gestione in
classe.
1. L'abilità di interazione.
Per abilità di interazione intendo, genericamente, la capacità di
costruire con l'interlocutore un discorso mutualmente comprensibile e
accettabile.
Fra gli elementi che favoriscono la comprensibilità e, quindi,
la comunicazione interpersonale, ci sono le routines di
interazione. Con questo termine si intendono i modi
convenzionali con cui i parlanti segnalano l'andamento della
conversazione in atto: si va dai segnali di assenso, alle richieste di
chiarimenti, ai diversi modi con cui segnalare accordo o disaccordo con
quello che l'altro sta dicendo, fino agli aspetti più tecnici, e di cui
si è meno consapevoli: come fare per intervenire in un discorso nel
tempo e nel modo opportuno, come interrompere l'interlocutore senza
essere scortesi, come coinvolgere il partner o attirarne l'attenzione.
Che implicazioni ha tutto questo per l'insegnamento dell'italiano?
Gli insegnanti (e i materiali) sono ormai esperti nel concentrarsi sul
lessico, componenete assolutamente indispensabile per trattare un
argomento; inoltre sanno lavorare bene sugli aspetti della coerenza
semantica e grammaticale, perché il discorso (dal punto di vista di chi
lo produce), sia ben articolato a livello di significato e che tali
collegamenti siano resi espliciti dagli appropriati nessi sintattici.
E' possibile, anche se più difficile, insegnare gli aspetti formali
dell'interazione che marcano l'andamento della conversazione: elementi
che indicano l'inizio di un nuovo discorso (ad es. volevo chiederti...;
a proposito di x...) o la sua conclusione (siamo a questo punto; allora
siamo d'accordo ecc.); modi con cui si riprendono parti del discorso
fatto e si segnala la reazione a quanto è stato detto (davvero!,
interessante! ecc.). In questo caso sono utili le attività d'ascolto, in
quanto possono portare lo studente alla consapevolezza di come i
parlanti marcano il passaggio da un argomento all'altro tramite attività
che mettono a fuoco, non tanto gli argomenti trattati, quanto i modi con
cui si introduce, si mantiene e si conclude un argomento. Tuttavia
questo non è sufficiente in quanto, pur essendo un argomento iniziato da
una sola persona, mantenerlo in vita e a volte concluderlo, di norma è
un lavoro congiunto degli interlocutori, che, come si diceva cooperano
per creare il prodotto finale.
Quindi allo studente è utile non solo avere informazioni sull'uso più
comune di questi
segnali, ma anche occasioni diversificate d'analisi, mostrare
cioè, tramite un ascolto accurato e/o la lettura di trascrizioni di
testi orali
autentici, come i partecipanti gestiscono la conversazione,
per vedere non solo che cosa dice il singolo parlante, ma anche quando,
in relazione a che cosa e che effetto fa il suo contributo
all'interlocutore. A queste attività di decodifica, dovranno seguire
attività di produzione. Entrambe saranno focalizzate sulla gestione
dell'interazione.
Se è abbastanza semplice trovare attività che portano al
riconoscimento di questi aspetti è molto più complesso disegnare
attività in classe che ricreano le stesse condizioni della conversazione
casuale. Nei manuali didattici si trovano usualmente indicazioni
per costruire dialoghi stereotipici: ad es. compaiono istruzioni
del genere: "Invita un tuo compagno a una festa a casa tua/ il tuo
compagno accetta e ringrazia" Ogni studente, a questo punto, produce la
"sua" frase (Vieni alla mia festa?/ Sì, grazie) recitando un copione.
Questo tipo di attività ha (almeno) due limiti, rispetto al parlato
reale: innanzi tutto è da ricordare che il significato che un singolo
enunciato (o uno scambio di battute) assume, dipende in larga
misura dalla sua posizione nel contesto. Ad esempio la frase "scusa, che
cosa vuoi dire?" può essere, a seconda del contesto, una vera richiesta
di chiarimenti o un esplicito segnale di disaccordo,
(approssimativamente: "secondo me stai dicendo delle sciocchezze");
oppure, per tornare all'esempio della festa, può trattarsi di un invito
normale, di un segno di riappacificazione dopo un litigio, di una
battuta preliminare ad altre richieste (...allora porta la tua
bellissima sorella). In altri termini il valore discorsivo dello scambio
è attribuibile soltanto nel contesto allargato dell'incontro. Il secondo
limite riguarda l'autonomia della singola battuta del dialogo: come si è
già detto, la conversazione non è una produzione autonoma di frasi
preconfezionate da parte dei due interlocutori, ma è un lavoro
cooperativo con cui si utilizza il contributo imprevedibile del partner
per arrivare a un prodotto armonico e fluente.
Per superare questi limiti, è possibile creare anche in classe le
condzioni tipiche di reciprocità tipiche dell'interazione: per fare un
esempio di reciprocità vediamo che, se uno fa un'affermazione, la
reazione più naturale è, non solo commentarla, ma riprendere
l'argomento con esperienze analoghe, a sostegno od eventualmente in
opposizione, ma sempre relative al punto proposto dal primo parlante.
Tali attività, cioè, devono essere fatte in modo che i
partecipanti trovino ciò che hanno in comune o ciò in cui differiscono.
Le attività che seguono, mirano dunque a sviluppare le capacità
interattiva degli studenti, come è stata sopra delineata.
2. Le attività.
2.1. Parlato transazionale e parlato interazionale
Una distinzione molto produttiva per la costruzione di attività
finalizzate al parlato spontaneo, è quella fra parlato transazionale,
finalizzato essenzialmente al passaggio di informazione, e quello
interazionale finalizzato essenzialmente allo stabilire e mantenere
buoni rapporti interpersonali (Brown
& Yule, 1983). Nessuno scmbio verbale può definirsi interamente
transazionale o interamente interazionale: anche gli scambi
finalizzati per definizione alla richiesta di beni o di servizi hanno
molto spesso una componenente interazionale (Aston, 1988; Belton, 1989):
questa si manifesta principalmente in segnali di amichevolezzaa, ricorso
al racconto personale, scherzi o piccoli racconti. D'altra parte si può
vedere una componenete transazionale anche nelle quattro chiacchiere, di
fatto si modifica lo stato delle conoscenze reciproche, scambiandosi
informazioni anche se questo significa soltanto conoscere un po' meglio
una persona. Ovviamente le quattro chiacchiere, che si fanno sempre
senza alcuna predeterminazione degli argomenti, sono meno prevedibili di
un incontro più rutinizzato, (come chiedere un biglietto del treno alla
stazione). Se lo studente deve sviluppare la capacità di partecipare ad
una conversazione informale, una componente di non-predicibilità
dovrebbe essere presente in varie attività comunicative da fare in
classe.
Se si vuole che l'apprendente sappia partecipare a una conversazione,
e quindi partecipare ai racconti (di avvenimenti e di esperienze), agli
scherzi, agli aneddoti che caratterizzano l'andamento della
conversazione comune, si deve esercitare l'apprendente non solo a
raccontare, ma anche a funzionare come un buon ascoltatore: le attività,
cioè devono assicurare all'ascoltatore un ruolo fattivo e positivo.
Presentiamo quindi due attività: una prevalentemente interazionale
(costituita da un roleplay) e una (costituita da un problema a cui gli
studenti devono trovare una soluzione) che richiede in varia misura sia
di scambiarsi informazioni, e quindi ha una componente transazionale,
sia di saper gestire verbalmente i rapporti interpersonali a fini
cooperativi.
3. L'autostop.
3.1. La gente che si incontra in treno, per la prima volta,
quella che si vede alle feste o alla prima lezione di un nuovo corso, o
che si trova per caso con un conoscente in una situazione di
attesa (dal medico, alla stazione ecc.) tende a condurre un discorso in
cui una persona offre il primo argomento, l'altro commenta, riutilizza
quanto è già stato detto per andare avanti o cerca un qualsiasi appiglio
discorsivo per spostare il discorso e proporne uno che gli interessa
maaggiormente. Queste chiacchiere, essenzialmente interazionali, sono
caratterizzate, di norma, da un frequente cambio d'argomento e da una
grande quantità di segnali d'accordo. Questo veloce avvicendarsi di
argomenti in un incontro, in cui l'unica cosa importante è mantenere un
positivo rapporto interpersonale, crea al parlante non esperto numerose
difficoltà.
Le difficoltà riguardano in particolare la scelta dell'argomento da
proporre, il modo con cui mantenere o cambiare il tema proposto, il modo
con cui trovare o costruire un terreno comune (conoscenze, gusti,
esperienze: anch'io ho avuto la stessa esperienza; Va a Roma?/ Io ci so
stato l'altra settimana ecc.).
Di queste difficoltà anche il parlante nativo è poco cosciente: le
definisce situazione imbarazzanti dove "non si sa mai che cosa dire",
ma, per lo meno, può contare su su automatiche conoscenze linguistiche:
se trova l'argomento, avrà sicuramente anche le parole per parlarne.
Si possono costruire attività cha da un lato portino a livello di
coscienza come funzionano questi incontri in cui non c'è nessuna
informazione particolare da
scambiare e nessun modello globale e stereotipico al quale
fare riferimento, e dall'altro creino in classe l'occasione per
scambi verbali esclusivamente finalizzati a rafforzare i rapporti
personali.
L'attività consiste in un roleplay. Con questo termine si intende
una grande varietà di attività che si possono fare in classe: si va
dalla recita del dialogo precedentemente letto o scritto, alla recita
semilibera, seguendo un canovaccio, alla libera espressione di
pareri personali per negoziare la soluzione di un problemi reali o
fittizi. Il role play chiede agli apprendenti di proiettarsi in una
situazione immaginaria per attivare se stessi o un personaggio: in certi
casi gli studenti hanno delle consegne dettagliate, in altri, si creano
da soli un ruolo, fino a mantenere la propria identità. Scopo ultimo del
roleplay, come di tutte le attività finalizzate all'espressione orale, è
di fare in modo che lo studente si manifesti con la maggiore autonomia e
creatività possibile: la completa naturalezza è probabilmente
impossibile in classe, ma avere la percezione di essere coinvolti in
attività autentiche è importante per
l'apprendente.
Presentiamo quindi un roleplay di tipo libero, vincolato solo dalla
scena.
3.2 Procedimento operativo
Livello: studenti di livello intermedio e avanzato
Durata 45-60 m.
Situazione: siamo sulla strada statale fra la località X e la
località Y (entrambe note ai partecipanti). Lo studente A è rimasto
senza benzina per strada. Ferma la macchina guidata da B e gli chiede un
passaggio fino al primo distributore. B lo fa salire.
Compito: Due studenti volontari A e B devono chiacchierare per 8-10
minuti, scegliendo liberamente gli argomenti.
La conversazione viene registrata.
Altri due studenti (gli osservatori) devono prendere appunti sugli
argomenti trattati, segnare quelli che si protraggono per maggior tempo,
indicare chi li ha iniziati.
A tutti gli altri studenti viene data una lista dei modi con cui si
coopera al buon andamento della conversazione. Accanto alle voci della
lista devono man mano indicare se sono attivati da A o da B.
La lista di aspetti discorsivi di cui verificare la presenza
comprende (almeno) i seguenti punti:
- annunciare o indicare il proprio scopo all'inizio
- indicare di aver capito
- verificare se l'altro ha capito,
- chiedere all'altro informazioni, chiarimenti, precisazioni
(anche di tipo linguistico)
- chiedere l'opinione dell'altro
- rispondere a richieste di chiarimenti
- cercare un terreno comune (argomenti e punti di vista)
- adattarsi ai punti suggeriti dall'interlocutore
- riassumere per chiarire significati e intenzioni
- indicare incertezza
- chiedere chiarimenti
- esprimere accordo /apprezzamento / riserva
(da: Bygate 1987:34-35)
Al termine della conversazione, gli osservatori riferiscono gli
argomenti e gli altri controllano in gruppo se hanno segnato le stesse
caratteristiche nel dialogo, cercando di ricordarsi il contesto locale
(ad es. su quali punti c'è stato un accordo esplicito), su quali punti
sono stati chiesti chiarimenti o maggiori dettagli ecc.
Si riascolta la conversazione e si analizzano le formule usate per
introdurre - mantenere - sostenere e allontanarsi dagli argomenti. Se è
possibile sarebbe interessante far confrontare agli studenti la loro
produzione con un analogo roleplay preparato fra due nativi.
E' sufficiente una registrazione precedentemente preparata - seguendo le
stesse indicazioni - fra l'insegnante e un altro
italiano.
Riassumendo le caratteristiche dell'attività, vediamo che:
- lo studente è libero di scegliere l'argomento di cui parlare,
diversamente da altre attività di classe in cui è vincolato o all'uso di
certe forme, o all'argomento (o testo) proposto daall'insegnante.
Scegliere l'argomento, come si diceva, è una delle caratteristiche
della comunicazione non scolastica.
- lo studente è libero di avere un suo punto di vista sulla
situazione, in un certo senso di essere se stesso: ciò implica,
nell'attività appena presentata, che può anche mostrare imbarazzo, fare
lunghi silenzi alla ricerca di qualcosa da dire, avere cioè
manifestazioni di disfluenza dovute alla difficoltà dell'interazione, ma
non necessariamente ascrivibili alla sua debole competenza in
italiano. Come si diceva precedentemente questi incontri di
comunicazione forzata possono essere imbarazzanti anche per molti
parlanti nativi.
- tutti gli studenti hanno ruoli attivi e complementari anche se
diversi: 2 parlano, gli osservatori sviluppano particolarmente
l'ascolto selettivo, o dei contenuti o delle forme (questi ultimi
leggono e riconoscono il legame fra una funzione discorsiva e la
sua realizzazione linguistica.
- La produzione verbale degli studenti non è sollecitata per
esercitare porzioni di lingua precedentemente appresa, ma anzi è
un'occasione per imparare a gestire la conversazione. Inoltre è
riutilizzata per una successiva analisi. Diventa oggetto di riflessione,
a sua volta materiale didattico da analizzare per prendere
coscienza delle azioni discorsive che si sono compiute.
(Gavioli, 1990)
4. Un bacio, uno schiaffo
Si tratta di un problema da risolvere: una situazione "strana" a cui
gli studenti devono trovare una spiegazione, dopo aver messo in comune
diverse
informazioni.
4.1. Procedimento operativo
Studenti: adolescenti e adulti di livello intermedio o avanzato.
Durata: 45-60 m.
Procedura: ad ogni studente viene dato un foglio su cui c'è
l'ambientazione e i personaggi della storia e una sola frase della
storia seguente.
Scena e personaggi:
Alla fine degli anni '60, in Vietnam, 4 persone sono sedute in treno.
Le 4 persone sono: un giovane patriota vietnamita; una vecchia nonna
vietnamita; accompagnata dalla giovane e bella nipote, un rude soldato
americano.
Frasi della storia:
- Il treno entra in un tunnel
- c'è il suono di un bacio
- tutte e quattro le persone sentono il rumore di uno schiaffo
- all'uscita del tunnel il vietnamita vede che la faccia del
soldato è diventata rossa.
- la ragazza lancia occhiate attonite alla nonna e al soldato
- la nonna dorme in un angolo
- il giovane vietnamita sorride con aria compiaciuta.
Problema: Chi ha dato il bacio e a chi?
Chi ha dato uno schiaffo e a chi?
La ricostruzione della storia deve essere logica, tener conto di
tutti gli elementi, senza contraddizioni.
Regole:
1) tutti gli studenti devono leggere agli altri la loro frase: non la
devono mostrare a nessuno e gli ascoltatori NON devono prendere appunti,
possono però farsela ripetere più volte e chiedere tutte le spiegazioni
che desiderano sul contenuto della frase.
2) le domande relative a problemi lessicali o grammaticali vanno
poste SOLO all'insegnnate.
3) l'insegnante non deve organizzare il lavoro di gruppo, nè, tanto
meno, intervenire con proposte o suggerimenti.
4) Al termine del tempo a disposizione, gli studenti scrivono la
trama della storia e presentano all'insegnante la soluzione che hanno
trovato.
Nel caso di classi numerose, si dividono gli studenti in due gruppi
con identiche istruzioni. L'attività si conclude quando uno dei due
gruppi ha trovato una soluzione. In caso di disaccordo con l'altro
gruppo si confrontano e si discutono le diverse soluzioni.
4.2. Analisi dell'attività.
E' un'attività complessa, condotta senza il controllo
dell'insegnante, che richiede una serie di conoscenze, di capacità e di
abilità.
Osserviamo ora in dettaglio quello che succede:
Prima fase: organizzare il gruppo di lavoro
Nella prima fase gli studenti devono decidere come organizzarsi per
portare avanti l'attività. Il problema iniziale consiste dunque nella
negoziazione dei ruoli e dei rapporti all'interno del gruppo: decidere
chi comincia a parlare; vedere se qualche studente assume il ruolo di
leader, conducendo le varie operazioni. Si discute la procedura,
rileggendo e discutendo le regole e chiedendosi reciprocamente eventuali
chiarimenti (bisogna ricordare che non possono essere chiesti
all'insegnante chiarimenti sulle modalità di lavoro); ci si accorda,
quindi sulla procedura da seguire.
Seconda fase: scambiare informazioni
Seguendo lo schema organizzativo appena definito, ogni studente legge
la sua frase: la lettura deve essere chiara, in quanto gli altri
studenti devono capire l'informazione dato che tutte le frasi sono
essenziali per risolvere il problema. Si può chiedere a chi legge di
riformulare il senso della frase con altre parole o di ripetere, anche
più volte, la lettura.
Terza fase: negoziare la soluzione
Gli studenti producono e valutano, alla luce dell'intero quadro
informativo, ipotesi esplicative. Ciascuno si costruisce un punto di
vista sui fatti e lo propone agli altri. Si lavora per raggiungere il
consenso: ci deve essere un accordo esplicito sulla soluzione che si è
costruita.
Quarta fase: presentazione della soluzione:
Raggiunto un accordo, qualcuno nel gruppo scrive la storia e qualcuno
la legge all'insegnante: anche in questo caso ci si deve accordare su
chi scrive e su chi legge.
Quali conoscenze sono necessarie per risolvere il problema?
Sono necessarie conoscenze generali di tipo socio-culturale: si
richiamano più o meno consapevolmente alla memoria schemi (conoscenze
pregresse rutinizzate) sul Vietnam, treno/tunnel, bacio/schiaffo;
conoscenze relative alla struttura narrativa: situazione iniziale,
evento, determinazione di una nuova situazione, spiegazione dei fatti,
conclusioni; conoscenze linguistiche lessico- grammaticali.
L'attività richiede abilità linguistiche specifiche: la lettura a voce
alta, con pronuncia sufficientemente accurata da permettere la
comprensione; dal punto di vista dell'ascoltatore, richiede attenzione
alle ripetizioni e alle catene lessicali, che permettono di ricostruire
la storia: in altri termini si sviluppano alcune componenti della
competenza testuale, quali l'identificazione di elementi di coesione
grammaticale e lessicale.
Sono attivate numerose funzioni linguistiche: chiedere e dare
informazioni; fare ipotesi, accettarle e confutarle; esprimere accordo e
disaccordo; fare proposte, accettarle e rifiutarle; formulare un'idea,
argomentarla e sostenerla; dare istruzioni e segnalare di averle capite.
Considerando l'interazione dal punto di vista della regolazione del
rapporto interpersonale, vediamo che sono chiamate in causa
capacità tecniche di gestione della conversazione: passaggio del turno
di parola da uno studente all'altro e quindi regolazione dei rapporti
all'interno del gruppo (ad es. sollecitare uno studente a partecipare o
reprimere chi sta dominando); capacità di intervenire nel discorso in
atto ed eventualmente di interrompere; capacità di usare segnali
discorsivi che proiettano ciò che si intende dire; ripresa e riutilizzo
dei contributi degli altri studenti; formulazione verbale dell'accordo
definitivo con eventuale ripetizione di quanto già detto e quindi
chiusura dell'incontro verbale.
chiusura dell'incontro verbale. Questa attività è un esempio abbastanza
chiaro di lavoro cooperativo, in cui tutti i partecipanti hanno gli
stessi diritti e doveri conversazionali e sono accomunati da uno stesso
obiettivo (risolvere il problema). Limitando completamente il ruolo
dell'insegnante, si ottiene che la lingua italiana sia usata in maniera
autentica anche per funzioni regolative, normalmente di pertinenza
dell'insegnante.
5. Conclusioni.
Le attività che abbiamo presentato, non solo mettono in atto
un'interazione verbale fra i partecipanti, finalizzata a uno scopo di
comunicazione, ma si pongono come occasione di riflessione sulle
strategie discorsive impiegate: integrano cioè le attività di decodifica
e le attività di produzione di cui si accennava all'inizio.
Sono, inoltre, un' occasione per attivare funzioni e modalità discorsive
che non sono tipiche della comunicazione in classe: ad esempio viene
assegnata agli studenti una funzione organizzativa e regolativa,
tradizionalmente propria dell'insegnante, e, sul piano del discorso è
lasciata agli studenti la responsabilità di prendere iniziative verbali
(rispetto alla prassi tradizionalmente consolidata per cui allo studente
compete rispondere o reagire agli stimoli dell'insegnante o del testo).
Mettono, inoltre, in evidenza, come il parlato interazionale non sia
soltanto un modo per facilitare lo scambio di informazioni, creando un
rapporto di cortesia fra le persone, ma sia uno strumento primario per
stabilire relazioni interpersonali non di tipo utilitaristico.
Bibliografia
Aston, G. 1988. Negotiating service: studies in the discourse of
bookshop encounters, Bologna, CLUEB
Belton, A. 1988 "Lexical naturalness in native- non native discourse.
"English Language Research Journal" 2.
Breen, M.P. 1985. "Authenticity in the language classroom",
Applied Linguistics 6/1.
Brown G. & G.Yule 1983. Teaching the spoken language,
Cambridge, C.U.P.
Bygate, M. 1987 Speaking, Oxford, O.U.P.
Gavioli, L. 1990 "Il testo parlato: spunti di analisi e di
osservazione", Laboratorio degli studi linguistici 1990,
Università degli Studi di Camerino.
Widdowson, H. 1990. Aspects of language teaching, Oxford,
O.U.P.
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Contributi dell'analisi della
conversazione all'insegnamento dell'italiano L2 |
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|
pubblicato nel 1996 in Atti del III convegno ILSA,
a cura di M. Maggini e M. Salvaderi. Comune di Firenze. pp.11-39
Daniela Zorzi - Università di Bologna
Ogni discorso sull'insegnamento delle lingue presuppone un punto di
vista (se non una teoria) sull'apprendimento e una concezione del
linguaggio. In questa sede assumo un punto di vista interazionale,
intendendo con questo termine il fatto che la comunicazione linguistica
interpersonale non consiste in uno scambio di messaggi pre-costituti
nella mente dei singoli, ma è il prodotto di collaborazione e di
negoziazione fra i partecipanti: questi, tramite l'interazione,
costruiscono un "mondo" comune che consente di interpretare ciò che si
sta dicendo. Uno degli approcci teorici che aiuta a chiarire come si
costruisce questo mondo condiviso, sia sul piano dell'informazione sia
su quello della relazione, è l'Analisi della Conversazione (AC):
descrive il discorso orale, con prevalente, ma non esclusiva attenzione
al discorso dialogico, osservando nei dettagli il "come" e il "quando"
la gente dice "che cosa". E' un approccio di tipo sociologico, che tenta
di spiegare come si costruiscono le relazioni sociali, partendo da come
si costruisce l'interazione verbale. Non nasce quindi con intenti
didattici (in generale come tutte le teorie linguistiche), ma i suoi
contributi possono essere rilevanti nell'apprendimento /insegnamento
delle lingue.
1. Che cos'è l'Analisi della Conversazione.
Come si diceva, lo scopo centrale delle ricerche analitiche
conversazionali è descrivere e spiegare le competenze che i parlanti
comuni usano e a cui fanno riferimento quando partecipano a
un'interazione socialmente organizzata: cercano di identificare gli
aspetti sistematicamente ordinati del parlato e di capire in che modo,
cioè attraverso quali procedure, quest'ordine è raggiunto, apprezzato e
usato, nel corso dell'interazione, dai parlanti stessi.
1.1 I dati.
Questi studi si basano su conversazioni reali, registrate e
trascritte: i dati sono essenziali per la descrizione, in quanto è sulla
base delle ricorrenze sistematiche e osservabili di certi fenomeni, che
si formulano le ipotesi per la costruzione del sistema conversazionale.
Gli analisti della conversazione, osservando i dati, adottano la
prospettiva del partecipante: ciò significa che, anche disponendo della
trascrizioni di un intero incontro, non usano le conoscenze basate su
ciò che segue per interpretare ciò che precede: ciò consente di prestare
attenzione allo sviluppo del processo discorsivo, più che alla
conversazione già conclusa, vista come un prodotto statico, da
analizzare post-hoc.
I dati sono trascritti in modo tale da evidenziare molti
tratti del discorso orale: pause, interruzioni, parlato simultaneo,
false partenze, risate, segnali apparentemente vuoti (ad esempio
elementi privi di contenuto proposizionale, come ehm, ah, uh):
la trascrizione di una interazione rappresenta il
tentativo di rendere in forma scritta e lineare quei dettagli
dell'interazione che permettono successive analisi di un qualche
tipo. Ovviamente la scelta di particolari convenzioni di
trascrizione diventa un fatto importante, in quanto queste danno i
dettagli che sono resi visibili dalla trascrizione, specialmente
per chi non ha avuto accesso alla registrazione originale.
(Psathas & Anderson, 1990:77). |
1.2 La conversazione spontanea.
I primi studi (indicativamente
dai primi anni '70 alla metà degli anni '80) si sono occupati quasi
esclusivamente della conversazione spontanea, non strutturata e non
soggetta a vincoli istituzionali, allo scopo di descrivere i tratti
generali (se non
universali) che permettono a due o più interagenti di
costruire un prodotto ordinato, al di là dell'apparente casualità del
discorso. Si è studiato, ad esempio, i modi con cui i parlanti si
alternano nella conversazione turno dopo turno e quali regole tacite
osservano per non interrompersi o per non creare silenzi e disfluenze (Sacks
et al 1974); si è notato come la conversazione proceda per quelle che
sono state definite "coppie adiacenti", in cui la prima parte rende
rilevanti solo pochissime mosse alternative: ad esempio una domanda
richiede una risposta, ai saluti si risponda con saluti, a un invito
segue o un'accettazione o un rifiuto. Ovviamente la situazione può
essere più articolata: a un invito (vieni a casa mia stasera?) può
seguire una sequenza di chiarimento (a che ora? /verso le 8), ma
l'invito rende comunque rilevante la risposta al termine della sequenza
di chiarimento. Quando la seconda parte manca, l'assenza viene notata e
a questa si attribuiscono significati. Ad esempio se, un conoscente
incontrato per strada non risponde ai miei saluti, posso pensare che sia
maleducato o distratto, che gli sono antipatico o che non mi ha
riconosciuto: qualsiasi inferenza io tragga, comunque, rileva un
comportamento "a-normale". Riferirsi, per lo più inconsapevolmente, a
una cosiddetta norma richiede che, quando questa è violata, sia fatto un
successivo lavoro rimediale per ristabilirla. Ad esempio, in un incontro
successivo potrebbe comparire uno scambio di questo tipo: "A: ti ho
incontrato l'altro giorno, ti ho salutato, ma tu non mi hai neanche
risposto! / B: scusami, non ti ho proprio visto"; mentre sarebbe
irragionevole una battuta del tipo: "A: ti ho incontrato l'altro giorno,
ti ho salutato, e tu mi hai risposto!". Questo esempio, al di là della
sua banalità (ma è attraverso queste "banalità" della vita quotidiana
che si costruisce un ordine sociale) mostra come certi corsi di azione
siano tanto prevedibili da non richiedere commenti o altro lavoro
discorsivo. Sulla base di questo principio, è possibile ipotizzare dei
criteri di predicibilità non soltanto del turno immediatamente
successivo, ma anche dello sviluppo di intere sequenze della
conversazione. Ad esempio, nelle conversazioni informali, il racconto di
una piccola disavventura quotidiana, è seguito da commenti di
solidarietà e di conforto o da racconti analoghi da parte degli altri
partecipanti all'incontro: è cioè predicibile che certe azioni rendono
rilevanti certi comportamenti e non altri. Queste azioni sono definite,
nella terminologia dell'AC "preferite" in quanto non marcate e percepite
come più consuete nella comunità parlante. Naturalmente il singolo può
distaccarsi da questa norma di comportamento: può tacere, cambiare
discorso o esprimere apertis verbis il proprio disinteresse al
racconto: questo comportamento viene definito "dispreferito", in quanto
percepito come meno consueto e che quindi richiede, per mantenere
accordo e sintonia, scuse o giustificazioni, cioè mosse rimediali
che "correggano" la deviazione dalla norma.
1.3 Il parlato in contesti istituzionali.
Come si diceva, i primi studi dell'AC hanno considerato in modo
particolare la conversazione comune, informale, non strutturata, cioè
quella in cui tutti i parlanti hanno lo stesso tempo a disposizione e
gli stessi diritti di proporre un discorso, cambiare argomento,
esprimere la propria opinione, ecc., incontri, cioè, in cui le relazioni
fra i parlanti sono paritarie e simmetriche. Il parlato conversazionale
è stato visto "sia come il luogo primario della socializzazione, sia
come una precondizione, e allo stesso tempo un risultato, della vita
sociale organizzata" (Schegloff 1992:1296). In un secondo tempo l'AC ha
cominciato a descrivere le interazioni in cui certi parametri (ad
esempio il tempo a disposizione, il diritto di fare domande, il dovere
di dare certe risposte, la possibilità di decidere l'argomento di
conversazione), sono distribuiti in maniera non casuale ma
pre-determinata. Si è occupata quindi di interazione in contesti
istituzionali: colloqui medico-paziente; interazione in classe,
interrogatori in tribunale, interviste giornalistiche, colloqui di
lavoro, incontri in strutture di pubblico servizio. Spesso tali ricerche
sono originate dal fine "pratico" di migliorare l'efficacia e la
accettabilità degli incontri istituzionali: ad esempio sono stati fatti
studi sui meccanismi delle interviste agli uffici di collocamento per
vedere se o come venivano discriminate certe categorie sociali o etniche
a favore di altre; oppure le analisi condotte sull'interazione in classe
hanno cercato di capire se o come la qualità dell'interazione
insegnante/studente e studente/studente incideva sull'apprendimento
degli allievi.Da un punto di vista teorico, queste ricerche sono partite
dall'assunto che non era il contesto dato a priori (ad esempio
un'interrogazione in classe) a determinare certi comportamenti
discorsivi, ma che erano i partecipanti stessi, attraverso le loro
azioni, a creare il contesto. In altri termini
l'analisi conversazionale non accetta l'idea di
un contesto come precostituito rispetto all'interazione, composto
di fattori come sesso, età, status sociale di partecipanti che
determinano l'andamento dell'interazione, ma sostiene una visione
flessibile e riflessiva del contesto. Non è il contesto a
predeterminare l'interazione ma è questa che lo modella, lo
plasma; anzi più esattamente sono i membri che momento per momento
lo costituiscono, creano con le loro azioni il contesto.
(Orletti 1994b:70). |
Il punto messo in rilievo dall'AC è che uno stesso "evento", poniamo
un'interrogazione, può essere condotto in modi diversi, lasciando, ad
esempio soddisfatti o frustrati i partecipanti, che turno dopo turno,
possono dire e fare le cose "sbagliate", o al contrario, creare con
l'interlocutore un rapporto facile e collaborativo. I partecipanti,
cioè, anche all'interno delle regole che costituiscono l'evento (nel
nostro esempio è l'insegnante che deve interrogare e lo studente che
deve rispondere) possono localmente creare contesti diversi: trasformare
l'interrogazione in un interrogatorio di terzo grado, o in una piacevole
conversazione o, ancora, in un'esibizione del sapere dell'insegnante.
Per fare un esempio, osserviamo un frammento di interazione
in classe. E' tratto dal
corpus del LIP, Lessico di Frequenza dell'Italiano Parlato,
(De Mauro et al 1993). Leggendo l'inizio della trascrizione di
un'interrogazione di geografia alla scuola Media, si ha l'impressione
che l'insegnante sia particolarmente direttiva e impositiva. Vediamo se
questo giudizio intuitivo può essere sostenuto dall'analisi:
1 A: allora
vediamo un attimino oggi eh Roberto eh comincia un attimino te per
cortesia a farci la presentazione di uno degli stati europei che abbiamo
studiato quest'anno # quale
2 B: Scandinavia
3 A: preferisci_ raccontare?
la Scandinavia bene sappiamo sempre di dover seguire che cosa? uno
schema che voi stessi avete eh formulato allora come cominciamo a
presentare questa nazione
4 B: la Scandinavia e'_
prevalentemente
5 A:
vai vicino alla carta geografica e fammi vedere un attimino allora come
si presenta di solito una regione?
L'interrogazione è (o dovrebbe essere) costruita attraverso domande e
risposte. Come si diceva, sulla base delle coppie adiacenti, una domanda
rende immediatamente rilevante una risposta. Alla domanda al turno 1 lo
studente risponde (Scandinavia). L'insegnante al turno 3 formula
un'altra domanda (preferisci raccontare?) e senza dare il tempo di
rispondere (non c'è nessuna pausa dopo la domanda) accetta l'argomento
proposto precedentemente dallo studente e fa una domanda sulla
metodologia dell'esposizione. Anche a questa domanda non lascia il tempo
di rispondere e propone lei stessa lo schema di presentazione. Chiude
questa fase del discorso (segnalato da "allora" che marca il passaggio
da un argomento all'altro) e sollecita lo studente a esporre il suo
argomento. Questi inizia la presentazione, ma dopo quattro parole è
interrotto dall'insegnante che - senza scusarsi dell'interruzione - dà
altre istruzioni; ancora una volta l'insegnante non aspetta la risposta
e ripete la domanda alla quale lo studente aveva più volte tentato di
rispondere.
Un'analisi di questo genere ci mostra che l'insegnante appare
"sgradevole", perchè ha sistematicamente violato la "norma"
dell'interrogazione (oltre che le norme della conversazione comune): ha
fatto una domanda e non ha aspettato la risposta, ha sollecitato una
risposta che lui stesso aveva impedito di produrre, ha interrotto la
risposta (mossa dispreferita), con altri ordini. E' un buon esempio,
inoltre, di come l'interrogazione non sia solo un costrutto aprioristico
al quale entrambi i partecipanti fanno riferimento, ma sia una cornice
all'interno della quale, localmente, azione dopo azione, vengono
rinegoziati o confermati i ruoli dei partecipanti.
2. Analisi della Conversazione e didattica delle lingue straniere.
La rilevanza dell'AC per la didattica delle lingue straniere riguarda
aspetti diversi, sia sul piano dei contenuti, sia su quello
metodologico. Innanzi tutto l'analisi ci fornisce una serie di
indicazioni (che altri approcci descrittivi trascurano) su che cosa
osservare in una trascrizione di un testo parlato, in particolare
analizza "quello che si fa" in un conversazione, prestando attenzione
sia ai "dettagli", sia al "quando", cioè alla posizione degli enunciati
nella sequenza del discorso e alla posizione della sequenza all'interno
dell'incontro.
2.1. Il "quando".
Il significato di un enunciato dipende anche dalla sua posizione
nel discorso. L'importanza del quando o dove si dice qualche cosa è
stata trascurata dagli approcci pedagogici, non solo a base grammaticale
o strutturale, ma anche da quelli a base funzionale.
Questi, come è noto, organizzano il syllabus per concetti o nozioni
(spazio, tempo, relazione ecc.) e per funzioni (chiedere e dare
informazioni, esprimere dubbio, accordo, piacere, dispiacere, ecc.)
cercando di fornire ai discenti gli strumenti linguistici per realizzare
le proprie intenzioni comunicative.
Attraverso un esempio inventato cerchiamo di chiarire
l'importanza del "quando". Un'affermazione come "carino", analizzata a
livello semantico suggerisce un significato positivo, analizzata in
termini di azione linguistica suggerisce "apprezzamento". Osserviamola
ora inserita in due sequenze diverse:
A e B stanno uscendo dal cinema e commentano il film:
A: Stupendo! un
vero capolavoro!
B: Carino.
A: Bellino, vero?
B: Carino.
Se consideriamo l'espressione di B (carino) in relazione a quello
che ha detto A, notiamo che nel primo caso è un apprezzamento limitato,
e in parziale disaccordo con l'opinione di A; nel secondo è un
apprezzamento in accordo con A. Vediamo come potrebbero proseguire gli
incontri:
A: Stupendo! un vero
capolavoro!
B: Carino.
A: Non ti ha entusiasmato,
vero?
B: Bellino, vero?
B: Carino.
A: Si vede proprio volentieri.
Nel primo caso, dopo l'enunciato "Carino" inizia una sequenza per
chiarire il disaccordo d'opinioni, nel secondo caso c'è una ratifica
esplicita dell'accordo che si è manifestato. In altri termini
l'enunciato "Carino" ha valore diverso a secondo della posizione nella
sequenza e rende rilevanti azioni diverse.
2.2. Le fasi dell'incontro e i "dettagli".
Come si diceva, l'AC pone attenzione ai dettagli, fornendo
informazioni sull'interazione verbale rilevanti per la comprensione e
per la produzione del discorso
orale. Numerosi sono ormai i tratti conversazionali studiati
anche per l'italiano: ad esempio dove compaiono e che funzioni hanno le
ripetizioni (Bazzanella 1994a) o i segnali discorsivi, come ah be'
praticamente, allora (Contento 1994, Bazzanella 1994a,b;
Zorzi1996b), come funzionano le interruzioni (Zorzi 1990, Bazzanella
1994a); come si aprono e si chiudono gli incontri (Aston 1995b, 1995a);
come ci si corregge dopo aver fatto un errore e come si reagice quando
si viene corretti (Testa 1991, Zorzi 1996a); come si reagisce
davanti ad azioni dipreferite (Zorzi et al 1990, Gavioli 1995). Alcune
di queste informazioni cominciano a comparire in qualche
materiale per l'insegnamento dell'Italiano L2. Possiamo distinguere
due modi in cui i questi elementi hanno una collocazione nella
didattica: da un lato abbiamo liste di funzioni (ad es. "segnalare
dubbio o incredulità") che possono essere attivate tramite varie forme
(ad es. segnali discorsivi quali forse, veramente, però; o
ripetizioni, con intonazione dubitativa, del segmento su cui si hanno
perplessità); dall'altro liste di forme, ciascuna delle quali può
attivare una serie di funzioni. Nel primo caso, il fuoco è sullo
sviluppo della capacità di conversare del discente, intendendo per
capacità di conversare una serie di abilità: mantenere il discorso,
cedere il turno, coinvolgere interlocuori, esitare, segnalare il
desiderio di intervenire ecc. Nel secondo caso, il fuoco è sui singoli
elementi (ad esempio liste di segnali discorsivi, formule di cortesia, o
saluti) di cui si riconosce il contributo alla significatività del
discorso, e che quindi vengono presentati ai discenti, affiancati da una
serie di significati possibili.
2.3. Osservare una trascrizione.
Per vedere la rilevanza dei dettagli e della posizione degli
enunciati, analizziamo la trascrizione di una telefonata tratta dal LIP,
notando come alcuni dei tratti sopraelencati siano assolutamente
determinanti per capire come i due interlocutori negoziano le
informazioni e il rapporto interpersonale.
Questa è la situzione: B, un idraulico, telefona a casa di A,
per scusarsi di non essere andato a fare un lavoro che aveva promesso di
fare. A gli dice che hanno già chiamato un altro idraulico e spiega
perchè.
1 A: si'?
2 B: buonasera sono XYZ
chi e'?
3 A: eh sono XYZ il
figlio
4 B: ciao_ eh c'e' papa'?
5 A: no papa' non c'e'
6 B: senti_ io dovevo
dir<gli> io ho provato a chiamare l'altro ieri ma un sacco de vorte ma
il telefono non funzionava
7 A: ah ho capito ma_
era occupato che e' successo?
8 B: no perche' dovevo
avvisare_ papa' per quel lavoro che dovevo venire a f<are> che doveva
venire quel collega che poi non e'venuto
9 A: ahah infatti
10 B: sia per scusarmi e sia per
dije che venivamo domani oramai
11 A: e no pero' ?s? purtroppo c'era
<?> aveva iniziato a gocciolare giu'
12 B: ahah beh?
13 A: e allora abbiamo dovuto
chiamare un'altra persona
14 B: che e' successo?
15 A: niente era il tubo dell'acqua
calda l'entrata dell'acqua calda praticamente dal bide'
16 B: dal bide'_?
17 A: ahah si' aveva iniziato a
gocciare e mia zia era preoccupata e'venuta su allora abbiamo deciso di
chiamare un'altra persona
18 B: ho capi<to> hanno hanno fatto
un buco che hanno fatto?
19 A: eh hanno levato la mattonella
la mattonella sopra il bide' e per fortuna era proprio quello li'
20 B: ahah si' e' quello che avevo
detto io pure a papa' dico qui c'e'da leva' sta mattonella insomma
21 A: si' era quello li'
22 B: senti mi fai chiamare stasera
da papa' per piacere?
23 A: va bene
24 B: eh?
25 A: okay glielo dico
26 B: ecco eh anche per chiedeje
scusa perche' io d' altra parte so' stato fuori XYZ_ invece non e'
potuto venire e no<n> e non ha potuto neanche avvisare capito?
27 A: ho capito va bene
28 B: va bene_?
29 A: va benissimo
30 B: ti ringrazio e ti chiedo scusa
ancora
31 A: niente arrivederci
32 B: ciao
Osservando l'incontro nel suo sviluppo, dopo la sequenza d'apertura
(1-5), B, prima di esporre la ragione della telefonata inizia un turno
di scuse (6), che si configurano come "colpa di qualcun altro", nello
specifico il telefono non funziona. Questa affermazione rende rilevante
una mossa di accettazione (come in questo caso: sì il telefono era
occupato) da parte dell'interlocutore. Questi sollecita la ragione
della telefonata e l'idraulico prima parla del lavoro che lui stesso
doveva venire a fare, poi si autocorregge e "accusa" il collega "che non
era venuto". A. accetta con un "infatti" la definizione della situazione
proposta da B. Ciò rende rilevante una proposta da parte dell'idraulico:
"veniamo domani". Come si accennava precedentemente la seconda parte
preferita di una proposta è l'accettazione. In questo caso però A non
può ccettare la proposta in quanto hanno chiamato un altro idraulico.
Rifiutare una proposta è una mossa dipreferita e richiede un lungo
lavoro rimediale. Il turno di A (11)è costellato da difluenze ("e"
iniziale, marche di incertezza come una falsa partenza "-s-", una
seconda falsa partenza (c'era, aveva cominciato ... purtroppo) segnali
che preparano l'informazione negativa. L'idraulico la sollecita in
maniera esplicita, nonostante il "no" al turno 11 (ahah beh?) e A
comunica che hanno chiamato qualcun altro. A questo punto inizia una
lunga sequenza sul problema tecnico (14-21) in cui l'idraulico fa
sfoggio di tutta la sua competenza: la sequenza si conclude con
l'accordo esplicito di A sull'interpretazione che B aveva dato del
problema.
Con questa sequenza di azioni, i due interlocutori non solo
si sono scambiati le informazioni essenziali per risolvere il problma
pratico, ma hanno lavorato sistematicamente per mantenere la faccia
(l'idraulico non è venuto, ma è competente; A. ha chiamato un altro,
però il poblema era drammatico ed era proprio quello identificato
dall'idraulico): si è arrivati a questa affermazione, attraverso
un'analisi dei dettagli: tempi, pause, ripetizioni (elementi - ripetiamo
- che segnalano all'interlocutore come deve essere interpretatato
l'enunciato), analisi che ha mostrato come tutta la conversazione si sia
svolta "secondo le regole": le domande hanno avuto risposta, sulle
affermazioni c'è stato accordo, le azioni dispreferite (ad esempio
rifiutare una proposta) sono state rimediate.
Inoltre la sezione di chiusura è molto articolata, si
protrae, infatti per 10 turni, riflettendo, nella sua complessità,la
problematicità dell'incontro:
Le conclusioni di una telefonata e di tipi
analoghi di conversazione sono una faccenda delicata, sia dal
punto di vista tecnico, (nel senso che devono essere formulate in
modo tale che nessuno dei partecipanti si senta costretto a porre
termine alla conversazione quando ha ancora cose urgenti da dire)
sia dal punto di vista sociale (nel senso che conclusioni troppo
frettolose o troppo lente possono dar adito ad inferenze
spiacevoli sulle relazioni sociali fra i partecipanti).
(Levinson 1983, 1985:393) |
Nelle telefonate non conflittuali, si sono identificate (Levinson
1983) quattro fasi che costituicono la conclusione della telefonata: un
argomento i chiusura (accordi; ripresa dell'argomento principale della
conversazione, saluti alla famiglia ecc.); una o più coppie di turni di
passaggio (va bene, d'accordo ecc.); un'eventuale personalizzazione
della chiamata (ad esempio scuse o ringraziamenti, seguiti da altri
elementi che precedono la chiusura dell'incontro); uno scambio finale di
elementi terminali. Nel nostro esempio compaiono tutte le sezioni:
l'argomento di chiusura è dato dalle scuse, accettate da A, per il
mancato servizio (26 - 27), seguono i turni di passaggio (28 -29) per
segnalare un accordo generico; c'è quindi una personalizzazione della
chiamata (30), in cui l'idraulico ribadisce le proprie scuse, accettate
con "niente", mossa preferita per minimizzare una "colpa", quindi uno
scambio finale di elementi (31 -32).
2.5 Implicazioni didattiche.
In che modo un'analisi del genere è rilevante per la didattica?
Dal punto di vista dei contenuti, perché fornisce informazioni sull'uso
linguistico non altrimenti accessibili per lo studente; dal punto di
vista della metodologia perché, sottolineando il lavoro congiunto dei
partecipanti all'interazione, consente delle attività che mirano a
sviluppare una competenza procedurale nell'allievo,
Solo conoscendo le caratteristiche della comunicazione reale,
si può aiutare lo studente ad usare la lingua in modo adeguato ai
diversi contesti. Normalmente lo studente non ha accesso alle
trascrizioni di
dialoghi reali, sia per l'ovvia difficoltà di registrare e di
trascrivere gli incontri, sia perché può mancare la strumentazione
teorica per rendere fruibili,a livello pedagogico, testi che appaiono
confusi e "difficili", appesantiti dai tratti propri dell'oralità.
Inoltre i dialoghi che compaiono nei libri di testo sono scelti (se non
adattati o costruiti) in quanto "esempi" di qualcosa (di come ci si
saluta, di come si chiedono informazioni, di come si può parlare di
politica o di come si può descrivere un appartamento o raccontare una
vacanza). Sono cioè testi orali presentati come modello di un possibile
comportamento linguistico in un contesto dato a priori. L'artificiosità
di certi dialoghi è comune percezione di ogni insegnante di lingua:
parecchi studiosi, quindi, hanno cominciato a utilizzare le interazioni
della vita quotidiana come base di confronto con i dialoghi dei libri di
testo (Thomas 1984; Scotton e Bernstein 1988; Price 1995). Anche
considerando dialoghi non precedentemente scritti (improvvisati, o
registrati nella vita reale), ma selezionati a scopo didattico, hanno
sistematicamente rilevato differenze: "le interazioni reali faccia a
faccia e le interazioni telefoniche contengono più parole e più turni
di quelle contenute nei dialoghi e nei libri di testo" (Price 1995:71).
Inoltre nei dialoghi dei testi compaiono frequentemente forme, che sono
più rare nelle conversazioni reali: e ciò allo scopo di presentare allo
studente un'ampia gamma delle potenzialità della lingua, senza tener
conto che:
presentando allo studente l'intera serie di
possibilità strutturali della lingua d'arrivo, o la lingua come
potrebbe essere, impediamo allo studente di cogliere la lingua
come essa veramente è.
(Di Vito 1991:339) |
Commentando i dialoghi dei libri di testo Argondizzo pone una serie di
domande molto precise:
- attraverso l'input linguistico
riusciamo a insegnare quelle convenzioni tipiche di conversazione
e del parlato che sovente e spontaneamente vengono utilizzate durante
l'interazione verbale naturale?
- la lingua presentata attraverso i
dialoghi rispecchia modi di dire ed espressioni tipiche della
conversazione naturale?
- o, al contrario, proponiamo
dialoghi che presentano la lingua come un oggetto verbale perfettamente
confezionato e spesso basato su forme stereotipe del linguaggio?
- l'input socioculturale che i
dialoghi dovrebbero fornire amplia le conoscenze dei ragazzi verso altri
modelli di interazione conversativa, rendendoli consapevoli che esistono
varie e diverse modalità di conversazione rapportate alla realtà
socioculturale della lingua parlata?
(Argondizzo 1995:82)
La sua risposta è che la distanza fra i dialoghi dei testi e la
conversazione reale è tale da rendere necessario, sul piano della
didattica quotidiana, integrare i materiali con attività che rendano gli
studenti consapevoli della differenza. L'AC indica alcuni modi con cui
ci si può accostare a un testo orale. Innanzi tutto la conversazione non
è presentata come un modello da imitare. Come si è visto dall'analisi
nel paragrafo precedente una semplice telefonata di servizio, diventa un
problema di negoziazione di rapporti personali e di identità
professionale. Assumendo, dunque che i partecipanti si adeguano l'uno
all'altro per gestire localmente, turno dopo turno sia il rapporto che
l'informazione, il concetto di "conversazione modello" viene fortemente
indebolito. Ciò non vuol dire che allo studente non si devono presentare
conversazioni fra due parlanti nativi o fra un parlante nativo e uno
non-nativo (situazione, per definizione più vicina a quella del nostro
apprendente): lo studente deve essere abituato a vedere come i
partecipanti si adattano l'uno all'altro, quali procedure attivano per
arrivare a una reciproca comprensione. Ciò può essere molto utile, non
per capire quella specifica conversazione, nè tantomeno per riprodurla,
quanto per sviluppare la
capacità; di risolvere i problemi di comprensione e di
adeguamento discorsivo che si porranno nelle infinite e imprevedibili
interazioni che dovrà sostenere. In altri termini, nessuna telefonata a
un idraulico sarà uguale, e probabilmente neanche simile a quella che si
è precedentemente analizzata: potranno essere, invece, ricorrenti i
problemi di salvaguardare la faccia propria e quella altrui, trovando un
accordo conclusivo.
2.6. Il punto di vista contrastivo.
Gli esempi precedenti sottolineavano l'importanza per lo
studente di essere esposto a reali interazioni, attraverso le quali
diventare consapevole delle norme discorsive della lingua che sta
studiando. Ugualmente può essergli utile riflettere sia sui meccanismi
conversazionali della propria lingua, sia essere guidato a confrontare
la propria lingua madre con l'italiano. Ad esempio esistono studi
sistematici che confrontano
incontri italiani e inglesi.
Le analisi condotte finora sulla struttura della
conversazione nelle due lingue, mettono in evidenza differenze di due
diversi ordini: uno essenzialmente strutturale, che mostra quali
meccanismi vengono messi in atto nelle due lingue, per risolvere lo
stesso problema conversazionale: ed uno maggiormente legato ai
contenuti, che vede sistematiche differenze nel che cosa si dice, quale
argomento viene utilizzato per risolvere lo stesso problema.
Una delle più importanti differenze strutturali - a livello
di interazione - fra l'italiano e l'inglese, sta nel fatto che la
risposta dispreferita in italiano è data immediatamente, con un "NO",
all'inizio del turno, che suona maleducato o aggressivo per il parlante
anglofono. Il parlante anglofono, da parte sua, prima di produrre una
parte dispreferita, la prepara con suoni incerti, riempitivi, quali "well",
"ehm" ecc. che, al parlante italofono, suonano con marche di incertezza,
o per rimanere nello stereotipo, di "ipocrisia", verbalizzabile in "la
risposta è "NO", ma non me lo vuol dire". Questo fatto, oltre a una
serie di conseguenze sulla struttura globale degli incontri, porta
l'interlocutore dell'altra cultura a trarre inferenze negative: per lo
studente diventa quindi importante, in previsione di incontri reali,
sapere che, se applica il proprio comportamento discorsivo - di cui può
non essere consapevole - può essere malinterpretato.
2.7 Tecniche d'osservazione.
Osservare le procedure che i parlanti attuano per raggiungere
una reciproca comprensione è produttiva per lo studente, in quanto
l'aiuta a diventare consapevole delle convenzioni discorsive che
regolano il comportamento quotidiano, sia nella propria lingua, sia in
quella d'arrivo. L'osservazione, comunque, da un lato fa sì che lo
studente abbia informazioni su certe manifestazioni linguistiche,
dall'altro mostra come tali informazioni possano essere utilizzate in
maniera appropriata durante l'interazione col mondo extrascolastico.
L'osservazione, quindi, deve essere propedeutica di attività di
comunicazione. Riassumo, a titolo d'esempio, una proposta didattica
(elaborata da Argondizzo 1995: 98-99) su come far lavorare gli studenti
sulle strategie di esitazione tanto frequenti nel parlato spontaneo.
L'insegnante fa analizzare varie trascrizioni, e fa notare gli elementi
verbali che indicano esitazione. Li scrive quindi sulla lavagna: mmmm,
ehm, ma, allora, non so, forse, praticamente, laaaa (articolo con
allungamento della finale), cioè. Dà quindi indicazione agli studenti di
pensare a un un breve raccontino da fare alla classe, qualcosa che è
successo, una notizia letta o altro, comunque un argomento scelto da
loro. Durante il discorso non potranno né interrompersi, né restare in
silenzio mentre pensano: dovranno invece utilizzare le strategie di
esitazione segnate sulla lavagna.
In questa sede, comunque, mi limito proporre diverse modalità
d'osservazione, senza entrare nell'ambito di
attività comunicazione più complesse. L'osservazione delle procedure
può essere gestita in classe in vari modi: attraverso il confronto fra
la produzione simulata dello studente e un testo prodotto in situazioni
reali; attraverso un lavoro di riflessione, guidato, ad esempio da
domande di comprensione per un testo trascritto; attraverso la
comparazione fra l'organizzazione della conversazione nella lingua madre
dello studente e in italiano. A titolo d'esempio si propongono alcuni
suggerimenti pratici, facendo riferimento agli incontri reali
precedentemente citati.
1) confronto fra la produzione simulata dello studente e una
trascrizione di un incontro reale.
L'insegnante organizza un role-play
per gruppi di tre persone: B fa l'idraulico, A il cliente, C registra e
osserva l'interazione fra A e B. L'insegnante dà la situazione: B, un
idraulico, telefona a casa di A, per scusarsi di non essere andato a
fare un lavoro che aveva promesso di fare. A gli dice che hanno già
chiamato un altro idraulico e spiega perché.
La registrazione del dialogo fra gli
studenti viene quindi confrontata con la trascrizione del dialogo
autentico, e si analizzano le strategie che sono state usate. E' molto
probabile, che l'attenzione degli studenti si concentri maggiormente
sullo scambio di informazioni (qual'era il problema, perché l'idraulico
non è venuto ecc.), perché essendo una situazione simulata, il problema
di salvarsi la faccia (come "bravo" idraulico e "bravo cliente") passa
in secondo ordine. In questo caso il confronto con la nostra
trascrizione è significativo, perché mette in rilievo che, nella vita
reale, diversamente che nei dialoghi didattici, molto lavoro discorsivo
è finalizzato a stabilire e mantenere buone relazioni personali, più che
a scambiarsi informazione (Aston, 1988).
2) domande di comprensione sul "non detto".
Queste domande non riguardano le
informazioni che vengono scambiate dai partecipanti a un incontro, ma
piuttosto sono una traccia perché lo studente osservi il modo con cui
viene gestito l'incontro. Ad esempio l'insegnante dà gli studenti la
trascrizione dell'interrogazione di geografia e chiede di rispondere
alla domanda "Perché l'insegnante sembra impositivo e poco simpatico?".
Per rispondere invita ad osservare l'alternanza delle domande e delle
risposte, il tempo che concede dopo una domanda, e il numero delle
domande che pone.
3) confronto fra interazioni nella lingua madre degli studenti e fra
italiani.
L'insegnante propone un role-play e fa lavorare a coppie gli studenti
della stessa lingua madre. Questa è la situazione: A fa l'insegnante
e B lo studente. A ha prestato a B il registratore della scuola. B l'ha
rotto e deve dirlo all'insegnante.
La simulazione viene registrata e trascritta: si analizzano quindi le
formule di scusa usate da B, (che cosa dice e quando), i probabili
segnali di imbarazzo, il modo con cui B propone azioni rimediali al
danno; il modo con cui l'insegnante accetta o non accetta delle semplici
scuse. Questo lavoro permette allo studente di rendersi conto i "quello
che fa" nella propria lingua.
Successivamente l'insegnante può dare
la trascrizione di un analogo role-play fatto da studenti italofoni, per
vedere se le strategie usate per giustificarsi sono simili o diverse, se
o come l'insegnante accetta le scuse, se c'è un racconto di come si è
potuto rompere il registratore, e nel caso, come sono strutturati, ecc.
Ciò permette di vedere la relatività dei comportamenti linguistici.
L'osservazione e la riflessione su questi aspetti della lingua mette
lo studente in una prospettiva dinamica: la lingua è vista non come un
oggetto statico, soggetto sempre e comunque a regole fisse, ma come un
sistema di regolarità negoziabili e di comportamenti possibili. E' avere
introdotto questa prospettiva nell'insegnamento delle lingue il
contributo, a mio parre più significativo dell'Ac alla pedagogia
linguistica.
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- ¿Cuál es el secreto para un largo amor? :
El diálogo entre las diferencias.
Mario Benedetti |