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da Antimafia DOSSIER Organizzazioni criminali, grandi holding finanziarie e
società di costruzioni guardano con sempre maggiore attenzione alla
realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, una delle opere più
devastanti rilanciate dal governo Berlusconi-Lunardi. Antonio Mazzeo - Luglio 2002 Cap. 1 – Mani criminali sull’affare del Ponte Tra le possibili cause dell’accelerazione del processo di 'mafiosizzazione’
e concentrazione dei poteri criminali nell’area dello Stretto di
Messina, trova sempre più credito l’attesa suscitata dal sogno
trentennale di realizzare un’infrastruttura per l’attraversamento
stabile dello Stretto, oltre 14.000 miliardi di lire d’investimenti
per un ponte di appena tre chilometri di lunghezza (1). Questa tesi trova conforto in quasi tutti i più recenti rapporti
semestrali sullo stato della criminalità organizzata in Italia della
Direzione Investigativa Antimafia. Il primo allarme sugli interessi
suscitati tra le organizzazioni mafiose dalla ventilata realizzazione
dell’infrastruttura, è stato rilanciato in un comunicato Ansa del
22 aprile 1998. “La DIA – si legge - è preoccupata dalla grande
attenzione della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra per il progetto
relativo alla realizzazione del ponte sullo Stretto”. “Appare
chiaro – aggiunge la Direzione Investigativa Antimafia – che si
tratta di interessi tali da giustificare uno sforzo inteso a sottrarre
il più possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione
degli organismi giudiziari ed investigativi” (2). Le mani sul Ponte A prova del patto comune tra le due organizzazioni criminali per la
cogestione dei flussi finanziari previsti per la megainfrastruttura,
gli investigatori segnalano in particolare i “collegamenti” emersi
in ambito giudiziario nella gestione dei grandi traffici di
stupefacenti, tra malavitosi gravitanti nell’area catanese e
personaggi di spicco della ‘ndrangheta appartenenti al clan Morabito
di Africo Nuovo. L’asse strategico tra questi potentissimi gruppi
criminali ed il loro sofisticato modus operandi è stato evidenziato
dalle indagini sull’infiltrazione mafiosa nella realizzazione dei
grandi appalti pubblici nella provincia di Messina, e in particolare
nella gestione di attività illecite nella locale Università degli
Studi (3). La Direzione Investigativa Antimafia ha arricchito questi elementi
d’analisi con gli ultimi due rapporti semestrali sulle attività d’indagine
espletate nell’anno 2001. Ciò che più preoccupa gli investigatori
è la nuova struttura della ‘ndrangheta sorta dopo le guerre tra le
cosche degli ultimi decenni, un’organizzazione criminale “vivacissima”
nel settore del traffico internazionale di stupefacenti e con sempre
maggiori possibilità di infiltrazione negli affari
economico-imprenditoriali, anche grazie alla ridotta attenzione
generale in tema di lotta alla mafia (4). “Gli attuali standard
organizzativi – si legge nella relazione della DIA - hanno
consentito l’acquisizione di ingenti introiti finanziari in grado di
sviluppare, accanto ai tradizionali business, attività di natura
imprenditoriale, apparentemente lecite, che si presentano a costituire
veicoli d’infiltrazione della malavita all’interno del sistema
economico. Una siffatta strategia della ‘ndrangheta è quanto mai
allarmante, soprattutto nell’attuale fase di sviluppo calabrese,
nella quale al sistema imprenditoriale privato sono attribuite grandi
responsabilità per il progresso dell’economia regionale,
soprattutto nel quadro dei cospicui contributi comunitari per il piano
pluriennale ‘Agenda 2000’ e con quelli, pure prossimi, relativi
alla realizzazione del Ponte di Messina”. A questa infrastruttura, è dedicato un passaggio chiave del
rapporto della Direzione antimafia: “Le prospettive di guadagno che
ne deriveranno non potranno non interessare le principali famiglie
mafiose operanti in Calabria. Inoltre l’entità degli interessi per
la costruzione del Ponte e la particolarità dell’opera, sono tali
da far ritenere possibile un’intesa tra le famiglie reggine e Cosa
Nostra, in vista di una gestione non conflittuale delle opportunità
di profitto che ne deriveranno”. Come si vede, gli investigatori
confermano la possibilità di un’intesa ‘ndrangheta-Cosa Nostra
per la suddivisione degli appalti relativi al Ponte dello Stretto, una
compartecipazione affaristica in linea all’impostazione data a Cosa
Nostra in Sicilia dagli uomini affiliati a Bernardo Provenzano,
incline alla trattativa ‘politica’ con le istituzioni dello Stato
ed al recupero del coordinamento regionale delle organizzazioni
mafiose. E’ appunto questa strategia d’intervento che ha
restituito alla mafia la possibilità di sfruttare a pieno le sue
risorse economiche principali: lo sfruttamento parassitario delle
attività commerciali e imprenditoriali locali e il controllo nel
settore degli appalti pubblici e delle imprese siciliane e nazionali
che operano nell’isola. Secondo la DIA, Cosa Nostra avrebbe ripristinato un elevato grado
di controllo sull’imprenditoria, specialmente quella del settore
edile, intercettando sia gli investimenti pubblici sia quelli privati,
“vuoi mediante l’estorsione pura e semplice, vuoi con la
partecipazione diretta ai lavori”. “Con la conseguenza –
conclude la Direzione antimafia - che una rilevante quota delle
risorse investite viene sottratta alla realizzazione dell’opera,
determinandone una esecuzione non rispondente ai criteri qualitativi
stabiliti e la necessità di dare ricorso ad ulteriori e non previsti
finanziamenti”. Uno scenario particolarmente preoccupante proprio
perché affermatosi in prospettiva della “prossima realizzazione di
una straordinaria serie di opere indispensabili per l’adeguamento
delle strutture dell’isola agli standard nazionali ed europei”
(5). Il grande affare del consorzio ‘Ndrangheta-Cosa nostra S.p.A. Sin qui le relazioni ufficiali del massimo organo d’investigazione
antimafia. Alle considerazioni precedenti vanno aggiunte le
dichiarazioni di due tra i maggiori rappresentanti degli organi
giudiziari dello Stretto, l’ex procuratore aggiunto di Reggio
Calabria, Salvatore Boemi, e il procuratore capo di Messina, Luigi
Croce. Boemi, occupatosi di importanti indagini sulle infiltrazioni
mafiose nel tessuto economico calabrese e sull’asse ‘ndrangheta-eversione
di destra-massoneria e politica (6), ha ripetutamente messo in guardia
sui sempre più provati interessi mafiosi per l’accaparramento degli
enormi investimenti pubblici in arrivo a Reggio Calabria. “Il Ponte
è il grande affare del terzo millennio per Sicilia e Calabria: se non
se ne interessa la mafia, ne sarei sorpreso” ha commentato nel corso
dello speciale sul Ponte della trasmissione ‘Sciuscià’ di Michele
Santoro, nel febbraio 2001. "Il ponte sullo Stretto lo vogliono
tutti, sarà un affare da 15 mila miliardi" ha poi spiegato il
dottor Boemi al giornalista Mario Portanova ."Già fra la
richiesta "ambientale" e i subappalti, la mafia si appropria
del 25 per cento dei soldi pubblici che arrivano in Calabria"
(7). Nonostante l’infiltrazione dei gruppi criminali nei grandi
appalti, lo stesso Boemi ha dovuto lamentare la “cancellazione”
del pool antimafia di Reggio Calabria, la “fine di una stagione”
di contrapposizione alle cosche e ai comitati d’affari che “si
preparano al varo del ponte sullo Stretto e ai miliardi europei di
Agenda 2000” (8). Nel mirino delle cosche ci sarebbero anche i quasi mille miliardi
relativi al cosiddetto ‘Decreto Reggio Calabria’, i finanziamenti
del Piano Urban per la riqualificazione del centro urbano e quelli
relativi alla costruzione di nuovi pontili per il collegamento
marittimo Reggio-Messina. “Relativamente al problema del ponte sullo
Stretto – ha aggiunto il procuratore Boemi - vorrei capire come si
possa conciliare questo investimento sull'attraversamento stabile con
i nuovi progetti per dar vita a corsie preferenziali ai fini del
potenziamento del traghettamento dello stesso Stretto di Messina”
(9). Il magistrato cioè, oltre a denunciare il rischio d’infiltrazione
criminale, pone il dito contro la logica degli sprechi delle risorse
economiche e finanziarie e l’assenza di una politica organica dei
trasporti da parte delle classi dirigenti locali e nazionali. Dall’altra parte dello Stretto, ha fatto eco al dottor Boemi, il
Procuratore capo della Repubblica di Messina, Luigi Croce. Nel corso
di un convegno organizzato dalla locale Associazione antiusura, il
magistrato ha denunciato i “contrastanti ed inquietanti” segnali
inviati alla città dal mondo criminale: “È forse all'orizzonte, in
vista anche della possibile costruzione del Ponte, un'alleanza ancor
più stretta tra Cosa Nostra e 'Ndrangheta che passa per la città
dello Stretto, per cui la crisi delle organizzazioni locali potrebbe
semplicemente aprire la strada a un'invasione da parte delle
organizzazioni mafiose esogene”. Anche il dottor Croce denuncia il
clima di “generale rilassamento” in tema di contrasto della
criminalità, fattore che alimenterebbe nella provincia di Messina gli
interessi dei gruppi mafiosi e dei settori dell’imprenditoria in
rapporto con le cosche. “In alcuni casi hanno costituito una vera e
propria “mafia bianca”, meno appariscente di quella dei Riina, dei
Santapaola e, su scala più ridotta, degli Sparacio, ma non meno
perniciosa per lo sviluppo della città” (10). Sui tentativi d’infliltrazione della mafia per l’accaparramento
del flusso delle risorse previste da ‘Agenda 2000’ e dai progetti
per le grandi opere infrastrutturali come il Ponte sullo Stretto, è
recentemente intervenuta anche la Procura di Palermo attraverso il
procuratore aggiunto Roberto Scarpiato. L’allarme è stato ripreso
dagli allora ministri del tesoro Vincenzo Visco e delle finanze
Ottaviano del Turco. Visco, riferendosi espressamente al Ponte sullo
Stretto, ha richiesto che “i controlli e l'azione di prevenzione
siano organizzati con grande attenzione, grande energia e grande
decisione”. Del Turco, già presidente della Commissione
parlamentare antimafia che aveva indagato su criminalità-politica e
affari nel messinese, ha commentato che il Ponte “deve riunire due
realtà, quelle di Messina e Reggio Calabria, in cui ci sono stati
fenomeni che hanno coinvolto la vita delle amministrazioni. E visto
che la mafia si è occupata di tutti gli appalti anche di minima
entità si può immaginare che non metta gli occhi su un appalto di
5-6 mila miliardi?” (11). Un impatto criminale top secret Le dichiarazioni degli ex ministri Del Turco e Visco sono il frutto
di intuizioni soggettive, oppure trovano un fondamento ‘scientifico’
e documentale? In realtà è difficile credere che i due componenti
dell’esecutivo abbiano parlato del ‘rischio infiltrazione’ senza
una lettura del rapporto sul cosiddetto ”impatto criminale del Ponte”,
commissionato nell’anno 2000 al centro studi Nomos del Gruppo Abele
di Torino dagli advisor chiamati dal Ministero dei lavori pubblici a
valutare la fattibilità dell’opera (12). Nonostante le conclusioni
di questo studio siano state secretate dai committenti e dallo stesso
governo, alcuni dei passaggi chiave sono stati rivelati in un articolo
dello studioso Giovanni Colussi pubblicato dal settimanale Carta, ed
in un saggio del sociologo Rocco Sciarrone sulla rivista Meridiana. E’
bene riportarne alcuni passi. “Sono state prese in considerazione le due possibilità offerte
dal ministero dei lavori pubblici e da quello del tesoro: Ponte sullo
Stretto e trasporto multimodale” scrive Colussi. “Trattandosi di
un’esperienza con pochi precedenti, gli autori hanno dovuto
ragionare su un modello interpretativo che potesse offrire un’efficace
descrizione dell’opportunità criminale che si apriva, per i
mafiosi, con un’opera come il Ponte. Ed è stato scelto un modello
di analisi essenzialmente qualitativo, non essendo disponibili dati
sufficienti che consentissero la costruzione di indicatori efficaci
sul piano quantitativo. La storia dei gruppi criminali presenti sul
territorio, e la loro reattività alle opportunità offerte da altre
Grandi Opere, sono state incrociate con le caratteristiche dell’opera
in quanto tale: modalità di costruzione, la presenza o meno di
manodopera specializzata, il livello tecnologico richiesto nelle varie
fasi della lavorazione. Si è cercato quindi di identificare,
attraverso un’analisi del know-how criminale presente in loco, le
parti più a rischio di infiltrazione mafiosa” (13). Per ciò che concerne il contesto geocriminale in cui s’inserisce
il progetto, i ricercatori di Nomos confermano come lo Stretto di
Messina si caratterizzi per essere un’area ad alta densità mafiosa
“in cui le attività criminali sono strutturate e coordinate a
livello organizzativo, e quindi realizzate con sistematicità” (14).
Analizzando il modo con cui mafie e imprenditoria locale e nazionale
hanno interagito principalmente in Calabria per la realizzazione di
grandi opere pubbliche (l’autostrada Salerno-Reggio, il porto e la
centrale di Gioia Tauro, ecc.), il rapporto rileva la notevole
capacità dei gruppi criminali di inserirsi nei grandi appalti
pubblici. “La ‘ndrangheta ha, infatti, saputo imporsi in molte
delle numerose infrastrutture costruite in Calabria dagli anni
sessanta ad oggi. E spesso le strategie di infiltrazione sono state
realizzate stringendo rapporti di collusione con le imprese titolari
degli appalti” e instaurando “rapporti di scambio reciprocamente
vantaggiosi con il mondo della politica e dell’imprenditoria”
(15). Dato il contesto delle relazioni intercorse e dato il controllo
pressoché totale del territorio da parte della ‘ndrangheta, Nomos
giunge a dichiarare “pienamente fondato” il rischio criminalità
della localizzazione dell’infrastruttura in quest’area. Si è di
fronte ad un “danno atteso”, in cui si prefigura un rapporto di
‘cooperazione’ tra le cosche per l’accaparramento degli appalti.
A tal fine la ‘ndrangheta si è dotata, sul modello della struttura
organizzativa della mafia siciliana, di un organismo unitario e
centralizzato di coordinamento in grado di appianare le controversie
interne (16). Si ritiene infine plausibile un vero e proprio “accordo
di cartello” tra i vertici delle cosche di ambedue le regioni: alle
stesse conclusioni, come abbiamo visto, sono giunti gli investigatori
della Direzione Nazionale Antimafia. Lo scenario degli appalti E’ tuttavia più credibile l’ipotesi che i gruppi criminali
puntino alla gestione diretta dei lavori. Come rilevato dall’ex
procuratore di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, la ‘ndrangheta non
punta alle “estorsioni di piccolo cabotaggio”, ma all’ingresso
da protagonista nella gestione diretta delle opere previste nella
provincia di Reggio. “Non vorrei – ha spiegato Boemi - che si
ripetesse in questa occasione l'errore che si fece, anni fa, ai tempi
del costruendo Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro, quando si
rincorrevano piccoli affari mafiosi e si perdeva di vista che la mafia
era entrata nella grande torta” (19). Basta pensare al grado di
condizionamento esercitato dalla ‘ndrangheta durante i lavori di
costruzione della megacentrale a carbone, ancora una volta a Gioia
Tauro. “Non c‘era più soltanto il classico inserimento delle ‘ndrine
nei lavori di sub appalto – scrive lo storico Enzo Ciconte – ma c’era
l’individuazione dell’impresa a “partecipazione mafiosa” la
cui caratteristica essenziale era di “far capo, comunque al mafioso,
ma gestita da un insospettabile prestanome. Inoltre, c’era anche il
consorzio d’imprese che univa insieme imprese mafiose e imprese non
mafiose, e c’era la complicità degli organi istituzionali dell’ENEL”
(20). Sino a qui, in realtà, l’analisi del centro studi del Gruppo
Abele di Torino non appare originale, poiché non ci sarebbero
differenze particolari del ‘rischio criminalità’ nel caso della
realizzazione del Ponte dello Stretto o di una qualsivoglia
megainfrastruttura in qualsiasi parte del territorio a controllo
mafioso. Se però si tengono in conto le specificità tecniche del
progetto (il Ponte in sé con le strutture portanti e le relative
infrastrutture d’accesso, di collegamento e di servizio), è
possibile definire un impatto criminale che ha carattere di unicità
nel panorama delle Grandi Opere. In verità Nomos sostiene che l’elevato
contenuto tecnologico dell’infrastruttura e la necessità di
reperire manodopera qualificata possano essere fattori d’ostacolo
per l’inserimento dei gruppi mafiosi. “La maggior parte degli
elementi che compongono l’impalcato e le torri sono prefabbricati e
preassemblati. Per questi lavori, si può ipotizzare che le
possibilità d’infiltrazione da parte di imprese mafiose o a
compartecipazione mafiosa siano ridotte. Molto dipenderà comunque da
come saranno articolati, lottizzati e appaltati i lavori stessi”
(21). Una tesi difficile da condividere, anche perché risponde ad una
visione assai riduttiva delle capacità d’impresa delle
organizzazioni mafiose e che non tiene conto delle risultanze delle
più recenti indagini. Esiste realmente questa divisione di competenza
tecnologica tra la grande impresa ‘legale’ e l’impresa in mano
ai boss? E non è forse vero che attraverso l’investimento in borsa
di quantità inimmaginabili di denaro sporco, le organizzazioni
criminali siano entrate in possesso di cospicui pacchetti azionari
delle maggiori imprese ‘tecnologizzate’ così da divenire esse
stesse imprese mafiose o a capitale mafioso? La scalata mafiosa al
Gruppo Ferruzzi, holding finanziaria con vasti interessi nel settore
delle infrastrutture a tecnologia avanzata è l’esempio più noto di
questo processo di trasformazione del ruolo imprenditoriale della
criminalità. Proprio alla vigilia della realizzazione delle grandi
opere promesse dal governo Berlusconi, sono stati raccolti ulteriori
segnali che comproverebbero una evoluzione in tal senso delle
relazioni mafia-imprenditoria. Il procuratore Pier Luigi Vigna, in una
sua recente audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia,
ha fatto esplicito riferimento ad “una vera e propria mimetizzazione
in atto delle imprese colluse con la mafia”, fenomeno che si
accompagna ad un vasto movimento delle imprese stesse, una “sorta di
trasmigrazione” da una regione all’altra. Molte società cioè,
avrebbero deciso di trasferire la loro attività e di abbandonare la
Sicilia, lasciando il mercato libero ai grandi gruppi imprenditoriali
del Nord. E’ questo il frutto di un accordo più o meno tacito,
oppure è il segnale di una modifica in atto delle stesse composizioni
societarie delle holding finanziarie a capo delle grandi imprese? Al di là di una possibile sottovalutazione delle capacità
tecnologiche delle imprese mafiose, il rapporto Nomos è importante
perché giunge a quantificare la percentuale delle opere che tuttavia
sarebbero a specifico rischio d’infiltrazione criminale. Il dato di
per sé è allarmante: secondo il ricercatore Giovanni Colussi circa
il 40 per cento delle opere potrebbe alimentare i circuiti mafiosi
(22). E’ nei settori più tradizionali dell’intervento criminale
nei lavori pubblici (movimenti terra, trasporti, forniture di
materiali inerti e calcestruzzi), in cui è più facile glissare
normative e certificazioni antimafia, che secondo i ricercatori di
Torino è possibile un “maggior grado di permeabilità all’azione
di gruppi criminali”. Il Ponte è un megamonumento di cemento ed
acciaio (è prevista la produzione e la movimentazione di oltre 1,1
milioni di tonnellate di cemento, 780.000 metri cubi d’inerti,
69.000 tonnellate d’acciaio, oltre 1,3 milioni di metri cubi di
materia di risulta). I mafiosi “cercheranno di inserirsi proprio in
attività di questo tipo, che costituiscono ormai da tempo i settori
che privilegiano e che in genere tendono a monopolizzare” (23). “Per quanto riguarda le torri – spiega ancora Rocco Sciarrone -
un rischio criminalità potrebbe in ipotesi manifestarsi nella fase di
scavo e della realizzazione delle fondazioni, il cui volume
complessivo è di 86.400 mc in Sicilia e di 72.400 mc in Calabria. In
questo caso, imprese mafiose – già esistenti o più probabilmente
costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una partecipazione
diretta ai lavori, soprattutto per le fasi di scavo e di
movimentazione terra. Lo stesso rischio può essere segnalato per
quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di sospensione,
per le quali è previsto un volume di 328.000 mc in Sicilia e di
237.000 mc in Calabria”. “Se si tiene inoltre conto che per la
realizzazione del manufatto occorrono in totale circa 860.000 mc di
calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più
elevato data la tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi nel
cosiddetto ‘ciclo del cemento’. Lo stesso rischio si rileva in
tutte quelle lavorazioni con procedure esecutive di tipo
standardizzato, che riguardano, ad esempio, verniciature, saldature,
pavimentazioni, ecc.” (24). “Da dove verrà tutto il cemento necessario a costruire il ponte?”,
si domanda il sociologo Osvaldo Pieroni, autore di un eccellente
volume che analizza i limiti dell’infrastruttura. “E chi gestisce
in quest’area il mercato delle attività estrattive, del cemento,
delle costruzioni e degli appalti?”. E’ lo stesso Pieroni a fare
un lungo elenco di famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i
Mammoliti, i Mazzaferro e i Piromalli di Gioia Tauro, gli Iamonte di
Melito Porto Salvo, i Barreca di Pellaro, i Pesce e i Pisano di
Taurianova, i Serraino, i Viola e gli Zagari di Roccaforte del Greco,
i Fazzolari e gli Albanesi di Molochio (25). I nomi sono gli stessi di
quelli segnalati dai più recenti rapporti della Direzione nazionale
Investigativa Antimafia, accanto ai clan Mancuso e Morabito, di cui si
denuncia l’enorme pericolosità “in virtù dei già percorribili
segnali di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale legale”, capace
di “condizionare le procedure di gare d’appalto”. Gallerie, ferrovie e viadotti, la vera manna della mafia del Ponte Ci sono poi le infrastrutture di servizio al Ponte, che nel
progetto comprendono un volume complessivo di fabbricati per ciascun
versante di 2.800 mc, un’area di servizio-ristoro in Sicilia (38.000
mc), un centro commerciale e di ristoro in Calabria (35.000 mc), un
centro direzionale sempre in Calabria con un’area d’assistenza e
soccorso ed una caserma della polizia (15.000 mc), un albergo ad
anfiteatro (23.500 mq), un museo (2.300 mq). “Si tratta di opere
rilevanti, che richiederanno un impegno finanziario non indifferente e
che facilmente possono richiamare gli interessi dei gruppi mafiosi”
afferma il sociologo Rocco Sciarrone. “Il rischio criminalità è
dunque particolarmente elevato, tenendo peraltro presente che tali
opere saranno considerate secondarie – e anche oggettivamente
marginali – rispetto alla realizzazione del manufatto e delle sue
infrastrutture principali. Il livello di “guardia” potrebbe essere
più basso e ciò comporterebbe di conseguenza un maggior grado di
vulnerabilità di queste opere rispetto a eventuali infiltrazioni
mafiose” (26). Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione
mafiosa è quello relativo all’offerta di servizi necessari per il
funzionamento dei cantieri. Oltre alla tradizionale funzione di
guardiania, “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di
inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e
successivamente anche nella gestione dei loro canali di
approvvigionamento. E’ dunque ipotizzabile il tentativo di
controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la
manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi
di ricambio, il trasporto di merci e persone” (27). Un’ultima nota
del rapporto Nomos sul rischio criminalità è riservata al ruolo che
i mafiosi potrebbero cercare di assumere, in termini di
intermediazione e speculazione, sui terreni da espropriare per la
costruzione delle infrastrutture di collegamento e di servizio.
Segnali d’allarme in tal senso, sono stati raccolti dal Forum
sociale di Messina tra gli abitanti della frazione di Faro-Capo Peloro,
in occasione del recente campeggio di lotta contro il Ponte sullo
Stretto. Un 40% delle opere ad alto “rischio di azione criminale”
significano 5.600-6.000 miliardi di lire d’investimenti pronti a
finire nelle mani delle imprese di mafia. Nonostante lo scenario di
forte illegalità e incompatibilità socioterritoriale del progetto
Ponte, il vecchio governo di centrosinistra guidato da Giuliano Amato
ha scelto di occultare i risultati del rapporto, e per bocca del
sottosegretario ai lavori pubblici, on. Antonino Mangiacavallo, ha
ridimensionato l’”impatto criminale” dell’infrastruttura,
assimilandola ad un qualsiasi progetto per il trasporto multimodale.
“Il maggior pericolo, nel caso della realizzazione del Ponte, non
appare legato né alla natura dell'opera né alla sua unitarietà”
ha dichiarato Mangiacavallo, rispondendo ad una serie di
interrogazioni parlamentari. “A rendere più rischiosa tale
soluzione sembra solo essere la sua maggiore dimensione finanziaria
rispetto alla multimodalità, ma se le risorse pubbliche liberate
dalla scelta dello scenario multimodale venissero impiegate per
rendere tale stesso scenario più robusto, costruendo ponti, aeroporti
e strade (...), l'impatto sulla sicurezza dei due scenari diverrebbe
simile” (28). Nonostante il contorto gioco di parole, il
sottosegretario conferma implicitamente che la mafia è pronta a
spartirsi i lavori di realizzazione del manufatto. Al grande appuntamento con il mostro tra Scilla e Cariddi le
autorità si stanno accingendo impreparate e senza gli strumenti
idonei ad impedire il grande banchetto delle cosche criminali
siculo-calabre. Debole e per lo meno inopportuna è la soluzione
auspicata dagli stessi ricercatori del Gruppo Abele, che nel rapporto
sul ‘rischio criminalità’ per i lavori del Ponte prospettano la
creazione di una task force guidata dai magistrati “che opererebbero
come aggiunti presso le DDA di Messina e Reggio Calabria, coordinati
dalla Direzione Nazionale Antimafia e coadiuvati da un apposito nucleo
della DIA, allo scopo di compiere una sistematica attività d’indagine
e di prevenzione nei confronti di tutti i soggetti economici impegnati
nell’opera” (29) Valutare come altissimi i costi in termini di militarizzazione e
controllo mafioso del territorio nel momento in cui si aprirebbero i
cantieri per il Ponte, dovrebbe portare ad una seria messa in
discussione del valore e della fattibilità dell’opera stessa. E’
particolarmente ingenuo pensare che l’enorme impatto sociocriminale
previsto possa essere ‘bilanciato’ e ‘controllato’ dal
potenziamento degli organismi d’indagine e magari di polizia. Il
processo di militarizzazione della Sicilia, la realizzazione di
megaimpianti di guerra sotto il controllo dei più efficienti sistemi
d’intelligence degli Stati Uniti, non ha assolutamente impedito l’infiltrazione
criminale nei cantieri e nei servizi delle basi e degli aeroporti. Di
contro, esso è stato funzionale alla composizione di nuovi e più
agguerriti blocchi sociali moderati e al potenziamento della forza
politico-militare della mafia. La realizzazione delle grandi opere
militari ha avuto l’effetto, non certamente secondario, di ridurre
gli spazi d’espressione democratica e d’organizzazione dei
soggetti sociali antagonisti al modello di sviluppo dominante e al
complesso bellico-industriale. C’è poi da chiedersi perché mai
dovrebbe avere esito positivo l’implementazione di una task force di
magistrati e agenti speciali, in un’area dove le forti contiguità
tra i poteri hanno impedito l’esercizio della giustizia e persino
inquinato e depistato indagini strategiche per colpire i santuari del
crimine… Non è un caso che l’ipotesi di un ‘nucleo speciale d’indagini’
sia piaciuta ai grandi Signori del Ponte. L’on. Nino Calarco,
direttore della Gazzetta del Sud e presidente della Stretto di
Messina, a proposito del rischio d’infiltrazione mafiosa negli
appalti è giunto a proporre di nominare l’ex procuratore
distrettuale della DDA di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, a capo
della task-force che il governo dovrebbe istituire per la verifica
della legalità. “Boemi sarebbe l’uomo giusto anche perché è
stato il primo a sollevare il problema delle possibili infiltrazioni
mafiose” (30). Un tentativo di cooptazione e di legittimazione delle
classi dirigenti locali che non può che essere respinto per la sua
inutilità e pericolosità. Quali sarebbero poi le garanzie e i
supporti che il nuovo governo potrebbe mai dare a task force del tipo
di quella proposta per la ‘vigilanza’ dei lavori del Ponte?
Illuminante in proposito quanto ha dichiarato recentemente il ministro
delle infrastrutture Pietro Lunardi: “Ci siamo preoccupati d’investire
una piccolissima parte delle somme destinate alla realizzazione delle
grandi opere per la sicurezza contro il rischio criminalità. Abbiamo
siglato un accordo con il ministero degli Interni e del Tesoro in
virtù del quale sui cantieri per le grandi opere saranno presenti
tutori dell’ordine a garanzia che tutto avvenga al riparo dalle
pressioni mafiose. Monitoraggio costante, dunque, sui cantieri, come
peraltro sta già avvenendo in altre zone d’Italia” (31). Nient’altro
che fumo: piccolissime somme di denaro e qualche tutore dell’ordine
in più. Per Lunardi, del resto, l’infiltrazione mafiosa nella
gestione delle grandi opere non può essere argomento d’allarme. “Mafia
e Camorra ci sono e dovremo convivere con questa realtà” ha
esternato il ministro nell’agosto 2001. “Questo problema non ci
deve impedire di fare le infrastrutture. Noi andiamo avanti a fare le
opere che dobbiamo fare, e questi problemi di Camorra, che ci saranno,
per carità, ognuno se li risolverà come vuole”. Guerra e stragi per i lavori del Ponte L’eliminazione di Paolo De Stefano fu la risposta, immediata, all’attentato
con un’autobomba cui era miracolosamente scampato il boss Antonino
Imerti, detto ‘nano feroce’, ma che costò la vita a tre persone.
Gli inquirenti non tardarono ad individuare la causa scatenante del
conflitto tra le cosche. “A quanto pare - scrive Enzo Ciconte - la
guerra era da mettere in relazione agli appalti pubblici attorno a
Villa San Giovanni in vista della costruzione del ponte sullo stretto
di Messina che avrebbe dovuto collegare stabilmente le sponde della
Calabria e della Sicilia” (33). Alla stessa conclusione sarebbe
giunto il Tribunale di Reggio Calabria, in una sua recente ordinanza
di arresto contro 191 affiliati alla ‘ndrangheta: “Tra le ragioni
alla base della “guerra di mafia” che ha interessato l’area di
Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, sembra esserci anche il
controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del Ponte sullo
Stretto” (34). La tesi viene sposata dalla Commissione parlamentare
antimafia in visita nel 1989, nella provincia di Reggio Calabria. Pur
senza fare esplicito riferimento all’infrastruttura, la Commissione,
soffermandosi sul caso di Villa San Giovanni, comune che aveva visto
cadere sotto i colpi di lupara affiliati alle cosche e uomini politici
locali, affermava che “i giudici hanno chiarito che in questa
località si è sviluppato uno scontro fra cosche per la gestione di
una cospicua, futura erogazione di denaro. (...). E’ ragionevole
pensare che al centro delle attenzioni da parte della criminalità
organizzata possa essere stato il Comune più importante e produttivo
(Villa San Giovanni) ove peraltro deve essere decisa la realizzazione
di importanti opere pubbliche” (35). In realtà lo scatenamento del conflitto seguì di poco gli annunci
favorevoli alla realizzazione dell’opera “in tempi brevi” da
parte dell’allora governo presieduto da Bettino Craxi. Il leader
socialista arrivò perfino a fissare le date del progetto: “i lavori
del Ponte dovranno iniziare nel 1988 e terminare nel 1996” (36). Le
aspettative furono alimentate dalla firma, sempre nel 1985, della
convenzione Stato-Società dello Stretto di Messina che metteva nero
su bianco sui tempi di realizzazione dell’infrastruttura. L’anno
successivo il ministero dei lavori pubblici diretto da Claudio
Signorile stanziava 220 miliardi per ulteriori studi e sondaggi nell’area
tra Scilla e Cariddi (37). Il rapporto diretto guerra di mafia-Ponte ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Filippo Barreca, deponendo durante il processo contro il boss Giorgio De Stefano ed altri 34 affiliati alla ‘ndrangheta di Reggio Calabria, ha spiegato che il conflitto tra Paolo De Stefano e Antonino Imerti verteva proprio su chi dovesse esercitare la leadership sulla gestione delle opere infrastrutturali: “Liberando il territorio da Antonino Imerti, Paolo De Stefano si assicurava il controllo della zona e, quindi, dei futuri lavori”. L’ex affiliato alla ‘ndrina Filippo Barreca ha aggiunto che fu
proprio l’esigenza di appropriarsi dei cospicui finanziamenti per le
opere pubbliche a spingere le cosche a ricomporre il conflitto “L’interesse
a che fosse ristabilita la pace in provincia di Reggio scaturiva da
una serie di motivazioni, alcune di ordine economico (pacchetto Reggio
Calabria e realizzazione del ponte sullo Stretto) e altre di politica
criminale” ha dichiarato Barreca ai magistrati calabresi. “Anche i
siciliani presero posizione nel senso che andava imposta la pace fra
le cosche del Reggino, essendo in gioco grossi interessi economici la
cui realizzazione veniva compromessa da quella guerra. Mi riferisco al
ponte sullo Stretto nonché ad opere pubbliche che dovevano essere
appaltate su Reggio Calabria”. Il procedimento giudiziario scaturito dalla cosiddetta ‘Operazione
Olimpia’ ha accertato l’intervento dei maggiori esponenti di Cosa
Nostra siciliana per favorire la rappacificazione tra le cosche
calabresi, accanto ai vecchi patriarchi della ‘ndrangheta emigrati
in Canada e ad alcuni esponenti politici reggini vicini ai poteri
massonici e all’eversione di estrema destra. La pace di Reggio
rappresentò una vera e propria svolta nella storia della ‘ndrangheta,
che si riorganizzò sul modello delle ‘commissioni’ delle province
siciliane e con una struttura sempre più impermeabile alle possibili
infiltrazioni esterne. Le ‘ndrine ne uscirono dunque rafforzate e
ben organizzate per partecipare alla spartizione delle nuove opere
pubbliche programmate nell’area. L’estorsione sui sondaggi Una conferma degli interessi di Cosa Nostra nella gestione delle
attività relative alla realizzazione del Ponte è venuta da un altro
importante collaboratore di giustizia, il messinese Gaetano Costa, che
ha riferito di un incontro tenutosi a Roma intorno all’82-83 tra il
suo ex braccio destro Domenico Cavò, poi assassinato, e il boss Pippo
Calò, mente economica delle cosche vincenti di Palermo, “per
discutere una questione concernente l’inserimento della mafia nella
gestione di alcuni sondaggi geologici in vista della possibile
realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”. Questa dichiarazione ha trovato conferme in ambito processuale, nel
cosiddetto procedimento ‘Olimpia 4’, condotto contro le famiglie
dei Rosmini, dei Serraino, degli Imerti, dei Condello, dei Latella e
dei Paviglianiti, responsabili di una serie di episodi estorsivi e di
un vasto traffico di stupefacenti nella provincia di Reggio Calabria
(38). Grazie ai collaboratori di giustizia è stata, infatti, provata
l’attività estorsiva nei confronti dei responsabili della ATP -
Giovanni Rodio S.p.A. di Milano, la società incaricata delle
trivellazioni e dei sondaggi idrogeologici nel corso degli studi di
fattibilità del Ponte sullo Stretto, da parte di Ciccio Ranieri, boss
di Campo Piale, legato al clan Imerti (39). Per questa estorsione, Ciccio Ranieri è stato condannato in
appello a tre anni e quattro mesi di reclusione; ad accusarlo, è
stato il pentito di mafia Maurizio Marcianò, che ha pure identificato
i dirigenti della società che gli avevano versato alcuni milioni di
lire. L’atteggiamento dei funzionari della Rodio S.p.A. è stato
scarsamente collaborativo e in sede di dibattimento è accaduto
perfino che il capo cantiere dell'impresa, arrivato dall'estero per
testimoniare, nonostante l’ammonimento del presidente della Corte,
insistesse nel non riconoscere l'imputato Ranieri (40). Cap. 2 – Messina, il Ponte e i Poteri Occulti Lo Stretto di Messina, snodo degli interessi criminali E stata ancora una volta la Direzione Investigativa Antimafia ad
analizzare opportunamente il ruolo storico giocato da Messina per l’alleanza
strategico-operativa delle cosche siciliane e delle ‘ndrine
calabresi. Le risultanze delle indagini hanno accertato che grazie
alla sua posizione geografica, la provincia di Messina rappresenta uno
“snodo vitale”, una sorta di “area comune”, non solo per l’economia
siciliana ma anche per gli interessi di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta. La provincia di Messina, scrive la DIA, è “caratterizzata da
vivaci e complesse dinamiche criminali locali in cui si evidenziano
costanti interferenze mafiose di diversa estrazione e provenienza che,
tuttavia, non sembrano mirare alla impostazione di un modello di
struttura criminale verticistico con competenza su tutto il territorio
della provincia. Si registra l’influenza di circuiti malavitosi
collegati alla Calabria, anche in funzione di proiezioni verso zone ad
elevata criminalità mafiosa del catanese e del palermitano, contigue
a quella messinese”. Storicamente la “massiccia infiltrazione” nel territorio
peloritano dei Corleonesi e dei clan catanesi è riferibile ai primi
anni ‘80, mentre nel corso degli anni ‘70, la città dello Stretto
era inserita a pieno titolo nella sfera di influenza della ‘ndrangheta
calabrese. In quegli anni i boss dei gruppi emergenti della
criminalità messinese erano “immediatamente sottordinati” ai capi
storici della ‘ndrangheta quali Antonio Macrì di Siderno, Girolamo
Piromalli di Gioia Tauro e Domenico Tripodo di Reggio Calabria. La
città ed il suo hinterland furono trasformati nel luogo favorevole
alla permanenza dei latitanti, alcuni affiliati persino ai gruppi
camorristi campani (ad esempio il clan Misso, coinvolto nella strage
al rapido 804 dell’antivigilia di Natale del 1984). Nel sottolineare la sinergia criminale della ‘ndrangheta e di
Cosa Nostra, accanto alle più pericolose organizzazioni criminali
internazionali e alle aree ‘grigie’ della finanza e della
politica, la DIA ha specificato che in quest’ambito Messina è stata
assunta a ‘snodo di traffici e collegamenti’. “Si tratta di
interessi che ben potrebbero giustificare uno sforzo di sottrarre il
più possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione
degli organismi giudiziari ed investigativi creando una sorta di
cuscinetto in cui allocare la sede di interessi comuni e di rilevante
importanza strategica”. La città dello Stretto è stato punto di
riferimento di un vasto traffico internazionale di armi e di
riciclaggio di denaro proveniente dal commercio di stupefacenti o di
proventi di tangenti finite a politici, imprenditori mafiosi,
funzionari pubblici, a seguito del massiccio investimento in opere
pubbliche o di edilizia turistico-immobiliare, in buona parte dal
devastante impatto socioambientale. Come ha sottolineato il
Procuratore della Repubblica di Messina Luigi Croce, nel capoluogo,
“realtà morente sul piano imprenditoriale”, hanno trovato ampio
impulso le estorsioni e lo spaccio degli stupefacenti, mentre “massicci
appaiono gli inserimenti negli appalti dei lavori pubblici e nel
riciclaggio di denaro, con il successivo reimpiego in attività
imprenditoriali apparentemente lecite” (41). Le indagini giudiziarie
sulla cosiddetta ‘Mani Pulite dello Stretto’ hanno evidenziato che
negli anni ‘80 sono state finanziate nella provincia opere pubbliche
per ben 17.000 miliardi, un dato che corrisponde al 32% del valore dei
finanziamenti di opere in tutta la Sicilia. Secondo quanto raccontato alla Commissione Antimafia da Angelo
Siino, il collaboratore di giustizia già ‘ministro-massone dei
lavori pubblici’ di Cosa Nostra, tutti gli appalti pubblici della
provincia, comprese le opere di minor rilievo, sono stati “scanditi”
dalle ‘famiglie’ di Palermo e di Catania. “Le imprese messinesi
potevano competere, vincere secondo un codice governato dai due
tronconi di Cosa Nostra garantendo il rispetto delle competenze
territoriali delle imprese”, scrive la Commissione parlamentare
nella sua bozza di relazione sul ‘Caso Messina’. “Tale Governo
era pagato con una sorta di tassa che derivava dai proventi dell’appalto.
Le imprese che pagavano potevano continuare a svolgere la propria
attività. Quelle che venivano dichiarate ‘insolventi’ perdevano
ogni speranza di poter svolgere qualunque lavoro. (...). Questa regia
occulta assicurata dalle famiglie siciliane e calabresi spiega la
relativa tranquillità ‘militare’ del territorio messinese. Ma
questa pace, interrotta di tanto in tanto da regolamenti di conti
sanguinari, era pagata con il prezzo altissimo della perdita di quel
livello minimo di legalità, di trasparenza, che fanno di un mercato
qualunque un’area del libero confronto tra energie economiche che si
confrontano su un terreno di pari opportunità”. Nonostante la
Commissione antimafia eviti ogni classificazione, è indubbio che
questo sistema abbia prodotto quell’”interazione tra le
organizzazioni criminali e il blocco sociale a composizione
interclassista, egemonizzato da strati illegali-legali” proprio
della cosiddetta ‘borghesia mafiosa’, nell’accezione dei
maggiori studiosi in materia (42) . La fitta rete tra poteri forti A Messina, spesso, ampi settori della magistratura hanno ostentato
familiarità e amicizia con il potere politico ed imprenditoriale.
Negli anni ‘90 si è verificato che nella poltrona più alta della
Procura sedesse uno stretto congiunto del Rettore dell’Università,
al centro di delicate indagini perché socio di un’azienda a
conduzione familiare che ha fornito farmaci al Policlinico
universitario a prezzi sovradimensionati. Le recenti inchieste della
Procura di Catania hanno evidenziato un vasto circuito di contiguità
e collusioni tra importanti magistrati giudicanti e inquirenti del
distretto di Messina e i maggiori boss criminali dello Stretto e
finanche la concertazione di una strategia di depistaggi e falsi
pentitismi tesi alla protezione della cupola
politico-affaristica-mafiosa della provincia. Soffermandosi proprio
sul distretto giudiziario peloritano, la Commissione antimafia ha
evidenziato “conflitti profondi, divisioni irrimediabili, guasti
talmente forti da mettere in discussione la certezza dei più
elementari diritti alla giustizia che spettano ad ogni comunità
democratica, ad ogni consorzio civile”. Nel sentire comune, a Messina ‘giustizia non è mai stata fatta’;
corruzioni, omissioni, benevolenze, superficialità in indagini e
sentenze sono sotto gli occhi di tutti, e continuano ad essere oggetto
di procedimenti giudiziari e delle attività ispettive del Consiglio
Superiore della Magistratura. La sfiducia nella Giustizia ha pesato
come un macigno sulle possibilità di sviluppo democratico di un’intera
collettività. Il crocevia dell’eversione neofascista e della massoneria deviata Il Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina,
pubblicando nel 1998 il volume ‘Le mani sull’Università’, ha
denunciato come per l’ingresso in città della criminalità mafiosa
alla fine degli anni ‘60, sia stato centrale il legame dei gruppi
criminali con le organizzazioni di estrema destra (Ordine Nuovo,
Avanguardia Nazionale) che operavano in quegli anni a Messina grazie
alle coperture di ampi settori della magistratura e delle autorità di
pubblica sicurezza. Alle medesime conclusioni è giunta recentemente la Procura di
Messina rinviando a giudizio decine di affiliati al clan di Africo dei
Morabito, che in legame con le cosche del messinese e del barcellonese
hanno cogestito i maggiori appalti infrastrutturali e di gestione dei
servizi dell’Ateneo e dell’Opera Universitaria, controllando
altresì il mercato a pagamento degli esami e delle lauree (Operazione
‘Panta Rei’). Nell’ateneo di Messina si è consumato un patto
scellerato tra affiliati alle ‘ndrine e militanti neonazisti
finalizzato alla gestione di appalti di forniture e servizi e alla
realizzazione della cosiddetta ‘strategia della tensione’ per
bloccare i processi di democratizzazione in atto nel paese. La convergenza tra i poteri criminali è già stata al centro di
numerose inchieste (si pensi alle risultanze cui sono giunte la
Commissione parlamentare sulla P2 o le procure che indagano sulle
stragi – Milano, Firenze, Reggio Calabria, ecc.). Quello che non si
sapeva è che Messina ha avuto un ruolo strategico all’interno del
panorama eversivo nazionale, anche grazie al fatto che in città si
sviluppò parallelamente un’altissima concentrazione di logge
massoniche ‘ufficiali’ e ‘deviate’ (43). E’ stata la stessa
Direzione Investigativa Antimafia a sottolineare come a Messina la
massoneria potrebbe essere stata “il canale di collegamento con
ambienti politico-affaristici di altissimo livello, normalmente non
alla portata delle cosche tradizionali”. Nell’area dello Stretto hanno operato importanti iscritti alla P2
di Licio Gelli, tra cui ex questori ed ex comandanti dell’Arma e il
nucleo più numeroso del sud Italia di appartenenti all’organizzazione
militare segreta Gladio (44). Senza enfasi è possibile affermare che
molti dei segreti della storia della Repubblica passino da Messina.
Alcuni dei protagonisti della stagione delle bombe nell’università
negli anni ‘70, sono stati condannati per le grandi stragi
politico-mafiose del ’92-’93, mentre altri sono stati indagati all’interno
dell’inchiesta, oggi archiviata, sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’,
i mandanti coperti della strategia destabilizzante degli ultimi anni,
tra massoneria, servizi segreti ed alta finanza. Come vedremo più
avanti, perlomeno uno di questi personaggi è stato in relazione con i
maggiori gruppi finanziari ed industriali che concorrono alla
realizzazione del Ponte sullo Stretto. Messina metafora del Mezzogiorno senza sviluppo La radiografia tracciata dal CENSIS nel suo rapporto del marzo 1998
su ‘Legalità e sviluppo a Messina’, evidenzia come la città
dello Stretto sia caratterizzata da buona parte dei fattori
socioeconomici che hanno condannato al sottosviluppo il Mezzogiorno d’Italia.
Innanzi tutto, l’esclusiva vocazione al terziario e l’alto tasso
di disoccupazione (45). A Messina, dopo la frenetica urbanizzazione
degli anni Sessanta e Settanta, nell’ultimo decennio è stata
registrata la fuga dal centro urbano del 2,5% della popolazione. La
valutazione del CENSIS dei consumi culturali ha delineato una
situazione di ‘scarsa vitalità’ e la bassa propensione alla
creazione di associazioni a carattere artistico e culturale. Di contro
il numero degli operatori finanziari è ben al di sopra della media
nazionale, mentre la quantità di sportelli bancari è in linea con i
valori nazionali (46). Ciò, spiega il rapporto dell’istituto di
ricerca è “elemento di ambiguità anziché di sviluppo, in un
contesto sospettato di riciclaggio”. A questa specificità messinese
si aggiungono i fenomeni tipici di tante aree del Sud, l’assenza di
mobilità sociale, il sempre maggiore disagio dovuto ai processi di
cattiva urbanizzazione (baraccopoli post-terremoto 1908 mai risanate,
creazione di quartieri ghetto, assenza di servizi sociali e verde
pubblico attrezzato), la deindustrializzazione (a Messina le
tradizionali attività legate alla trasformazione agrumaria e alla
cantieristica sono pressoché collassate), la crisi del settore
edilizio (ambito ‘protetto’ dalle amministrazioni, che in assenza
di Piano regolatore in soli 30 anni ha visto triplicare il patrimonio
immobiliare della città, contro un aumento della popolazione di
appena il 25%). Il CENSIS ha posto altresì l’accento sulla ‘debolezza’ della
società civile, “sia come incapacità di rappresentare
pubblicamente i grandi problemi (sottosviluppo, disagio sociale,
inefficienza delle istituzioni, ecc.), sia come poca disponibilità
all’impegno per la soluzione dei problemi stessi”. In una realtà
caratterizzata dall’arretratezza socioeconomica, ciò non può che
privilegiare l’insediamento mafioso. La città e le istituzioni di Messina hanno vissuto la ‘rimozione’
pressoché generale del fenomeno criminale. Sempre il CENSIS ipotizza
che questo atteggiamento sia stato favorito da una ‘convergenza d’interessi’,
“alcuni in buona fede, altri dubbi, altri sicuramente tesi a creare
una copertura per una presenza che alla fine degli anni Ottanta era
forte e pervasiva”. Come si vede una tesi similare a quanto
denunciato dalla Direzione Investigativa Antimafia, nella sua
radiografia sui processi criminali in atto nell’altra città dello
Stretto, Reggio Calabria. Questa fitta rete d’interessi piccoli e
grandi ha impedito che per anni il problema della mafia a Messina
emergesse nella coscienza civica. Ha altresì accelerato – aggiunge
il CENSIS - l’evoluzione della rete criminale, cresciuta sull’estorsione
e l’usura e “dunque sulla capacità di inserirsi nell’economia
territoriale, stringendo una sempre più fitta strategia d’intervento
con l’imprenditoria e ampi settori della vita politica”. E’ nel settore del prestito usuraio che si è particolarmente
realizzata la contiguità della criminalità con i settori ‘produttivi’.
Messina, oggi, si colloca al terzo posto, dopo Napoli e Roma, tra le
province d’Italia più a rischio d’usura. E il capitale d’usura
non sarebbe tutto d’origine mafiosa, ma proverrebbe in parte da
soggetti insospettabili, che vedono nel ‘prestito di denaro’ un
investimento redditizio e a basso rischio. Questo sistema illegale ha
trovato il suo migliore terreno di coltura in quei settori
caratterizzati dalla gestione clientelare delle aziende di credito,
dalla scarsa professionalità degli imprenditori, dalla recessione,
dalla “tendenza del sistema economico a perseguire la rendita
piuttosto che il rischio imprenditoriale”. E’ in questo contesto
sociale perverso, frantumato, deideologizzato, che attecchisce e si
sviluppa il sogno-mito del collegamento stabile tra Scilla e Cariddi. Una nuova cattedrale per il deserto meridionale Come rilevato dal CENSIS, la filosofia che sta dietro il progetto
del Ponte è la stessa che vede nella grande opera pubblica la chance
privilegiata di riscatto del Mezzogiorno: “Una filosofia niente
affatto nuova, e che ha per lungo tempo guidato la politica degli
interventi pubblici nel Meridione. Una filosofia che ha portato ad una
serie di storiche disfatte dello Stato nella battaglia per lo sviluppo
del Sud”. Filosofia, prosegue il CENSIS, dominata da alcune
dinamiche perverse: “la cultura delle inaugurazioni contro quella
delle manutenzioni (realizzata l’opera ne si trascura la gestione);
la tendenza al gigantismo a scapito di una diffusione degli
interventi; la tendenza a posizionare le opere sulla base di
considerazioni elettorali o assistenziali e non nel quadro di un
progetto organico di sviluppo; la tendenza a considerare l’opera
pubblica come un pretesto per l’erogazione di rendite a più
livelli; l’asistematicità dell’intervento; l’incertezza dei
finanziamenti”. Il Ponte assume così l’aspetto di un’imponente ‘Cattedrale
sullo Stretto’, o più correttamente di un’infrastruttura che
accelera il processo di ‘desertificazione’ dei trasporti del sud
Italia, dove restano incomplete le reti autostradali e ferroviarie e
insufficiente la viabilità secondaria (specie in Calabria e Sicilia),
e dove si è ancora lontani dal definire un progetto di sistema delle
comunicazioni, che punti al rilancio della rete portuale e del
cabotaggio. Il sogno-modello del Ponte - e non è casuale - si afferma
nel momento stesso in cui nell’area dello Stretto è in atto il
progressivo smantellamento del sistema di trasporto pubblico delle
ferrovie a favore delle compagnie private in mano ad imprenditori
assistiti, ben protetti dal potere politico locale e nazionale,
strenui oppositori d’ogni politica d’integrazione del sistema dei
trasporti da e verso la Sicilia. I cavalieri neri dello Stretto Due società armatoriali che una recente inchiesta della Procura di
Messina ha provato essere state assoggettate per anni al pagamento del
pizzo dalla ‘ndrangheta calabrese, in particolare dal gruppo guidato
dal boss di Archi Paolo De Stefano, e dalle cosche messinesi guidate
da Domenico Cavò, Salvatore Pimpo e Mario Marchese. Le dazioni annue
sarebbero state di oltre mezzo miliardo di lire, a cui si sarebbe
aggiunta l’assunzione di amici e parenti di uomini affiliati alle
cosche. La Caronte e la Tourist si sarebbero sottoposte
silenziosamente al sistema estorsivo pur di accrescere in piena
tranquillità i propri fatturati con il monopolio del trasporto di
auto e tir tra Messina e Villa San Giovanni (51). Per anni si è creduto che fossero i ‘signori del traghettamento
privato’ i rappresentanti locali di quei “poteri occulti” che si
sarebbero opposti alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. In
realtà è stato il contrario. Con il Ponte i due gruppi armatoriali
hanno tutto da guadagnare, ed in vista della sua realizzazione sono
state riorganizzate società ed holding ed avviate invadenti strategie
di mercato e d’immagine. La famiglia M., in particolare, ha tentato di entrare
direttamente nella gestione delle opere relative all’attraversamento
stabile dello Stretto di Messina, costituendo ad hoc la Società Ponte
d’Archimede (presidente Elio M., figlio di Amedeo senior) e
brevettando il progetto di un ponte sommerso, ancorato ai fondali da
una serie di tiranti metallici. Il progetto di fattibilità tecnica è
stato presentato per conto delle società Saipem, Snamprogetti, Spea e
Tecnomare, ha ricevuto cospicui finanziamenti da parte dell’Unione
europea ed ha visto il coinvolgimento del Politecnico di Milano e dell’Università
Federico II di Napoli. Tuttavia l’ipotesi di un ponte semi sommerso
è stato scartato dalla Società Stretto di Messina che ha preferito l’alternativa
del ponte sospeso (52). Ciò non ha significato la resa finale del gruppo armatoriale e
attraverso Amedeo M. junior, eletto parlamentare di Forza Italia
nel ’94 e nel ’97, è stata intrapresa una battaglia nelle
maggiori sedi istituzionali contro l’ipotesi ‘ponte sospeso’, a
difesa del progetto del ‘ponte d’Archimede’. Amedeo M.
junior è perfino giunto a scrivere direttamente a Silvio Berlusconi
per chiedere di “approfondire i motivi che hanno sempre privilegiato
il progetto Ponte a scapito di un tunnel collegante lo Stretto” e ad
invitare, l’allora ministro dei lavori pubblici Antonio Di Pietro, a
considerare “i progetti relativi al tunnel dello Stretto di Messina
che costano un terzo rispetto al ponte e hanno un impatto ambientale
meno dannoso” (53). Gli interventi dell’ex deputato di Forza Italia non sono stati
proficui e presto l’intero partito-azienda ha preso le distanze non
solo dall’ipotesi progettuale del gruppo M., ma perfino dello
stesso Amedeo junior, non ricandidato alle ultime politiche. Hanno
certamente pesato in questa scelta le gravi accuse di contiguità con
la criminalità organizzata calabrese di cui è stato vittima il
politico-imprenditore dello Stretto. Accuse finite al vaglio del
tribunale di Reggio Calabria che nel marzo 2001 ha condannato l’on.
Amedeo M. junior, a cinque anni e quattro mesi per associazione
mafiosa e voto di scambio con le cosche. Per i giudici, è stata
dimostrata “una perfetta sintonia d’intenti del M. sia con
le cosche reggine sia con quelle delle altre aree calabresi di maggior
peso criminale, dalla Piana di Gioia Tauro al cosentino” e la “rilevanza
e influenza nella risoluzione di questioni interne alla ‘ndrangheta”.
Nella sentenza di condanna di Amedeo M., i giudici hanno
descritto i rapporti “accertati sin dalla giovinezza” con il boss
Paolo De Stefano (54), le “frequentazioni affettuose” con le
famiglie Alvaro e Mammoliti e gli “interventi e l’assistenza” in
sede istituzionale e giudiziaria a favore del clan Rosmini-Serraino
(55). Amicizie pericolose Stando al collaboratore Pasquale Nucera, affiliato al clan Iamonte
di Melito Porto Salvo, Amedeo M. junior, nel settembre 1991,
qualche mese prima della campagna elettorale che avrebbe segnato l’avvento
della Seconda repubblica, sarebbe stato tra i partecipanti della
riunione annuale delle famiglie della ‘ndrangheta presso il
santuario della Madonna dei Polsi in Aspromonte. “Era presente –
ha dichiarato Nucera - seppure defilato, M. junior ‘il pelato’,
appartato con Antonino Mammoliti di Castellace”. Il vertice sarebbe
stato di rilevanza strategica e vi sarebbero intervenuti, tra gli
altri, esponenti mafiosi di Canada, Australia, Stati Uniti e Francia e
uno strano personaggio presumibilmente legato ai servizi segreti. Nel
corso della riunione, sempre secondo il Nucera, il boss calabrese
Francesco Nirta avrebbe fatto riferimento all’inizio di una campagna
per la conquista del potere politico, grazie ad “uomini nuovi per
formare un partito che sia espressione diretta della criminalità
mafiosa da portare al successo elettorale attraverso una campagna
terroristica” (58). Sei mesi più tardi avrebbe preso il via la
lunga stagione delle stragi, gli assassinii dei giudici Falcone e
Borsellino prima, gli attentati a Roma, Firenze e Milano dopo. "Sulle dichiarazioni dei pentiti contro di lui ci sono
riscontri di tutti i generi", ha rilevato il procuratore di
Reggio Calabria Salvatore Boemi. "Il rapporto fra M. e la
mafia è organico. Lui mette in contatto imprese e clan e in cambio
chiede voti. È riuscito a imporre come vicepresidente della Provincia
uno come Giuseppe Aquila, barista della Caronte e nipote di Demetrio
Rosmini, boss dell'omonimo clan che nella guerra di mafia dei primi
anni Novanta si alleò con lo schieramento Serraino-Condello-Imerti,
contro la potente famiglia De Stefano" (59). La gestione del
servizio bar-ristorazione a bordo delle unità navali della Caronte
S.p.A., presso cui era impiegato l’Aquila, era stato affidato dai
M. prima a Bruno Campolo e successivamente al figlio Giuseppe
Campolo. Bruno Campolo è stato condannato a otto anni di reclusione
per traffico di droga, ma neanche dopo la condanna "venne a
mancare il rapporto di fiducia con la famiglia M.", come
segnalano i magistrati reggini che hanno indagato sull’ex
parlamentare di Forza Italia. Anche al fratello Elio Armando M., presidente della Società
Ponte d’Archimede, sono state contestate relazioni d’affari con
personaggi chiacchierati. In particolare egli è stato titolare del
51% delle azioni della Sogesca, società di cui il restante 49% era
nelle mani di Giancarlo Liberati, esponente locale di Forza Italia e,
secondo i magistrati, “uomo della ‘Ndrangheta, legato ai Molè e
ai Piromalli di Gioia Tauro” (60). La Sogesca era stata fondata con
il nome di In.co.tur e lo scopo societario prevedeva la fornitura di
servizi navali; poi si era trasformata in Sogesca per la gestione
degli appalti nel settore edile, ottenendo il subappalto per la
costruzione della Scuola allievi carabinieri di Reggio Calabria. Nel
1997 la società fu dichiarata fallita ma la successiva inchiesta
rivelò una serie di presunte irregolarità contabili e
amministrative. A pesare sui bilanci in rosso una lunga serie d’assunzioni
per fini clientelari ed elettorali. Per il fallimento della Sogesca,
il giudice del Tribunale di Reggio ha deciso recentemente il rinvio a
giudizio di Elio Armando M., del fratello Amedeo junior e di
altri sei imputati. Un procedimento avviato in stralcio all’inchiesta
sulla bancarotta dell’azienda edile, relativo ad una presunta
estorsione ai danni della società Edilmil e che vedeva sotto accusa l’ex
parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Liberati e l’ex
vicepresidente della Provincia, Giuseppe Aquila, si è invece concluso
con l’assoluzione di tutti gli imputati (61). L’impero dei Franza Meno nazionalmente noti dei ‘soci’ M., i Franza sono a
capo di un vero e proprio impero economico-finanziario, che dal
settore del traghettamento privato in Sicilia si estende a quello
industriale, alla cantieristica (62), all’edilizia privata (63) e al
settore turistico-alberghiero, dove grazie alla controllata Framon
Hotels, i Franza gestiscono in tutta Italia diciotto alberghi, con un
giro d’affari di 100 miliardi e 600 dipendenti. I Franza hanno
creato anche società per la gestione dei Beni Culturali e dei Servizi
multimediali (Tourinternet e Datacom). Tra le proprietà della
famiglia, ci sono immobili per un valore di oltre trenta miliardi e
pacchetti azionari della maggiore emittente radiofonica delle città
di Messina e Reggio Calabria (Antenna dello Stretto) e d’importanti
società sportive locali, in particolare del Messina Calcio che milita
in serie B (64). Insomma, una vera e propria holding, di cui è però la gestione
del traghettamento del gommato l’attività più redditizia. Un vero
e proprio moltiplicatore di utili e profitti che erroneamente si
ritiene ‘a rischio’ nel caso in cui entrasse in funzione il Ponte.
In realtà la megainfrastruttura non ha fatto mai paura al gruppo
messinese. Nel 1986, quando era in corso un vero e proprio scontro
politico tra le classi dirigenti calabresi e siciliane relativo alla
reale fattibilità dell’opera (65), intervenne pubblicamente a
difesa del progetto del Ponte, l’ingegnere Giuseppe Franza,
fondatore dell’omonimo impero finanziario. “Come operatore
economico – dichiarò Franza - ritengo che un’opera così
grandiosa aiuti il nostro territorio, risolva il problema del
collegamento con l’altra sponda e crei comunque un così vasto
movimento da rivoluzionare tutta la nostra realtà economica e
sociale. Gli effetti positivi si vedranno già durante la costruzione
a parte poi, ad opera ultimata, il beneficio del richiamo turistico e
ambientale nonché l’interesse culturale per un manufatto di alta
ingegneria e di tecnica specializzata”. Nell’occasione l’ingegnere
Franza espresse inaspettatamente il proprio dissenso verso l’ipotesi
progettuale sostenuta dal socio M.. “Contrario mi ritengo al
tunnel che trovo un congiungimento anomalo, che non potrà mai dare al
territorio gli stessi benefici del ponte sospeso” (66). Gli farà eco, otto anni più tardi, la consorte Olga Mondello
Franza, succeduta alla guida della holding dopo la morte del
fondatore. “Per noi, la costruzione del ponte sarebbe un grande
business. Durante i dieci anni occorrenti alla realizzazione dell’opera
il nostro lavoro aumenterebbe notevolmente. E poi lavoreremmo a pieno
ritmo per diversificare l’attività. Per noi il problema non si
pone. Il Ponte sullo Stretto non ci fa paura” (67). Le parole non permettono fraintendimenti. Il gruppo Franza, in
altre parole, è pronto per concorrere direttamente alla realizzazione
dell’opera, sia per capitalizzare il presumibile aumento del
traffico nello Stretto in concomitanza dei lavori di esecuzione, e sia
per ampliare la quota del proprio mercato quando, a Ponte ultimato, l’alto
costo del passaggio attraverso l’infrastruttura spingerà sempre
più automobilisti a scegliere la fedeltà con il traghettamento. E’
forse casuale che sia stata proprio l’amministratrice della Tourist
Olga Franza, a fare da anfitrione del ministro Pietro Lunardi, durante
la sua visita a Messina nell’aprile 2002 ai luoghi in cui dovrebbe
essere realizzato il Ponte sullo Stretto? (68). E come spiegare che
tale disponibilità si sia ripetuta qualche mese dopo durante il
sopralluogo tra Scilla e Cariddi del neopresidente della Stretto di
Messina Giuseppe Zamberletti e dell’intero consiglio d’amministrazione
al seguito? In realtà al grande appuntamento del Ponte, la potente famiglia
dello Stretto si è preparata a dovere, innanzi tutto promuovendo una
grande intesa con le maggiori imprese di costruzioni della provincia
di Messina, fondando nel giugno 1997, il Consorzio Costruttori
Messinesi per competere con le maggiori imprese del Nord nel settore
delle grandi opere pubbliche in via di finanziamento nella provincia
di Messina e per la gestione di società miste per lo sviluppo dei
servizi pubblici e privati. In realtà il nuovo consorzio appare lo
strumento più idoneo per accrescere il peso dell’imprenditoria
locale nella contrattazione diretta degli appalti e dei subappalti per
la realizzazione del grande manufatto (69). Per non dimenticare che
attorno al Ponte dovrebbero sorgere infrastrutture
turistico-immobiliari e ‘culturali’, settori dove il Gruppo Franza
non conosce avversari nell’area dello Stretto. Banche e finanziarie per la cementificazione dello Stretto Nel 1999 la famiglia Franza ha fatto ingresso nella cordata d’imprenditori
siciliani (72) e istituti di credito del Nord (le banche popolari di
Vicenza, Novara e Verona), sorta per concorrere all’acquisizione di
Medio Credito Centrale, e attraverso esso, della controllata Banco di
Sicilia. Un’operazione arenatasi a causa dell’intervento della
Banca di Roma che è riuscita a battere la concorrenza e ad annettersi
il prestigioso istituto bancario dell’isola. Il gruppo armatoriale
messinese tuttavia, è riuscito ad inserire un proprio rappresentante
(Pietro Franza, figlio secondogenito dei consorti Giuseppe e Olga
Mondello), nel consiglio d’amministrazione della Banca di Credito
Popolare di Siracusa, entrata a far parte del gruppo che fa capo alla
Banca Antoniana Popolare Veneta (73). E’ da rilevare come alla
direzione generale dell’Antonveneta e alla vicepresidenza della
Banca Popolare di Siracusa sieda il dottor Silvano Pontello, già
addetto alla presidenza della Banca Privata di Michele Sindona, il
finanziere originario della provincia di Messina che mise a servizio
di Cosa Nostra e dei poteri eversivi internazionali il proprio impero
bancario. Ma il vero colpo nell’universo creditizio, il Gruppo Franza lo ha
messo a segno di recente inserendosi in Consortium, la finanziaria cui
aderisce un gruppo d’imprenditori e di banche italiane e che nel
marzo 2001 ha scalato con successo l’impero di Mediobanca,
acquisendone il 14,5% del pacchetto azionario. Sono due holding
lussemburghesi, la Work and Finance e la Tourist Internacional,
società riconducibili al Gruppo Franza di Messina, a possedere
attualmente il 5% delle quote della Consortium (74). Quest’operazione
fa della famiglia messinese uno dei maggiori centri finanziari del
paese. Oggi i Franza operano attivamente sulla Borsa di Londra grazie
alla Sofig Invest (75), e sempre attraverso la Cofimer controllano il
pacchetto di maggioranza di un’importante società di gestione
finanziaria, la Marathon Holding, con un patrimonio di oltre 150
miliardi di lire (76). Che il sistema bancario guardi con estrema attenzione all’ipotesi
di fattibilità del Ponte non è un segreto. Nel settembre del 2001,
presso il ministero delle infrastrutture diretto da Pietro Lunardi, si
sono tenute le audizioni di una decina di banche nazionali ed estere,
interessate a vagliare la finanziabilità dell’infrastruttura. Tra i
principali istituti presentatisi la Banca Opi (S.Paolo-Imi), la Abn
Amro, la Banca Intesa Bci ed Unicredito: come abbiamo visto in Banca
Intesa è confluita la Banca Commerciale di cui è azionista la
Cofimer dei Franza, mentre Unicredito è socia in
Consortium-Mediobanca delle holding lussemburghesi degli armatori
messinesi. C’è infine un’ultima ‘coincidenza’ che conferma la spinta
pro-infrastruttura dei maggiori istituti di credito. Recentemente la
Banca Popolare di Lodi ha deliberato lo stanziamento di 500 milioni di
euro di crediti agevolati a favore delle imprese interessate alla
costruzione del Ponte di Messina. La Popolare di Lodi, oggi il nono
gruppo bancario d’Italia, ha acquisito ben sette istituti di credito
in Sicilia, tra cui la Banca del Sud di Messina, presieduta dal
defunto on. Giuseppe Merlino, sindaco andreottiano di Messina negli
anni ’70, poi deputato all’Assemblea siciliana e assessore
regionale, ritenuto uno dei ‘soci ombra’ del Gruppo armatoriale
dei Franza (77). Vedremo in seguito con quali obiettivi il sistema
bancario italiano guarda alla finanziazione delle opere di
realizzazione del Ponte dello Stretto e come siano forti in quest’ambito
gli interessi delle industrie del cemento e quelli delle maggiori
società edili nazionali. Cap. 3 – La borghesia elettiva del Ponte dello Stretto Monopolio dell’informazione e partito del cemento La scelta consociativa del Ponte che a Messina vede uniti da
Alleanza Nazionale ai Democratici di Sinistra (78), i sindacati, le
forze economiche e cultural-educative, l’Ateneo universitario, i
club service, finanche i massimi vertici della Chiesa locale - con la
sola esclusione e conseguente marginalizzazione e criminalizzazione
dei circoli di Verdi e Rifondazione Comunista - ha reso impossibile la
dialettica democratica sul futuro della città. Il ‘ponte immaginato’
è causa e conseguenza stessa della crisi di democrazia a Messina. Assai raramente i mass-media hanno dato voce a chi ha espresso
pareri scientifici controtendenza e manifestato dissenso e
perplessità sulle compatibilità socioambientali dell’opera, sulla
sua fattibilità sia dal punto di vista tecnologico che sulle
possibilità di reperimento degli ingenti finanziamenti necessari, e
sulla dubbia vocazione occupazionale del manufatto (79). La campagna
stampa ossessiva del maggiore organo d’informazione di Messina e
della Calabria, la Gazzetta del Sud, ha impedito il confronto tra le
parti, ha avvelenato le competizioni elettorali, ha irresponsabilmente
mistificato dati ed informazioni e demonizzato gli avversari. “Preoccupata di smussare ogni angolo, generando oggettivamente
una sorta di assuefazione verso i drammi regionali - scrive il
sociologo Fulvio Mazza in un volume sul ruolo dell’editoria nel
Mezzogiorno - la Gazzetta del Sud ha avuto un ruolo determinante di
costruzione del consenso pro-infrastruttura e di cloroformizzazione
delle coscienze e dei vissuti, disincentivando l’impegno sociale e
politico delle collettività e dunque contribuendo al clima generale
di apatia e insofferenza”. E’ stato “il giornale dei notabili
che tarpa le ali a quel poco di società civile calabrese che esiste e
che tenta di decollare” aggiunge Fulvio Mazza. “Da ‘giornale-ponte’
tra la Sicilia e la Calabria, è diventato il ‘giornale del Ponte’,
sponsorizzando qualsiasi iniziativa e qualsiasi politico (dalla destra
ai diessini di governo) favorevoli alla realizzazione del Ponte sullo
Stretto di Messina” (80). L’interventismo dell’organo di stampa a favore della
megainfrastruttura dello Stretto ha ragioni antiche, risponde ad
interessi economici profondi neanche tanto dissimulati. Un’azione di
‘intossicazione dell’informazione’ esercitata in pieno regime di
monopolio anche grazie alla fitta rete di compartecipazioni che legano
la società editoriale della Gazzetta del Sud a quelle dei quotidiani
‘cugini’ dell’isola, detentori a loro volta della proprietà di
quasi tutte le maggiori emittenti televisive siciliane. Nei fatti non
esiste testata nel sud Italia che non intrecci i propri azionisti con
quelli del ‘giornale del Ponte’ e se poi si pensa agli accordi di
mercato per la coproduzione delle pagine di politica interna ed estera
con i quotidiani del Gruppo Monti (La Nazione di Firenze, Il Resto del
Carlino di Bologna, Il Giorno di Milano) o a quelli per la stampa
presso le industrie tipografiche siciliane dei maggiori quotidiani
nazionali, possiamo affermare che la forza monopolistica della
società editoriale che sta dietro la Gazzetta del Sud è invadente
quasi quanto l’’anomalia’ italiana rappresentata dal gruppo
politico-economico di Mediaset. Basterà un’occhiata alla proprietà
e agli uomini che siedono nel consiglio d’amministrazione della
Gazzetta per comprendere come mai il quotidiano e i suoi soci-alleati
della carta stampata si siano caratterizzati per il furore nella
crociata a favore di quattro immense torri ed una lunga campata di
cemento armato ed acciaio che sconvolgeranno il paesaggio dello
Stretto (81). Nino Calarco l’Uomo del Ponte Nino Calarco non ha mai nascosto le tendenze politiche
ultramoderate ed ha ricoperto per una legislatura il ruolo di senatore
della repubblica, dal 1979 al 1983, nelle file della Democrazia
Cristiana (84). E’ la stessa ala moderata del partito a volerlo tra
i propri membri nella costituenda Commissione parlamentare d’inchiesta
sulla P2, presidente un’altra DC, l’on. Tina Anselmi. Eppure il
quotidiano diretto da Calarco si era caratterizzato fino allora per
numerosi articoli contro i giudici che indagavano sulla superloggia di
Licio Gelli definiti "filocomunisti", e di cui s’ipotizzava
la partecipazione ad un ipotetico 'complotto'. Nonostante la scoperta delle liste della P2, il quotidiano
siciliano continuerà a pregiarsi dei fondi e degli editoriali di
alcuni giornalisti risultati affiliati, in particolare di Alberto
Sensini, già capo dell'ufficio romano del Corriere della Sera, poi
direttore della Nazione (85), dell’ex parlamentare socialdemocratico
Costantino Belluscio (86) e di Gustavo Selva (tessera P2 n. 1814),
già direttore del Gr2 Rai, poi europarlamentare DC, oggi senatore di
AN. Nino Calarco dovette lasciare l’incarico in Commissione
parlamentare a seguito dell’inaspettata non rielezione al Senato,
nel 1983. Sette anni più tardi però, l’establishment governativo
della prima Repubblica gli offrì la presidenza alla Stretto di
Messina, società costituita nel 1981 dal Gruppo Iri-Italstat, dalle
Ferrovie dello Stato, dall’ANAS e dalle Regioni Calabria e Sicilia
(87). Calarco subentrò ad un altro ex parlamentare democristiano
messinese, l’on. Oscar Andò, padre dell’allora sindaco di Messina
Antonino Andò; vicepresidente fu nominato Gianfranco Gilardini, in
passato manager del gruppo finanziario Agnelli-Fiat, mentre ad
amministratore delegato della Stretto di Messina fu insediato il
dottor Baldo de Rossi (Italstat). L'essere stato abbastanza critico a riguardo di certi atteggiamenti
della società non addebitabili all'on. Andò e non solo attraverso il
giornale che dirigo (...), ma soprattutto attraverso i miei interventi
esterni in dibattiti, tavole rotonde, conferenze internazionali, avr
forse sensibilmente contribuito a convincere l'on. Andreotti ad
accogliere la proposta in tal senso delle forze politiche siciliane e
calabresi, con la neutralità delle opposizioni. E' la spiegazione che
Nino Calarco ha dato delle motivazioni della scelta fatta a suo favore
dall'esecutivo. Alla fin fine, si saranno detti, scegliamo uno che ci
far conoscere correttamente i momenti progettuali. Infatti, oltre a
dover rispondere al potere politico, Calarco dovr farlo nei confronti
dei lettori della Gazzetta. E i lettori, si sa, giudicano un direttore
giorno per giorno. Uno che, per professione, non è mai incline, come
ogni giornalista, a tenersi niente nel cassetto...” (88). Né Calarco, né le forze politiche di maggioranza e d'opposizione
hanno avuto mai dubbi sull'opportunit che il Presidente della Stretto
di Messina abbia continuato a mantenere contestualmente la carica di
direttore della Gazzetta del Sud, anzi questo è stato presentato come
elemento di trasparenza pubblica e di modello per raccogliere le
tendenze di giudizio dei lettori-cittadini-futuri utenti del Ponte.
Peccato che il sistema abbia funzionato più da fabbrica del consenso
che da supervisore dei consensi-dissensi sull’operato della Società
e sulla valenza dell’iter progettuale. Ciò non ha impedito al presidente-direttore Nino Calarco di
assumere ulteriori incarichi che ne hanno rafforzato il ruolo di ‘uomo
del Ponte’, cementificando gli interessi del gruppo editoriale
attorno all’infrastruttura. Egli è stato prima nominato direttore
della Rtp-Radio Televisione Peloritana, maggiore emittente televisiva
dell’area dello Stretto, e poi presidente della Fondazione
Bonino-Pulejo, azionista di maggioranza della SES-Società Editrice
Siciliana, comproprietaria della Gazzetta del Sud e delle due reti
televisive della Rtp (89). Con il risultato che oltre a poter
giudicare da sé il proprio operato e quello della Stretto di Messina,
Nino Calarco e il gruppo imprenditoriale a capo delle sue testate,
hanno potuto estendere il potere lobbista a favore del mostro di
cemento tra il mitico Stretto di Scilla e Cariddi. La fabbrica del consenso Secondo l’accusa, a fare da “mediatore” tra i differenti
protagonisti dell’affare, il noto giornalista Paolo Pollichieni,
responsabile della redazione reggina della Gazzetta del Sud: per gli
inquirenti era “capace di scatenare campagne di stampa a comando e
di condizionare le decisioni della giunta regionale”. Il giornalista
sarebbe stato in stretto contatto con l’imprenditore Giovanni
Minniti, sospettato di collusioni con la criminalità organizzata,
amministratore unico della EdiIminniti, società vincitrice di appalti
per decine di miliardi accanto alla CMC - Cooperativa Muratori
Cementisti di Ravenna. I contatti di Pollichieni, ritenuto la memoria
storica di tutti i fatti di cronaca nera della regione, si estendevano
ai maggiori palazzi del potere nazionale, compresi ministeri e l’Alto
comando dei Carabinieri (91). Intercettando le telefonate di Pollichieni, i giudici di Reggio scoprono le frequenti chiamate ad uno dei massimi esponenti della politica nazionale, l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Marco
Minniti, successivamente passato al ministero della difesa (92). Il
politico diessino è tra i maggiori sostenitori della realizzazione
del Ponte di Messina, e proprio di ponte e Società dello Stretto, gli
investigatori gli sentiranno parlare con Pollichieni in più di un’occasione.
Durante un incontro a Scilla il 30 luglio 1999 tra il sottosegretario
e il redattore della Gazzetta del Sud, quest’ultimo telefona con un
cellulare al proprio direttore-presidente Nino Calarco. “La chiamo
oggi perché sono qui con Marco e la voleva salutare”. Il cellulare
viene poi passato al politico diessino. Calarco e Minniti parlano di
politica e dell'ex presidente Francesco Cossiga, infine il direttore
si rivolge per chiedere un favore: “Senti una cosa... l'unica
potenza che tu non riesci a esplicare... con questi maledetti
burocrati del ministero dei Lavori pubblici... ancora questo decreto
del bando non c'è!”. L’argomento in questione riguarda un bando per il finanziamento
della Società Stretto di Messina, che Nino Calarco vorrebbe che fosse
acquisita dall’ANAS. Della questione il direttore dice di averne
parlato direttamente con il Presidente del consiglio Giuliano Amato.
“E Con Giuliano Amato come è andata?” gli chiede Marco Minniti.
“Favoloso, favoloso” gli risponde Calarco. “Però il problema
caro Marco è che bisogna trovare nella Finanziaria un po' di
spiccioli perché io debbo chiudere la società perché non ho più
una lira! ... Non è che è una grossa cifra... 4... 5 miliardi... “.
Una decina di giorni più tardi Pollichieni e Minniti si
rincontrano per chiamare nuovamente il direttore Calarco. Quest’ultimo
ritorna sul tema del finanziamento della Stretto di Messina: “Marco,
ti volevo segnalare due cose... primo che in questa Finanziaria...
qualche cosa la dovete inserire... L'altro è che Bargone rema
contro... ancora... dice che è andato da D'Alema... a dire... ma
quale, il ponte sullo Stretto!”. Minniti interrompe per rassicurare
il presidente: “Ho capito va boh... adesso vedo io...” (93). “L'interessamento richiestomi, che io ritengo legittimo nella
sostanza, non nella forma – ha spiegato Marco Minniti - era
finalizzato alla concessione di fondi per il pagamento degli advisor”.
“Devo precisare - ha poi aggiunto - che lo stanziamento dei fondi
era stato autonomamente previsto dal ministero del Tesoro proprio per
il pagamento degli advisor”. Minniti cioè, conferma di essere
intervenuto istituzionalmente per perorare la causa del presidente
Calarco, anche se però la decisione di pagare le parcelle ai
consulenti per la progettazione sarebbe stata presa ‘autonomanente’
dall’esecutivo. “Non mi sono più interessato della questione
Ponte sullo Stretto di Messina – ha concluso - ma ritengo che con
l'approvazione della Legge finanziaria sia stato concesso il
finanziamento necessario al pagamento degli advisor” (94). La pubblicazione sul settimanale Panorama degli stralci delle
telefonate tra il giornalista Pollichieni, il direttore Calarco e il
sottosegretario Minniti e le implicite conferme dell’azione di
lobbing sul governo degli uomini della Gazzetta del Sud non sono stati
sufficienti a sollevare in sede parlamentare l’evidente conflitto di
interessi del presidente della Stretto di Messina. Diversamente è
successo due mesi più tardi, quando nel corso di un’intervista ai
giornalisti Rai di ‘Sciuscià’, il sen. Calarco, nel rispondere
sulla possibilità d’infiltrazione criminale nella realizzazione del
Ponte arrivava a dichiarare: “ Se la mafia fosse in grado di
costruire il Ponte, benvenuta la mafia”. Il Ponte prima di tutto, perfino al di là dei confini della
legalità e dei comuni valori di giustizia. Stavolta insorsero i
parlamentari di Verdi e Rifondazione e alcuni Democratici di Sinistra
e furono chieste le dimissioni di Nino Calarco dalla carica di
presidente della Stretto di Messina. Il conflitto però durò appena
qualche giorno. Il governo decise di non revocare l’incarico e
Calarco rifiutò di dimettersi limitandosi a dichiarare all’Ansa di
essersi “pentito di aver detto e fatto registrare quella frase”
pur respingendo “con fermezza, la interpretazione capziosa e
strumentale che ne è stata fatta”. “Se gli onorevoli interroganti
non sono riusciti a percepire il senso della mia provocatoria
affermazione – aggiunse - significa che abbiamo raggiunto il massimo
dell'incultura. Non mi resta che ripetere la famosa frase di Aldo Moro
‘ma quanto sono noiosi’” (95). Il Calarco pernsiero sul possibile rapporto mafia-Ponte è
certamente più che singolare e lo dimostra quanto affermato in
occasione di un recente Festival dell’Unità a Messina (ottobre
1999). “Il ponte è stato contrastato dai ‘poteri forti’ – ha
denunciato il direttore della Gazzetta del Sud, pur astenendosi dallo
specificare chi e come si nasconderebbe dietro questi ‘poteri’.
“Anche la mafia non vuole il Ponte e non vuole controlli sullo
Stretto, come dimostrano i venticinque anni che non sono bastati per
attivare il sistema radar Vts che farebbe scoprire tutti i traffici
illeciti che vi si consumano, a partire dal contrabbando” (96). Per
Calarco in pratica, la criminalità organizzata ha tutto da perdere
con la realizzazione della megainfrastruttura. La militarizzazione del
territorio che ne deriverebbe, impedirebbe la realizzazione dei
traffici che si realizzano nello Stretto. Peccato che di questi
traffici la Gazzetta del Sud non sia mai stata prodiga d’inchieste e
di denunce. La Fondazione, il Ponte ed altro ancora Nino Calarco oltre ad aver ricoperto contestualmente il ruolo di
direttore delle maggiori testate giornalistiche e televisive dell’area
dello Stretto, presiede la Fondazione Bonino-Pulejo, espressione di
uno dei più agguerriti gruppi politico-economico-imprenditoriali
locali che ha convertito le proprie attività ‘benefiche’ a
strumento di propaganda a favore della fattibilità dell’”ottava
meraviglia del mondo”, il Ponte sullo Stretto di Messina. La Fondazione prende il nome dai coniugi Uberto Bonino e Maria
Sofia Pulejo, entrambi scomparsi, fondatori della Società Editrice
Siciliana e della controllata Gazzetta del Sud. Una rapida occhiata
alla biografia del cavaliere-industriale Uberto Bonino per
comprenderne l’importanza nella recente storia del capoluogo dello
Stretto. Figlio di un ammiraglio della Regia Marina, Bonino acquisì
un ingente patrimonio finanziario grazie alla produzione e alla
distribuzione della farina per conto del Comando Alleato sbarcato in
Sicilia nel 1943, le stesse attività che consentirono ad un oscuro
avvocato di provincia, Michele Sindona, a sperimentare le proprie doti
affaristiche. Alla fine della seconda guerra mondiale, Uberto Bonino fece
ingresso in politica, fondando a Messina il partito liberale con il
massone Gaetano Martino, futuro ministro degli esteri (97). Bonino
venne eletto con il PLI nella costituente del 1946; poi fu
riconfermato alle politiche del 1948. Transitato nelle file del
partito monarchico, venne rieletto alle tornate del ’55 e del ’58.
Dopo un breve ritiro dalla vita politica attiva, Bonino si ricandidò
con successo nel ’72 con l’MSI alle elezioni per il rinnovo del
Senato (98). L’attività politica si alternò con quella di
imprenditore e di filantropo; dopo una presidenza ventennale della
Banca di Messina, istituto di cui Bonino ha detenuto un pacchetto di
minoranza sino all’avvento di Michele Sindona (99), il cavaliere
fondò la SES - Società Editrice Siciliana e nel 1973 l’omonima
Fondazione, che nei disegni del senatore-editore doveva trasformarsi
innanzi tutto nel centro propulsore delle attività didattiche e di
ricerca dell’Università di Messina. Oggi, la Fondazione Bonino-Pulejo è la principale entità
finanziatrice delle attività didattiche e di ricerca dell’Università
e di quelle culturali dell’Opera universitaria (100). Vengono
finanziate borse di studio, specializzazioni, ricerche, seminari e
corsi di laurea brevi; la Fondazione ha istituito persino un Centro
per il trattamento dei neurolesi in consorzio con l’Ateneo di
Messina e la locale facoltà di Medicina. Per sottolineare il grado di
coesione esistente tra la grande impresa editoriale meridionale e l’università,
lo statuto della Fondazione prevede la presenza di diritto nel proprio
consiglio d’amministrazione dei Rettori vecchi e nuovi dell’Ateneo
e dell’amministratore della SES-Società Editrice Siciliana (101). L’occupazione dell’Università da parte della Fondazione è un
processo che è proseguito anche in questi ultimi anni segnati dal “rinnovamento
nella legalità” voluto dal nuovo rettore Gaetano Silvestri, dopo lo
scoppio del ‘caso Messina’ e della scoperta del dominio dell’Ateneo
da parte delle cosche di ‘ndrangheta. Di questo bisogna dare atto
alle capacità di coinvolgimento trasversale del direttore-presidente.
E’ innegabile che con la guida assunta da Nino Calarco, la
Fondazione Bonino Pulejo è riuscita ad allineare fedelmente docenti e
ricercatori al grande ‘partito del Ponte’, con la conseguenza che
l’Università di Messina è mancata ai suoi doveri istituzionali di
analisi sui possibili impatti socio-ambientali, e peggio, nella
ricerca di strategie alternative di sviluppo economiche per l’area
dello Stretto. Troppo spesso, così, uno dei maggiori atenei del Mezzogiorno ha
legato la propria immagine al sogno progettuale della
megainfrastruttura. Nel settembre del 1994, ad esempio, le Università
di Messina e Reggio Calabria insieme alla Fondazione Bonino Pulejo e
al Consorzio dell’Istituto Superiore dei Trasporti di Reggio
Calabria hanno organizzato un convegno internazionale sui trasporti
nell’area dello Stretto in cui i relatori, tutti, si sono detti
favorevoli alla realizzazione del Ponte. Significativamente a
concludere i lavori, è stato chiamato il direttore della Gazzetta e
presidente della Società Stretto di Messina Nino Calarco. Otto anni più tardi, in piena campagna di rilancio delle Grandi
Opere e dell’ipotesi progettuale del Ponte, la Fondazione è scesa
in campo accanto alle Università dello Stretto e al ministero dell’Istruzione,
finanziando l’indagine del Consorzio interuniversitario Almalaurea
sulla ‘condizione occupazionale dei laureati’. L’appuntamento
scientifico si è trasformato in una tribuna del presidente Calarco
per richiamare attorno al Ponte “l’attenzione delle facoltà di
Ingegneria di Messina e di Reggio Calabria” e quella degli studenti
e dei neolaureati ingegneri a cui l’infrastruttura potrà fornire
“centinaia” di posti di lavoro (102). In realtà le due facoltà di ingegneria dello Stretto si sono
particolarmente distinte nell’organizzare importanti meeting ‘scientifici’
a sostegno degli elementi tecnico-strutturali del megaprogetto. E più
dell’improbabile sbocco occupazionale per i propri laureati esse
sperano di ottenere un riconoscimento diretto e concreto dal Ponte: il
professore Aurelio Misiti, assessore regionale della Calabria e
presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, uno dei
maggiori sostenitori dell’infrastruttura, ha già promesso la
realizzazione a Reggio della ‘Galleria del vento’ e a Messina
della facoltà di Scienze dei materiali (103). Consiglieri e consigliori dell’azienda di beneficenza Vincelli è stato sottosegretario ai trasporti dal 1969 al 1974,
gli anni della realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio
Calabria, opera che secondo lo storico Enzo Ciconte, fu “la grossa
occasione colta dalle ‘ndrine calabresi per inserirsi nei lavori di
costruzione, per imporre una propria presenza e, in definitiva, per
accrescere le proprie possibilità economiche oltre che per affermare,
in modo clamoroso e pubblico, la propria forza e il proprio potere”
(104). Fino agli anni ’80, segretario particolare di Sebastiano
Vincelli è stato Vincenzo Cafari, pluripregiudicato per reati contro
il patrimonio, definito “uno dei punti di riferimento” dei clan
‘ndranghetisti degli Avignone, dei Piromalli e dei De Stefano. Il
senatore Sebastiano Vincelli, insieme al suo stretto collaboratore, l’on.
Lodovico Ligato, il presidente delle Ferrovie dello Stato trucidato
dalla ‘ndrangheta, compare tra i politici indicati dal collaboratore
di giustizia Giacomo Lauro come appartenenti ad una superloggia
massonica coperta di Reggio Calabria (105) C’è un altro discusso politico calabrese che ha contestualmente
legato il proprio nome alla Fondazione Bonino-Pulejo e alla battaglia
per la realizzazione del Ponte di Messina. Si tratta del più volte
sindaco di Palmi Armando Veneto, già DC, poi PPI, oggi Margherita,
editorialista della Gazzetta del Sud e patron del ‘Premio Città di
Palmi’, finanziato dal 1995 dalla Fondazione presieduta da Nino
Calarco. Di Armando Veneto è nota l’attività di lobbista del
Ponte; in particolare ha promosso in Parlamento l’ordine del giorno
che ha sbloccato i finanziamenti per l’ultima fase della
progettazione affidata alla Società Stretto di Messina. Sul sindaco-parlamentare si sono soffermati i giudici di Reggio
nella loro ordinanza sull’Operazione Olimpia: “Altrettanto
memorabile fu il funerale di Girolamo Piromalli nel febbraio del 1979.
Assolutamente incuranti della presenza dei fotografi (delle forze dell’ordine)
capi bastone ed affiliati di tutte le consorterie calabresi resero l’estremo
e doveroso omaggio al capo ormai privo di vita. A ringraziare in nome
del casato Piromalli la moltitudine mafiosa presente intervenne in
conclusione l’avvocato Armando Veneto noto professionista del foro
di Palmi” (106). Se per Vincelli non è stata provata l’affiliazione alla
massoneria, differente il discorso per alcuni dei consiglieri d’amministrazione
del gruppo Fondazione Bonino-Pulejo-Gazzetta del Sud. Consigliere del
Centro Neurolesi e della Gazzetta del Sud-Calabria S.p.A. è stato
sino alla sua recentissima scomparsa, Vittorio Causarano, affiliato
alla loggia massonica ‘Libertà’ del Grande Oriente d’Italia.
Vittorio Causarano ha ricoperto per decenni l’incarico di dirigente
per la Sicilia e la Calabria della Publikompass S.p.A., la maggiore
società pubblicitaria italiana, concessionaria della Gazzetta.
Fratello di Francesco Causarano, viceredattore capo della Rai, in vita
l’ex dirigente della Publikompass è stato intimo amico dell’ex
direttore del Tg 1 Nuccio Fava e di Eugenio Rendo, imprenditore della
nota famiglia di costruttori-imprenditori catanesi. Nel collegio sindacale della SES e della Gazzetta del Sud-Calabria
S.p.A. compare anche il nome del commercialista messinese Salvatore
Cacace, anch’egli massone del Grande Oriente d’Italia, dalle forti
simpatie politiche per Forza Italia (107). Cacace è stato
recentemente rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulla
bancarotta della società S.p.i.d.a. - Costruzioni generali S.p.A., di
cui era titolare il costruttore Cesare D'Amico. Secondo l'accusa, la
S.p.i.d.a. avrebbe venduto una serie d’appartamenti distraendoli
dall'asse fallimentare e quindi recando pregiudizio ai creditori
(108). I Signori del cemento Ma è tuttavia la presenza tra gli azionisti della SES del maggiore
produttore mondiale di cemento a supportare la tesi di un uso
strumentale dell’editoria meridionale per la mobilitazione delle
coscienze collettive a favore della realizzazione di inutili e
devastanti megainfrastrutture ad alta intensità di capitali pubblici.
Il 18% circa del pacchetto azionario della società editrice della
Gazzetta del Sud appartiene infatti al Gruppo industriale Pesenti, che
oltre a dominare il mercato internazionale dei materiali di
costruzione vanta enormi interessi nel settore immobiliare, dell’acciaio
e dell’editoria. Oggi uno dei Pesenti, Carlo, siede in nome del
gruppo industriale alla vicepresidenza della SES, mentre l’editore
Mario Ciancio è membro del consiglio di amministrazione (109). Per diretta ammissione di Uberto Bonino, l’ingresso nella seconda
metà degli anni ‘70 della famiglia Pesenti nel quotidiano messinese
è ascrivibile proprio all’interesse del gruppo di inserirsi
direttamente nella progettazione e nella realizzazione del Ponte sullo
Stretto. “Pesenti entrò nella SES, nel 1976, ed io gli ho dato una
quota della Gazzetta, il 33%” ha raccontato il sen. Uberto Bonino in
un’intervista ad un settimanale messinese. “Lui era un industriale
dell’acciaio e del cemento e si era illuso che la questione del
ponte sullo Stretto fosse una cosa seria. Quindi credeva di avere
degli interessi in questa zona. Ma una cosa seria il ponte non lo è
mai stata” (110). Una conclusione amara, ma i tempi erano diversi, e
oggi finalmente, potrebbe essere premiata la lungimiranza di uno dei
più grandi signori del cemento. In realtà gli interessi in Sicilia del gruppo Pesenti erano
fortissimi da tempo, come lo erano i legami con i potentati economici
e le classi politiche locali. Ventidue anni prima dell’ingresso nel
quotidiano di Messina, Carlo Pesenti era riuscito a strappare dall’allora
assessore regionale alle finanze Giuseppe La Loggia una nuova legge
per l'industrializzazione della Sicilia che estendeva alle grandi
imprese del Nord onerose agevolazioni e congrue esenzioni fiscali
(111). L’Italmobiliare della famiglia Pesenti, insieme ai giganti
italiani della chimica Edison e Montecatini, ottenne dagli istituti
regionali, finanziamenti per ventidue miliardi, la metà di quanto
venne investito dai tre gruppi nell’isola (112). In pochi anni l’Italmobiliare
acquisì in Sicilia la titolarità delle Cementerie siciliane con i
rispettivi impianti di Villafranca Tirrena (Me), Catania, Porto
Empedocle (Ag) e Isola delle Femmine (Pa). Con le scelte del Gruppo di
trasferire nel Sud del mondo i propri maggiori complessi produttivi,
il settore industriale cementizio è entrato fortemente in crisi in
Sicilia e molti degli impianti sono stati chiusi e dismessi. L’ipotesi
della realizzazione del Ponte e di altre Grandi Opere potrebbe vedere
però il rilancio degli investimenti nell’isola. Il dinamismo
mostrato recentemente dal Gruppo nel mercato finanziario può essere
interpretato come più di un segnale in questa direzione. Dalle cave dellisola al sacco di Palermo La società di Milano controlla a sua volta il 56,6% delle azioni
dell’Italcementi S.p.A., un fatturato di oltre 4.000 milioni di euro
e una presenza in quindici paesi con oltre 19.000 dipendenti (114). I
Pesenti hanno deciso altresì di espandere le proprie attività sui
mercati internazionali mantenendo concentrato l’interesse sul
mercato delle costruzioni e “cercando una integrazione verticale dal
cemento, al calcestruzzo preconfezionato, ai materiali da costruzione
e ai componenti aggiuntivi”. Anche in questo settore, grazie alla
controllata Italcalcestruzzi, i Pesenti hanno ottenuto la leadership
per quota di mercato, fatturato e centri produttivi. Nel 1997 l’Italcalcestruzzi
ha interamente acquisito la Calcestruzzi S.p.A., società appartenuta
al Gruppo Ferruzzi di Ravenna e di cui era stato manager, sino alla
sua morte nel luglio 1993, Raul Gardini, uno dei principali
protagonisti dell’inchiesta sulle tangenti Enimont, l’effimera
joint venture creta da ENI, Montedison e Gruppo Ferruzzi (115). Altro
manager alla guida della Calcestruzzi, è stato Lorenzo Panzavolta,
tra i maggiori protagonisti della prima Mani Pulite, arrestato nel
1992 per le tangenti versate dalla società dei Ferruzzi per
assicurarsi una parte degli appalti per la desolforazione delle
centrali ENEL. Con la Calcestruzzi S.p.A., l’holding industriale-finanziaria
lombarda rafforza la propria presenza in Sicilia, dove però dovrà
confrontarsi con le distorsioni e le dinamiche sviluppate dalla
società di materiali edili negli anni della gestione Ferruzzi-Gardini.
Nell’isola, infatti, nei primi anni ’80, la Calcestruzzi S.p.A. ha
firmato un patto scellerato con Cosa Nostra, acquisendo il controllo
delle maggiori cave siciliane e scegliendo di operare congiuntamente
con le società di produzione di materiale per l’edilizia in mano
alla famiglia Buscemi dello storico mandamento di mafia di Brancaccio.
Più che una scesa a patti con i poteri criminali, l’interscambio
tra la grande impresa del Nord e le piccole società in odor di mafia,
ha risposto ad una precisa scelta di mercato del management per
acquisire il pieno controllo del settore. Nessun assoggettamento
pertanto, ma una consapevole strategia da cui ne è uscito rafforzato
il blocco di potere imprenditoriale-politico-mafioso. Una mutazione
dell’impresa, insomma, più rispondente alla globalizzazione dei
mercati e dell’economia. Riferendosi ai rapporti tra il manager Raul
Gardini e Cosa Nostra, Giovanni Brusca ha così dichiarato: “Una
quota dei grandi appalti era previsto fosse affidata alle imprese
direttamente riconducibili a Cosa Nostra, come il Gruppo Ferruzzi,
facente capo ai Buscemi di Passo di Rigano. (...) I Buscemi si
tenevano in mano questo gruppo imprenditoriale, in maniera molto forte”.
E il collaboratore Angello Siino ha aggiunto che “il Gruppo Ferruzzi,
facente capo a Raul Gardini e, dopo la sua morte, all’ingegnere
Giovanni Bini e Lorenzo Panzavolta, si era avvalso della protezione
mafiosa dei Buscemi, i quali, a loro volta, in cambio della protezione
offerta, potrevano avvalersi della copertura e del prestigio del
potente gruppo finanziario ravennate che vantava anche importanti
agganci politici” (116). Come hanno provato le recenti indagini della Procura di Palermo, la
società del Gruppo Ferruzzi-Gardini è giunta ad acquisire
fittiziamente la Calcestruzzi Palermo S.p.A. del clan Buscemi, per
fare da paravento ai mafiosi operanti per conto del boss Bernardo
Provenzano ed impedire il possibile sequestro da parte dell’autorità
giudiziaria (117). Il padrino intervenne direttamente dalla latitanza
sull’affiliato Luigi Ilardo per chiedere di fermare un tentativo d’estorsione
ai danni dei gestori di una cava a Riesi, Caltanissetta, una “delle
strutture di proprietà della Calcestruzzi S.p.A.” (118). La
società del Gruppo Ferruzzi ha potuto estendere altresì i propri
interessi anche al settore edile-immobiliare, realizzando importanti
operazioni finanziarie a Palermo, grazie alle mediazioni dell’imprenditore
Vincenzo Piazza, personaggio legato ai boss Angelo La Barbera e Totò
Riina, a cui è stato confiscato un patrimonio di oltre 2.000 miliardi
di lire (119). In particolare la società ravennate compare tra le
imprese responsabili della lottizzazione e conseguente devastazione
dell’area di Pizzo Sella, una collina sovrastante la splendida baia
di Mondello. Piazza Affari e il controllo dell’editoria Come ogni grande gruppo industrial-finanziario che si rispetti, i
Pesenti hanno costruito un vero e proprio impero editoriale. Oltre
alla quota della SES-Gazzetta del Sud, l’Italmobiliare di Milano è
proprietaria di una serie di cartiere nazionali e a fine anni ’90,
grazie ad un complesso accordo di cambio di pacchetti societari con il
Gruppo Monti-Riffeser, ha acquisito una rilevante quota (il 4,77%)
della Poligrafici Editoriale, l’holding proprietaria in Italia dei
quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, e in Francia
delle società Presse Alliance-Regie Print, editrici del popolare
quotidiano France Soir (122). Facendo ingresso nella Poligrafici Editoriale, l’Italmobiliare-Pesenti
è diventata socia-alleata di un’altra importante holding
editoriale-finanziaria, quella legata alla Fiat e agli Agnelli, la Hdp
guidata dal manager Maurizio Romiti, che controlla a sua volta la Rcs,
il Corriere della Sera e la rete radio Sper (123). Una quota dell’1%
della Poligrafici Editoriale infine, è in mano alla SocPresse,
maggiore gruppo editoriale francese di quotidiani, tra cui lo storico
Le Figaro. A riprova della fitta rete di controllo della stampa
esercitato dalla holding in mano al trio Monti-Pesenti-Agnelli, va
aggiunto che lo scorso 2 maggio, la Poligrafici ha stilato un accordo
con il gruppo editoriale Caltagirone – Il Messaggero, Il Mattino, Il
Quotidiano di Brindisi, Lecce e Taranto - per la stampa nelle proprie
tipografie del quotidiano Leggo, diffuso gratuitamente a Roma e
Milano. Banche, armi e mandanti coperti Ci sono infine gli innumerevoli interessi del Gruppo Pesenti nel
settore bancario. Attualmente esso controlla l’1,71% di Unicredito
Italiano, una quota sufficiente ad imporre un proprio rappresentante,
Carlo Pesenti, nel consiglio d’amministrazione nel gruppo bancario
che ha espresso pubblicamente l’interesse a concorrere alla
finanziazione del Ponte sullo Stretto. Come abbiamo già visto,
Unicredito è socia in Consortium del Gruppo Franza di Messina,
comproprietaria della Tourist-Caronte che ha il monopolio dei
collegamenti marittimi privati dello Stretto. Consortium ha scalato
Mediobanca e Carlo Pesenti è divenuto consigliere dell’istituto di
Via Filodrammatici; lo stesso vicepresidente della SES-Gazzetta del
Sud siede nel C.d.A. della Banca Popolare ed è stato consigliere del
Credito Romagnolo. Giampiero Pesenti, già presidente del Gruppo Gemina e padre di
Carlo, è stato sino al 1999, membro del consiglio d’amministrazione
del Credito Italiano (124). Carlo Pesenti senior, l’uomo che sbarcò
a Messina per acquisire una quota della Gazzetta del Sud in vista
della realizzazione del Ponte, ebbe sotto il suo controllo a metà
degli anni ’70 il Credito Commerciale, per poi sbarazzarsene dopo un’indagine
aperta dagli ispettori della Banca d’Italia. Subito dopo iniziò la
scalata al Banco Ambrosiano, il prestigioso istituto cattolico di
Milano presieduto da Roberto Calvi e in cui erano rilevanti gli
interessi dello IOR (Istituto Opere Religiose) del cardinale Marcinkus
e del gruppo di potere che ruotava attorno a Licio Gelli (125). In realtà Carlo Pesenti aveva già tentato inutilmente, negli anni
’50, di entrare in possesso dell’Ambrosiano. Successivamente l’industriale
si era scontrato violentemente in Borsa contro l’istituto di Calvi,
quando questi aveva sostenuto Michele Sindona nella scalata all’Italcementi.
Il conflitto fu poi risolto grazie alla mediazione del Vaticano;
Pesenti e Sindona divennero soci delle maggiori cementerie italiane e
il Banco Ambrosiano e lo IOR intervennero a favore dell’imprenditore
lombardo, al tempo in gravi difficoltà economiche. “Carlo Pesenti, ormai anziano, ha dato in pegno proprio a Calvi
le chiavi della cassaforte del suo impero” hanno scritto i
giornalisti Leo Sisti e Gianfranco Modolo. “Presso l’Ambrosiano,
infatti, è depositata ormai da tempo, a garanzia di prestiti, la
maggior parte dei pacchi di controllo di Italmobiliare (il cuore del
gruppo), Ras, Franco Tosi, Ibi, Banca Provinciale Lombarda, ecc.”
(126). Fu però Licio Gelli a mediare la pace definitiva tra Roberto
Calvi e Carlo Pesenti e a sancire l’ingresso di Italcementi nel
Banco Ambrosiano. Agli inizi del 1979 il Venerabile Maestro e i due
finanzieri cattolici s’incontrano all’Hotel Dolder di Zurigo per
firmare un vero e proprio ‘patto di non belligeranza’. Qualche
mese più tardi Carlo Pesenti fu nominato membro del consiglio d’amministrazione
della Centrale, la finanziaria controllata dal Banco Ambrosiano (127).
Negli stessi mesi Roberto Calvi intervenne a favore del nuovo
alleato per sventare l’ingresso in Italmobiliare della finanziaria
del Gruppo Agnelli, stimolando alcuni violenti attacchi stampa sulle
pagine del controllato Corriere della Sera, che arrivò a definire gli
Agnelli degli “scorridori di Borsa” (128). Tre anni più tardi -
marzo 1982 – venne infine autorizzata l’entrata dello stesso Carlo
Pesenti nel consiglio d’amministrazione del Banco Ambrosiano.
Contemporaneamente l’Italmobiliare acquistò il 3,62% dell’Ambrosiano,
sborsando 100 miliardi (129). In verità per questa acquisizione
Pesenti non arrivò a sborsare neanche una lira, anche perché se
avesse voluto non lo avrebbe potuto fare dato l’indebitamento per
oltre mille miliardi del proprio gruppo. Per acquisire i titoli dell’Ambrosiano,
Pesenti utilizzò un prestito dall’Imi, con una fideiussione della
stessa banca milanese. L’ingresso dei Pesenti, tuttavia, non fu sufficiente a salvare il
Banco Ambosiano dal maggiore crack finanziario che abbia mai colpito
un istituto italiano (130). Un crack precipitato dopo le voragini
apertesi nei conti del controllato Banco Andino, utilizzato da Calvi e
Gelli per finanziare l’esportazione di commesse d’armi ai regimi
dittatoriali sudamericani. Il Banco Andino garantì la vendita al
Perù di fregate lanciamissili della classe 'Lupo' e di una decina d’elicotteri
'Agusta-Bell' cui si aggiunsero transazioni miliardarie a favore di
Argentina, Bolivia, Cile, Ecuador e Venezuela (131). Non sono mai
state accertate responsabilità del Gruppo Pesenti nella cattiva
gestione dei crediti delle controllate sudamericane dell’istituto
milanese, tuttavia i giudici hanno potuto verificare che nel Banco
Andino di Lima oltre al pacchetto di maggioranza del Banco Ambrosiano
(pari al 10,4%), era stato depositato il 10% di quello dell’Italmobiliare
(132). Si sa inoltre che tra gli intermediari della transazione degli
armamenti tra Roberto Calvi e i generali peruviani ci fu Alvaro
Meneses, presidente del Banco de la Naciòn, tra gli azionisti di
minoranza del Banco Andino. Nello stesso periodo operava sulla rotta
Italia-Perù il faccendiere di origine messinese Filippo Battaglia,
personaggio noto alla famiglia Pesenti al punto da non fargli mancare
il proprio cordoglio in occasione di un lutto familiare che lo colpì
nel 1991, prima dello scoppio di importanti inchieste sul traffico di
armi che lo avrebbero coinvolto accanto a personaggi legati ai servizi
segreti, alle famiglie mafiose di Catania e ad alcuni
politici-imprenditori iscritti a Forza Italia. Tra le maggiori banche 'prenditrici' del Banco Andino-Ambrosiano ci
sarebbe stata poi la BCCI - Bank of Credit and Commerce International,
più nota come 'Criminal Bank', il più importante centro di lavaggio
del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata per la conduzione
di operazioni finanziarie clandestine e il traffico internazionale d’armi.
La BCCI era proprietà del miliardario pakistano Aga Hasan Abedi, uno
dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan Khashoggi,
partner nelle transazioni d’armi di Filippo Battaglia. La filiale
della BCCI di Lima ha garantito il commercio illegale di armi verso
stati sotto embargo ufficiale, fornendo false certificazioni sui paesi
di destinazione; inoltre avrebbe dato la copertura bancaria, accanto
al Banco Andino, ad acquisti di armi di produzione italiana
(autoblindo Fiat ed Oto-Melara e caccia Aermacchi). "A un paese
di merda come il Perù gli abbiamo portato via 270 milioni solo con
gli elicotteri" ha esclamato in un’occasione Filippo Battaglia
interloquendo telefonicamente con un suo socio mercante d’armi. Una
conferma del ruolo interpretato in Perù dal faccendiere e della
portata dei traffici che banche e imprese nazionali hanno realizzato
nel Sud del mondo. Filippo Battaglia, l’uomo che ha vantato ‘amicizie’ nei
migliori salotti della finanza italiana (133), è stato indagato nell’ambito
dell’inchiesta sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’, i mandanti
occulti tra mafia, politica e massoneria della stagione delle stragi
92-93. L’inchiesta si è conclusa con l’archiviazione della
Procura di Palermo che si è però dichiarata “convinta della bontà
della pista imboccata”, anche se il poco tempo a disposizione “non
avrebbe consentito la raccolta di ‘prove certe’ nei confronti
degli indagati”. Oltre al faccendiere italo-peruviano, nell’inchiesta
sui ‘Sistemi Criminali’ sono stati indagati Licio Gelli, il
neofascista Stefano Delle Chiaie, l’avvocato-imprenditore di
Barcellona Rosario Cattafi, il commercialista Giuseppe Mandalari e i
boss mafiosi Totò Riina e Nitto Santapaola (134). Cap. 4 - Tutti gli uomini del Presidente Le consulenze per il capitalismo dal volto disumano Il grave conflitto d’interessi del gruppo
imprenditoriale-mediatico-politico del cavaliere Silvio Berlusconi al
centro del dibattito-scontro politico, non è esente da
esemplificazioni e personalizzazioni che non aiutano a comprendere la
complessità della crisi democratica e istituzionale che sta
attraversando il nostro paese. Con riferimento all’impero Mediaset
si è troppo abusato dell’espressione “anomalia del caso italiano”.
In realtà, solo per restare nell’ambito degli interessi economici
che ruotano attorno al Ponte dello Stretto, abbiamo già rilevato come
siano differenti e variegate le incompatibilità e i conflitti che
hanno caratterizzato la storia progettuale dell’opera (vedi casi
Pesenti, M., Franza, Gruppo Gazzetta del Sud-Fondazione Bonino
Pulejo, ecc.). Se è pur vero che in Italia oggi esiste un
premier-capitano di una delle maggiori concentrazioni
editoriali-televisive, per giunta “perseguitato” da un eccezionale
numero di procedimenti penali, è altrettanto vero che nell’entourage
di Berlusconi sono in tanti a condividere contestualmente ruoli di
governo o di ‘vigilanza istituzionale’ e quelli di gestione di
imprese per la progettazione e l’esecuzione di grandi opere. Dovendo per forza di cose soffermarci sulla megaopera di
collegamento tra Scilla e Cariddi, è utile considerare la figura
dello stesso ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi,
politico-imprenditore che sta giocando un ruolo decisivo per il
rilancio dell’ipotesi-mito del Ponte. Prima di assumere l’incarico
che lo vuole a capo di un ministero che chiede di spendere centinaia
di migliaia di miliardi sventrando alpi ed appennini e cementificando
fiumi, coste e lagune, l’ingegnere Pietro Lunardi è stato
consulente di alcune tra le più importanti imprese di costruzioni
italiane: la Romagnoli, la Tettamanti, la Cogefar del gruppo Fiat
(oggi inglobata nell’Impregilo), il Gruppo Ferruzzi, la Lodigiani di
Roma, la Pizzarotti di Parma, la Grassetto di Salvatore Ligresti.
Società che sono state indagate nei vari tronconi di Mani Pulite e,
alcune, persino sospettate di essere entrate in affari con gruppi
mafiosi-imprenditoriali. Sono innumerevoli le storie di mazzette e appalti truccati delle
società di cui il professore-ministro Pietro Lunardi si onora essere
stato consulente-contrattista. Romagnoli, Tettamanti, Lodigiani e
Grassetto sono le imprese che in consorzio hanno realizzato parte
della linea 3 della metropolitana di Milano e il passante ferroviario
del capoluogo lombardo, ungendo di miliardi, oltre dodici, il gotha
politico-istituzionale dell’Italia di fine prima repubblica. I
Ferruzzi sono tra i protagonisti dello scandalo Enimont, la “madre
di tutte le tangenti” e con la controllata Calcestruzzi (oggi
passata alla famiglia Pesenti) sono finiti sotto inchiesta per gli
appalti per la desolforazione delle centrali ENEL e come abbiamo
visto, per la gestione delle cave in Sicilia nelle mani dei boss di
Cosa Nostra. Il costruttore Paolo Pizzarotti ha dovuto ammettere di
aver versato a Severino Citaristi, il cassiere della DC, 500 milioni
per potersi aggiudicare alcuni appalti per la realizzazione dell’aeroporto
Malpensa di Milano, mentre sarebbe necessario un intero volume per
raccontare le malefatte della ex Cogefar-Impresit oggi Impregilo,
dalle tangenti per i lavori alla metropolitana e al passante di
Milano, a quelle per la costruzione del policlinico di Pavia, dalla
cogestione del sistema spartitorio per i grandi appalti dell’ANAS e
della Società Autostrade ai tempi del ministro Gianni Prandini, all’immane
scandalo dell’Alta Velocità e dei trafori ferroviari dell’appennino
tosco-emiliano. “La Cogefar Impresit, ereditando una procedura instaurata dalla
precedente gestione della Cogefar, utilizzava disponibilità estere
esistenti presso una società terza sita nelle isole del Canale e che
si serviva a sua volta di una banca in Liechtenstein”, si legge nel
memoriale consegnato ai magistrati di Mani Pulite dall’allora
amministratore delegato del Gruppo Fiat, Cesare Romiti (135). Grazie
ai fondi neri occultati sui conti esteri, miliardi su miliardi sono
stati versati a politici, amministratori, dirigenti, militari della
guardia di finanza; in pochi anni, grazie ad una strategia di mercato
che l’ha vista impegnata nella fusione-assorbimento di altre
importanti imprese del settore (la Girola e la stessa Lodigiani, ad
esempio), l’Impregilo ha conseguito la leadership nel mercato
italiano delle costruzioni delle grandi infrastrutture ed è penetrata
con successo perfino nel delicato mondo delle commesse pubbliche della
Sicilia, quello sovraordinato dai ‘tavolini’ a cui sedevano
politici, imprenditori, mafiosi e massoni (136). E non vanno infine
dimenticati i crimini sociali ed ambientali e la lunga scia di
violazioni dei diritti umani di cui la Cogefar-Impregilo è
direttamente e indirettamente responsabile nel Sud del mondo, dalla
Nigeria al Lesotho, dalla Colombia all’Argentina, dal Kurdistan al
Nepal (137). Il ministro-ingegnere dell’Alta Velocità I lavori per le metropolitane di Milano e Roma e per l’Altà
Velocità sono tra le opere a più alto impatto criminogeno e
tangentizio della recente storia repubblicana. Già dicevamo dei
dodici miliardi versati a politici e amministratori di Milano dal
consorzio Romagnoli-Tettamanti-Lodigiani-Grassetto, per accaparrarsi i
lavori per alcune tratte della metro lombarda. Ma i giudici hanno
svelato un sistema corruttivo ancora più complesso ed articolato all’ombra
della MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A., la
società che ha gestito l’intera assegnazione degli appalti per la
terza linea dell’infrastruttura e quelli per il passante ferroviario
di Milano. Per l’attribuzione dei lavori esisteva un tariffario
determinato che alimentava un fondo per il finanziamento dei partiti
politici: la regola prevedeva il 3-4% di tangenti sulle opere di
costruzione fino ad un 13,5% sui contratti d’impiantistica. I due
quinti delle tangenti finivano al PSI, un quinto al PCI, un altro
quinto alla DC e il resto veniva suddiviso ai partiti minori (PSDI e
PRI). Le tangenti del ‘sistema MM’ sono state pagate per i vari lotti
della linea della metropolitana, per il passante ferroviario, per
tutte le forniture di materiale rotabile, per l’impiantistica, per
la costruzione dei parcheggi adiacenti alle stazioni. “Le imprese,
come d’abitudine, si accordavano per predeterminare gli esiti delle
gare evitando i noiosi impicci del libero mercato. Un rappresentante
dell’azienda capofila per ogni appalto si premurava di raccogliere
le somme “dovute” da ciascuna società della cordata vincitrice.
Poi regolava le pendenze con i diversi partiti, oppure consegnava la
tangente al ‘cassiere unico’ delle forze politiche, il quale poi
divideva il bottino con i ‘colleghi’” (140). Non c’è stata impresa di costruzioni che non si sia sottoposta
al sistema di tassazione illegale pur di ottenere la sua fetta d’appalti
a Milano. Oltre alle società che affidarono direttamente lavori di
progettazione alla Rocksoil di Lunardi, ci furono i più noti gruppi
industriali internazionali, l’Ansaldo, la Siemens, la Abb, la Fatme,
la Sasib, la Siette, la Wabco Westinghouse, le imprese di costruzioni
Torno, Collini, Progetti&Costruzioni e Guffanti, e finanche una
lunga serie di cooperative ‘rosse’, la CMC-Cooperativa Muratori e
Cementisti di Ravenna, la Unieco, la Coopsette, la Cmb di Carpi. Una
fitta trama imprenditorial-politica che ha dilapidato immense risorse
finanziarie e che ha avuto come prima ricaduta la crescita vertiginosa
dei costi di realizzazione delle infrastrutture per il trasporto
urbano di Milano. E’ stato calcolato che la nuova linea è costata
all’erario, 192 miliardi di lire a chilometro, contro i 45 della
metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario, a sua volta, ha
raggiunto i 100 miliardi a chilometro mentre quello similare di Zurigo
è costato poco meno della metà. Ancora più scandaloso è stato l’incremento dei costi per la
realizzazione della metropolitana di Napoli - committente ancora una
volta la MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A. - un’opera
che doveva costare 50 miliardi e che al completamento superò i 1300
miliardi. Anche per questi lavori il giro di mazzette fu ampio ed
articolato. Solo al processo d’appello, l’ex ministro per il
bilancio del governo Andreotti, l’on. Cirino Pomicino, è uscito
assolto per intervenuta prescrizione del reato, dopo una condanna a
due anni per essere stato il recettore di una tangente di quattro
miliardi. Meglio era invece andata all’ex ministro delle partecipazioni
statali on. Clelio Darida e agli altri imputati del processo sulle
tangenti versate dal consorzio Intermetro a guida Cogefar-Impresit e
Iri-Italstat per l’aggiudicazione dei lavori per la nuova
metropolitana di Roma, l’altra megaopera a cui la Rocksoil di
Lunardi ha venduto le proprie competenze progettuali (141). Eccetto l’allora
presidente del consorzio Luciano Scipione, sono usciti tutti assolti
in primo grado dopo che il fascicolo d’indagine era approdato nel
porto delle nebbie del tribunale capitolino. C’è poi il capitolo non ancora conclusosi del business dell’Alta
Velocità, i cui lavori nelle tratte Bologna-Firenze e Roma-Napoli,
hanno comportato una spesa superiore ai 50 mila miliardi di lire e l’affermazione
di un vero e proprio blocco di potere che ha visto tra i maggiori
protagonisti l’ex amministratore delle Ferrovie dello Stato Lorenzo
Necci, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, alcuni magistrati
romani e noti faccendieri legati alla P2 e ad alcuni trafficanti d’armi.
“L’Alta Velocità coinvolge tutti i centri di potere che contano
in Italia, così da non scontentare nessuno e stroncare sul nascere
qualunque opposizione” scrive l’economista Ivan Cicconi, estensore
di una ricerca sul sistema delle tangenti nell’affare ferrovie. In
effetti, il congegno spartitorio è stato disegnato con scientificità
e saggio equilibrismo. Al tavolo degli appalti si sono sedute le
maggiori imprese di costruzioni nazionali, accorpatesi in sette
consorzi, guidati due dall’IRI, due dalla Fiat, due dall’ENI e uno
rispettivamente dalla Grassetto di Ligresti e dal Gruppo Ferruzzi.
Apparentemente nulla di nuovo sotto il sole: le società sono sempre
le stesse, ma c’è una novità nel modello di finanziazione e
realizzazione delle opere, attività affidate ad una società creata
ad hoc in seno alle Ferrovie dello Stato, la Tav S.p.A., spacciata
mediaticamente per ‘società privata’, nonostante l’azienda
statale ne detenga direttamente il 45.1% del pacchetto azionario, più
un altro 5% attraverso la controllata Banca nazionale delle
comunicazioni. Un vero e proprio falso ideologico “anche perché il
restante 49,5% è distribuito fra 23 istituti bancari, in maggioranza
di diritto pubblico ed è inoltre stato accertato che tutti i prestiti
bancari per l’alta velocità sono stati attivati solo grazie alle
garanzie prestate presso gli istituti di credito da FS e dal suo socio
di riferimento, il ministero del Tesoro” (142). Grazie all’escamotage della Tav “società privata”, i lavori
per l’Alta Velocità sono stati affidati a trattativa privata e non
per appalto pubblico, come previsto dalle direttive europee. Inoltre
ciò ha permesso che gli eventuali responsabili d’illeciti restino
al riparo dal codice penale, perché a loro non è possibile
contestare il ruolo di pubblici ufficiali. Attraverso il sistema del
general contractor – l’affidamento ai privati di un’infrastruttura
dalla fase di progettazione, alla cofinanziazione, all’esecuzione e
gestione - lo stesso che viene proposto per la realizzazione del Ponte
sullo Stretto e per le grandi opere dell’era Lunardi, i tre maggiori
colossi economici italiani (IRI, ENI e Fiat) hanno potuto scegliere in
piena autonomia le imprese per i lavori “ventitre in tutto,
coordinate dal quintetto Astaldi-Lodigiani-Caltagirone-Di Falco-Salini”
(143). Anche in questo caso la ‘privatizzazione’ delle grandi
opere pubbliche si è rilevata tutt’altro che un affare. Mentre in
Spagna la linea ad alta velocità Madrid-Siviglia è costata nove
miliardi e mezzo di lire a chilometro, in Italia, nel 1998 la
previsione di spesa era di ventisei miliardi, linee elettriche e treni
esclusi (144). Solo per gli appalti della Bologna-Firenze sarebbero state versate
tangenti multimiliardarie a DC, PSI, PDS, MSI e partiti minori dell’ex
centrosinistra. Un primo grande troncone d’indagine sull’affare
dell’Alta Velocità è approdato in un tribunale, quello di Perugia,
dopo l’apertura dell’inchiesta sulle trame del banchiere Pacini
Battaglia (145). Sono 74 le persone di cui è stato chiesto il rinvio
a giudizio, in buona parte imprenditori, dirigenti delle ferrovie ed
ufficiali della guardia di finanza. Gli indagati farebbero tutti parte
“di una struttura bene organizzata composta da manager pubblici e
privati” che gestiva gli appalti e la “successiva distribuzione di
lavori per le grandi opere”, con l’obiettivo di “creare fondi
extracontabili per erogare tangenti verso il potere politico che quei
vertici avevano sponsorizzato, e verso gli stessi amministratori
pubblici per garantire il loro illecito arricchimento” (146). Tra i
nomi più noti, il presidente della squadra calcistica della Lazio
Sergio Cragnotti e l’ex amministratore della Tav S.p.A. Ettore
Incalza. Secondo la Procura di Perugia sarebbe proprio quest’ultimo
uno dei maggiori protagonisti della vicenda. “Pupillo e vero amico
di Pacini, Incalza era destinato a succedere a Necci alla guida delle
Ferrovie dello Stato”, scrivono di lui i magistrati umbri. Appena
nominato ministro delle infrastrutture, Pietro Lunardi lo ha però
chiamato tra i suoi più stretti collaboratori. Lavori relativi a progettazioni di Gallerie e di Consolidamenti e
Fondazioni realizzati dalla Rocksoil S.p.A. per conto di grandi
società e consorzi privati Cogefar-Impresit (oggi Impregilo) 1979 – Strada di collegamento Frejus, tratto Bardonecchia-Savolux 1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Italstrade 1986 - Consolidamento Frana di Spriana (Valtellina) 1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6)
– In consorzio con Italstrade Di Penta 1997 – Galleria Principe Amedeo, viabilità Roma Gambogi S.p.A. 1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo Grassetto 1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Lodigiani, Romagnoli, Tettamanti 1990 – Diga cantoniera sul fiume Tirso 1990 – Viadotto Santa Chiara sul fiume Tirso Incisa 1991 – Strada Statale n. 248 Montebelluna Intermetro S.p.A. 1988 - Metropolitana di Roma, linea A, tratto da Ottaviano a Battistini 1988 - Stazione Aurelia Cornelia 1988 – Stazione Ubaldo degli Ubaldi Italstrade S.p.A. 1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Cogefar 1981 – Autostrada Udine-Cervia-Tarvisio 1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6) – In consorzio con Grassetto 1990 – Depuratore di Temuno Lodigiani S.p.A. 1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio
con Grassetto, Romagnoli, Tettamanti M.M. Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A. 1985 – Metropolitana di Milano, linea 3, lotto 7 1985 - Passante ferroviario Milano-Porta Venezia 1986 - Metropolitana di Napoli, linea tranviaria rapida. 1990 – Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3 1990 – Collegamento ferroviario Passante di Milano 1991 - Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3 1991 – Collegamento ferroviario Passante di Milano Pizzarotti S.p.A. 1984 – Scalo F.S. Crevignano del Fiuli 1984 – Officina F.S. Nola 1987 – Strada Statale Merano-Bolzano 1989 – Parcheggi sotterranei in località Revis – Cortina d’Ampezzo
Romagnoli S.p.A. 1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani, Tettamanti 1991 – Strada Statale n. 415 Paullen Sicalf S.p.A. 1983 – Strada Statale n. 3 Flaminia (lotti I e II) 1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo Tettamanti 1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani, Romagnoli Al club degli impresentabili-incompatibili In realtà, la Rocksoil è più vicina di quanto pare all’ipotesi
progettuale per un collegamento stabile del corridoio marino tra
Scilla e Cariddi. Nel 1987, per conto dell’ANAS, la società ha
eseguito lavori di progettazione relativi “all’attraversamento
dello Stretto”. A differenza di tutte le altre opere progettate e di
cui la Rocksoil fornisce una lunga serie di dati tecnici, le
informazioni della società Lunardi sulle attività svolte a Messina
sono proprio ridotte al minimo. Titolo e anno lasciano però
presupporre un intervento diretto nell’iter progettuale del Ponte:
due anni prima, la Società Stretto di Messina aveva stipulato proprio
con l’ANAS e le Ferrovie dello Stato, una convenzione per lo “studio,
la predisposizione del progetto di massima del ponte, la costruzione e
l'esercizio del collegamento stradale”. Il periodo, tra l’altro,
coincide con un certo attivismo della società nell’area compresa
tra le province di Messina e di Reggio Calabria: nel 1980 il Genio
Civile di Reggio aveva assegnato alla Rocksoil i lavori di
consolidamento del promontorio di Scilla; nel 1984 Lunardi si era
aggiudicato dalla Società Autostrada Messina-Palermo la progettazione
di alcuni tunnel dell’arteria mai completata (gallerie S. Elia,
Carbonara e Laugenia); tre anni più tardi aveva ottenuto dalle
Ferrovie dello Stato la progettazione della galleria di Capo d’Armi
sulla tratta ionica Reggio-Metaponto (147). Se il ministro non trova incompatibile il decidere sulla
fattibilità e sulla messa in opera di infrastrutture proposte o
appaltate a imprese di cui è stato consulente e contrattista, ancor
meno ritiene possibile un qualsiasi conflitto d’interessi lo
scegliere collaboratori e commissari che sono stati suoi committenti o
datori di lavoro. Lunardi, ad esempio, ha nominato commissario dell’ANAS,
Vincenzo Pozzi, già amministratore delegato della RAV, la società
del Raccordo Autostradale Valdostano che ha affidato alla Rocksoil la
progettazione del raccordo autostradale e di quattro gallerie in Val d’Aosta
(148). “Pozzi dà incarichi professionali miliardari al
Lunardi-progettista, Lunardi-progettista diventa ministro, il
Lunardi-ministro nomina Pozzi presidente dell’ANAS” ha commentato
il giornalista Gianni Barbacetto il circolo vizioso che ha posto l’ex
manager Rav a capo della società titolare del 12,25% delle azioni
della Società Stretto di Messina (149). E’ proprio in tema di Ponte che appaiono più evidenti i
conflitti d’interessi dei nuovi incaricati dal governo alla gestione
delle Grandi Opere. Da qualche mese sono stati nominati i nuovi membri
del consiglio d’amministrazione della Stretto di Messina, più
alcuni ‘consulenti’ da affiancare per la riprogettazione dell’infrastruttura.
Le sorprese sono tante. Il neo amministratore delegato della società
ad esempio, è il dottor Pietro Ciucci, attuale consigliere di
Alitalia e di Rai Holding, direttore generale dell’IRI e componente
del Collegio dei liquidatori dell’istituto di Via Veneto. Trasporti,
emittenza televisiva e settore industriale, quasi a volere enfatizzare
i pilastri su cui poggia il ‘modello di sviluppo’ dell’era
Berlusconi. Ciucci, però, ha un curriculum vitae ancora più ampio e
ramificato: dal 1969 al 1987 ha lavorato come direttore amministrativo
nella Società Autostrade; poi è passato alla presidenza della
finanziaria Cofiri e alla vicepresidenza della Banca di Roma e,
infine, è stato nominato membro dei consigli d’amministrazione di
colossi del settore creditizio ed industriale come l’ABI, la Banca
Commerciale Italiana, il Credito Italiano, la Stet, Finmeccanica,
Aeroporti di Roma, e della stessa società Autostrade. Come è
possibile notare molte di queste società o dei gruppi che ne
detengono i pacchetti azionari sono tra i maggiori concorrenti alla
cofinanziazione-realizzazione-gestione del Ponte di Messina. A dar soluzione agli enormi problemi di tipo tecnico-strutturale
della infrastruttura che si vorrebbe realizzare nello Stretto, Pietro
Lunardi ha chiamato il professore di tecnica delle costruzioni Remo
Calzona, anchegli impegnato in prima persona, insieme allo stesso
ministro delle infrastrutture, nella progettazione dellAlta Velocit e
dei tunnel autostradali del Raccordo Valdostano. Remo Calzona è stato
nominato presidente del comitato tecnico che dovrà sovrintendere
all'adeguamento del progetto del Ponte di Messina, mentre già circola
il suo nome tra i candidati che potrebbero assumere la carica di
commissario straordinario per la realizzazione dell'opera. Nella classifica degli impresentabili spicca poi il nome di Lino
Cardarelli, fresco di nomina nel consiglio d’amministrazione della
Stretto di Messina, a cui è transitato dopo aver fatto parte per
circa un anno della segreteria particolare del ministro Pietro Lunardi.
Cardarelli è uno dei tanti miracolati dalla rapida fine del ciclone
Mani Pulite e dall’altrettanto repentino passaggio alla seconda
repubblica: arrestato per finanziamento illecito ai partiti quando era
dirigente della Montedison di Schimberni, ne è poi uscito ‘assolto’
per intervenuta prescrizione del reato (150). Nelle file degli
impresentabili c’è poi l’ex amministratore delegato della Stretto
di Messina, il dottor Carlo Bucci, riconfermato tra i membri del nuovo
consiglio d’amministrazione della società. In questo caso non si
tratta di qualche errore di gioventù ma di una riprovata ignoranza in
tema storico-ambientale. E’ sufficiente riportare una sua
dichiarazione ad un convegno sui trasporti, a cui la Gazzetta del Sud
non poteva non dare grande rilevanza. “Di tutte le possibilità di
collegamento – ha sottolineato Bucci – il Ponte è la più
ecologicamente compatibile: non ha fondamenta in acqua ma poggia sulla
terraferma, dunque non altera l’equilibrio marino, né scarica nulla
a mare”. Bucci ha poi aggiunto che nell’arco di otto anni, i
lavori per il Ponte impegneranno un indotto “di 75 mila persone: gli
abitanti virtuali di una città invisibile che prospererà sulla
costruzione di un’opera di rilievo planetario, la prima che sarà
realizzata in Italia dopo il Duomo di Milano, sorto 700 anni fa”
(151). Forse Bucci non conosce Piazza San Pietro, il Duomo di Firenze
e la Torre di Pisa, ma la cosciente menzogna sull’indotto,
moltiplicato per dieci volte il suo valore reale, è proprio
imperdonabile. Un Presidente da Sogno Il 12 maggio 2001, alla vigilia delle elezioni politiche che
avrebbero riportato al governo Berlusconi, Bossi e Fini, il candidato
Pietro Lunardi, indicato dal leader di Forza Italia come possibile
futuro ministro per le infrastrutture, si reca a Luino (Varese) per
incontrare amministratori ed esponenti di Forza Italia e un nutrito
gruppo di imprenditori lombardi. Lo accompagna l’on. Giuseppe
Zamberletti, DC doc, già sottosegretario all’interno e ministro per
la protezione civile e dei lavori pubblici (152). Zamberletti apre la
convention elettorale presentando il futuro ministro come l’uomo
giusto per rendere cantierabili le Grandi Opere bloccate da anni.
Interviene Lunardi: “La Casa delle Libertà prevede per l’intero
Paese, investimenti che si aggireranno in tutto attorno ai 260 mila
miliardi”. Quindici giorni più tardi l’ingegnere-consulente delle
maggiori società di costruzioni d’Italia assumerà l’incarico di
ministro. Un anno più tardi avrà modo di sdebitarsi con l’amico-collega
Zamberletti, nominandolo alla presidenza della Società Stretto di
Messina dopo dodici anni di incontrastata presenza del direttore della
Gazzetta del Sud Nino Calarco. C’è un filo impercettibile che lega tutti i presidenti della
storia della società del Ponte, dall’on. Oscar Andò, a Calarco,
per finire con Zamberletti: l’essere stati parlamentari eletti come
espressione dell’area ultramoderata della Democrazia Cristiana. E l’ex
ministro, come il direttore della Gazzetta del Sud, vanta un’antica
amicizia con l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, di
cui tra l’altro ne è stato sottosegretario negli anni di piombo
della cosiddetta lotta al terrorismo. Con Cossiga, Zamberletti
condivide passioni e vicinanze con certi settori delle forze armate e
dei servizi segreti. Poco prima di essere chiamato alla Stretto di
Messina, Giuseppe Zamberletti è stato tra i parlamentari
particolarmente distintisi nella campagna orchestrata dalle grandi
imprese militar-industriali per la modifica della legge 185 del 1990
che regola l’export di armi italiane, a favore della piena ‘liberalizzazione’
in materia. “Siamo contro le norme, introdotte dall’area
parlamentare più utopistica e massimalista, realmente assurde, come
quelle relative ai paesi in via di sviluppo”, ha dichiarato lo
stesso Zamberletti, in occasione di un seminario organizzato dall’Istrid,
l’Istituto ricerche e informazioni difesa insieme alle maggiori
aziende belliche nazionali. L’azione a favore della lobby dei mercanti di morte si è
sviluppata parallelamente alla ricerca della “verità” su due
delle peggiori stragi della recente storia d’Italia, l’esplosione
in volo del Dc-9 di Ustica e l’attentato alla stazione di Bologna
nel 1980. In un volume Zamberletti ha rilanciato la cosiddetta “pista
libica”, sempre più improbabile e depistante dopo le conclusioni a
cui sono giunte procure e commissioni parlamentari d’inchiesta. “Se
pure i servizi segreti italiani hanno bene interpretato sia la
minaccia di Ustica sia la vendetta di Bologna – ha dichiarato
Giuseppe Zamberletti – essi non avevano alcun interesse ad indagare
in quella direzione e provocare un grosso incidente internazionale.
C'era dunque una ragione di Stato. Fuggire dalla pista libica
significava mantenere intatte le condizioni per la ripresa dei buoni
rapporti con la Libia” (153). Non è noto perché mai il neopresidente della Stretto di Messina
si ostini a difendere una tesi che fu sposata ed amplificata da agenti
deviati e centrali massoniche. Di certo non è mai stato chiarito a
che titolo e per conto di chi il nome di Giuseppe Zamberletti fosse
stato inserito nella lista del governo ultramoderato che doveva essere
insediato dopo il cosiddetto ‘golpe bianco’ dell’ex partigiano
Edgardo Sogno, previsto per l’agosto 1974, al culmine di una lunga
stagione di sangue e di bombe neofasciste. Il ‘governissimo’ per
la restaurazione dell’ordine sociale, il cui programma presentava
sorprendenti analogie con il Piano di Rinascita Democratica di Licio
Gelli, prevedeva la presidenza di Randolfo Pacciardi, con ministro
della difesa Edgardo Sogno e dell’industria, appunto, Giuseppe
Zamberletti (154). Il ‘sogno’ di una svolta conservatrice e antioperaia fu
alimentato dai fondi neri della Fiat e dei servizi segreti italiani e
USA. Vide altresì l’attivazione dei Comitati di Resistenza
democratica, dei maggiori industriali di destra, di uomini di vertice
delle forze armate e perfino di alcuni banchieri stranieri, come ad
esempio i due John McCaffery senior e junior. Il primo aveva guidato
dal 1943 al 1945 i servizi segreti inglesi in Italia; successivamente
era divenuto socio del finanziere Michele Sindona nella Banca Privata
Italiana e nella Banca Wolf di Amburgo. John Mc Caffery junior invece,
negli anni della strategia della tensione, sedeva come membro del
consiglio d’amministrazione della Banca di Messina di cui era
proprietario Sindona e di cui l’industriale editore Uberto Bonino
aveva detenuto un pacchetto di minoranza sino all’avvento del
banchiere in odor di mafia (155). Le ombre del passato si sono
rincrociate tra i venti e le correnti dello Stretto. Il business dell’eccezionalità La scelta di attribuire la presidenza della Società Stretto di
Messina all’anziano parlamentare democristiano risponde ad un
criterio oggettivo: accelerare la trasformazione della società del
Ponte, favorirne la privatizzazione e assicurarle pieni poteri in tema
di appalti e cantierizzazione dell’opera. Per un’infrastruttura di
tale ‘straordinarietà’ sono indispensabili strumenti e mezzi ‘straordinari’,
come quelli che furono affidati a Giuseppe Zamberletti in occasione di
eventi ‘straordinari’, come accadde nel 1976 con il terremoto del
Friuli e quattro anni più tardi con il sisma che distrusse l’Irpinia.
E non è un caso che queste siano anche le intenzioni del ministro
Pietro Lunardi, sponsor di Zamberletti, che vanta esperienze dirette
proprio in tema di post-emergenza ed ‘eccezionalità’ degli
interventi. Nel 1985 alla Rocksoil di proprietà Lunardi, furono
affidati i lavori di consolidamento delle fondazioni degli edifici
predisposti per i terremotati dei comuni di Melito e Pozzuoli
(Napoli), per conto del Consorzio Co.Ri.. Forse risale ad allora la
conoscenza tra l’ingegnere e il parlamentare a cui il governo aveva
affidato la delega per la ricostruzione di Campania e Basilicata. Esperienza estremamente negativa quella della ricostruzione dell’Irpinia
specie per gli effetti che ha avuto nella società e nel costume
politico di un’area strategica del Mezzogiorno d’Italia. “Nel
nostro paese il verificarsi di calamità naturali ha finora costituito
un’ottima occasione per la lievitazione degli interessi di gruppi
mafiosi o ad essi assimilabili – ha commentato lo studioso Umberto
Santino del Centro studi antimafia ‘Giuseppe Impastato’. “Si è
creata una vera e propria ‘economia delle catastrofi’ di cui hanno
beneficiato in tanti, comprese associazioni e imprese criminali. (...)
La mole degli interessi e le modalità di gestione delle attività di
ricostruzione in Irpinia, all’insegna dell’eccezionalità, hanno
stimolato lo sviluppo e l’incrocio di più sistemi illegali”. I
risultati di questo intreccio sono stati l’enorme spreco di risorse
e il trasferimento del denaro pubblico a favore di imprenditori,
camorristi, amministratori e politici, “con la lievitazione del
ruolo della criminalità e la comparsa di criminali organizzati anche
in Lucania, regione fino ad allora indenne” (156). Fu grazie alla
straordinarietà delle misure adottate per il post-terremoto e all’ingente
quantità delle risorse finanziarie catapultate sulle regioni colpite
che si potè sviluppare in Campania un sistema di potere e di scambio
tra le imprese di costruzione del Nord “con molte aderenze
ministeriali”, le organizzazioni camorrisitico-imprenditoriali, i
gruppi politico-affaristici locali. “Ed è ancora tutto da valutare
il ruolo dei grandi procacciatori d’affari (Pazienza e compagni)
legati ai servizi segreti e all’affare Cirillo” (157). Secondo la
magistratura, per la ricostruzione post-terremoto furono versate al
gotha della politica campana, mazzette per trentadue miliardi di lire,
al valore dei primi anni ‘80. Il procedimento giudiziario si è
però concluso con un generale colpo di spugna: dei 137 imputati (tra
cui gli ex ministri Gava, Pomicino, De Lorenzo, Di Donato, Scotti)
nessuno è stato condannato, vuoi perché assolti, vuoi perché ‘prescritti’.
L’Istituto delle Grandi Opere Sarebbe sufficiente la discutibile gestione dell’emergenza
post-terremoto per porre al centro del dibattito politico l’inopportunità
della presenza di Giuseppe Zamberletti alla presidenza della società
che chiede massimi poteri e un assegno in bianco per realizzare il
Ponte sullo Stretto. Eppure c’è dell’altro. L’anziano
parlamentare ricopre infatti, contestualmente, un incarico che per la
sua vicinanza alle maggiori imprese di costruzioni e al sistema
bancario che assicura loro i necessari flussi finanziari, apparirebbe
ostativo in un paese retto da regole democratiche certe e non
manipolabili attraverso il monopolio esercitato dai mezzi di
comunicazione che le stesse banche e gli stessi costruttori detengono. Giuseppe Zamberletti, l’Uomo nuovo del Ponte, presiede dalla sua fondazione nel 1986, l’IGI - Istituto Grandi Infrastrutture, centro di studi e ricerche in campo ingegneristico, infrastrutturale, finanziario e legislativo, che raccoglie tutte le più grandi imprese di costruzioni italiane ed anche determinati istituti bancari. Scopo statutario dell’IGI è di “approfondire i temi degli
appalti pubblici”. In vista del rilancio delle Grandi Opere, l’istituto
ha ampliato la propria base associativa, con l’ingresso dei grandi
concessionari autostradali, degli enti aeroportuali, delle compagnie
di assicurazione e di settori imprenditoriali complementari ai
tradizionali costruttori. “Accanto all’Osservatorio sui grandi
lavori pubblici, che consente all’Istituto di monitorare, unico in
Europa, tutto l’iter dei grandi appalti, dalla gara al collaudo,
sono stati effettuati approfondimenti sui sistemi normativi degli
altri Partner europei, mentre un altro Osservatorio, di recente avvio,
mira a mettere sotto controllo tutte le iniziative in materia di
finanza di progetto”. Insomma un istituto-lobby, capace di
intervenire in tutte le sedi istituzionali, nazionali ed europee, per
sponsorizzare e proporre la realizzazione di megainfrastrutture o per
richiedere la modifica delle norme in materia di appalti e concessioni
in modo da favorire gli investimenti e il ritorno finanziario ai
privati, che sono poi gli stessi soci-dirigenti dell’istituto
presieduto dall’on. Zamberletti (158). L’IGI può essere definito come un vero e proprio centro di
confronto-scambio tra le società e i manager che hanno fatto la
storia economica d’Italia, una storia troppo spesso caratterizzata
da macroscandali, corruzioni dell’amministrazione pubblica, tangenti
a partiti e parlamentari, interventi del pubblico a favore degli
interessi e dei profitti dei privati. Una cassa di compensazione su
cosa, dove come e con chi progettare e realizzare, magari definendo
prioritariamente regole e metodologie di spartizione. Oggi che i
confini tra Stato e aziende sono stati cancellati, associazioni simili
possono anche decidere di sostituirsi ai poteri pubblici per regolare
l’economia e gestire il territorio. Riciclati e riciclabili La stagione di Franco Nobili all’IRI coincide con il piano di
rilancio della controllata Società Stretto di Messina e del progetto
del Ponte, con la nomina di Nino Calarco alla presidenza, e con l’inserimento
nella finanziaria, di un pinguo stanziamento annuale a favore della
stessa società. Nobili dovette abbandonare l’incarico all’IRI in
seguito all’arresto per una storia di tangenti. Ad accusarlo l’allora
vicedirettore d’Italstat Alberto Mario Zamorani: secondo il manager,
Franco Nobili, insieme al ministro dei trasporti Giorgio Santuz e a
quello dei lavori pubblici Gianni Prandini, avrebbe fatto parte del
cosiddetto “sistemone”, il tavolo di suddivisione di appalti e
subappalti per i lavori all’ANAS e alla Società Autostrade a cui
sedevano grandi costruttori privati, manager delle imprese pubbliche e
politici. I giudici di Milano hanno altresì rilevato nei bilanci
della Cogefar - al tempo della presidenza di Franco Nobili e quando
era di proprietà di Acqua Marcia (Gruppo Romagnoli) - movimentazioni
che hanno lasciato intravedere un giro di tangenti e di fondi neri.
Nobili trascorse settantasette giorni in prigione; rinviato a giudizio
fu assolto otto anni dopo. Successivamente è finito sotto inchiesta a
Milano, Salerno e Roma per vicende relative agli appalti dell’ENEL.
I processi, tuttavia, hanno dato ragione al vice di Zamberletti: a
Milano, dopo la condanna in primo grado assoluzione in appello;
assoluzione a Salerno e infine prescrizione nel procedimento aperto
dai giudici della capitale (160). Tra i vicepresidenti dell’IGI, compare anche Giancarlo Elia
Valori, neopresidente dell’Unione Industriali di Roma e presidente
dell’A.S.E.C.A.P. – Association Européenne des Concessionnaires d’Autorouts
et d’Ouvrages à Péage (l’associazione europea dei concessionari
delle autostrade a pagamento). Sino allo scorso mese di maggio,
Giancarlo Elia Valori ha ricoperto l’incarico di presidente della
Autostrade S.p.A. la società a capo della più grande rete
autostradale del mondo, con i suoi 3.000 chilometri d’asfalto, 3.200
miliardi di fatturato, 426 di utili. Al suo posto è stato nominato,
su designazione dell’Edizione Holding del gruppo Benetton, maggiore
azionista di Autostrade, il manager Gian Maria Gros-Pietro, presidente
uscente dell’ENI, il quale dovrebbe subentrare a Valori anche alla
vicepresidenza dell’Istituto Grandi Infrastrutture (161). Gli anni trascorsi da Valori alla guida di Autostrade sono stati
decisivi per l’espansione nel mercato della concessionaria; in
particolare il manager è stato tra gli ideatori del consorzio
telefonico Blu, di cui è stato nominato presidente, per la creazione
del quarto gestore Gsm, e che ha visto scendere in campo oltre ad
Autostrade, Benetton, il costruttore-editore Caltagirone, Mediaset e
la British Telecom. Originario della Calabria, Giancarlo Elia Valori
non poteva non restare insensibile al mito del Ponte sullo Stretto, e
sin dalla sua nomina a presidente di Autostrade è intervenuto
pubblicamente a favore della realizzazione dell’opera, promettendo l’ingresso
finanziario nella Stretto di Messina del colosso di cui era alla
guida. Come Franco Nobili, anche Valori è giunto alla presidenza di
Autostrade S.p.A. dopo aver ricoperto incarichi di prestigio nelle
maggiori società pubbliche e private d’Italia: entrato alla Rai nel
1965 come consulente, ne divenne presto funzionario; negli anni ‘70
fu vicedirettore generale di Italstrade e consulente del Gruppo Fiat;
negli anni ‘80 passò alla vicepresidenza della Sme, la finanziaria
agroalimentare dell’IRI presieduta al tempo da Romano Prodi. Dopo
una breve parentesi alla presidenza della Sirti, società della Stet,
nel 1987 Valori fece ritorno alla Sme, come presidente della GS
Supermercati (162). Tre anni più tardi, il nuovo presidente dell’IRI,
quel Franco Nobili con cui poi avrebbe condiviso la vicepresidenza
dell’IGI, lo nominò nuovamente alla guida della Sme. Infine, nel
1995, durante il governo di transizione di Lamberto Dini, Giancarlo
Elia Valori diventò il “Signore delle Autostrade” (163). Nel corso della sua carriera come top manager nelle grandi società
a maggioranza pubblica, Valori si è distinto nella politica delle
privatizzazioni e delle dismissioni delle aziende controllate. Da
presidente della Sme, ad esempio, ha ceduto le prestigiose marche
alimentari Cirio-Bertolli-De Rica ad una società nelle mani di uno
sconosciuto finanziere, Saverio Lamiranda, che presto le ha rivendute
con insperati guadagni al presidente della Lazio Sergio Cragnotti e
alla multinazionale Unilever. Prima di passare alle autostrade, Valori
ha avuto il tempo di disfarsi della nota catena di distribuzione
alimentare e di ristorazione autostradale Autogrill, trasferita alla
famiglia Benetton, che l’ex manager Sme ritroverà nei consigli d’amministrazione
dell’Autostrade S.p.A. e del consorzio telefonico Blu. Alla guida
della concessionaria Valori convincerà il governo a ridurre la
propria presenza societaria e a cedere parte del pacchetto azionario
ad una cordata d’imprenditori capeggiata dai Benetton e da Franco
Caltagirone, l’editore de Il Messaggero a capo della Vianini
costruzioni, socia IGI. Anche Caltagirone, come Benetton, entrerà poi
nel consorzio Blu presieduto da Valori (164). Meno conosciuti sono i rapporti intessuti a livello internazionale
dal potente manager, dalla Cina alla Corea del Nord, dal Medio Oriente
alla Libia, dalla Romania di Ceasescu all’Argentina di Juan Domingo
Peron. Di quest’ultimo, Giancarlo Elia Valori è stato amico e
profondo estimatore, al punto di accompagnarlo personalmente in
Argentina nel 1973 dopo il lungo esilio in Spagna. Valori non fu l’unico
italiano a bordo dell’aereo di Peron. Con lui viaggiò anche il gran
maestro Licio Gelli alla cui loggia lo stesso Valori, già massone
della ‘Romagnosi’ del Grande Oriente d’Italia, si era affiliato
nel 1973. “Licio Gelli – scrive il giornalista Gianni Barbacetto -
lo contatta perché sa dei suoi ottimi rapporti con l’Argentina, lo
iscrive al Centro Culturale Europeo e lo coinvolge in una società di
import-export chiamata Ase. Che cosa importi e che cosa esporti -
carne, armi, informazioni - non è dato sapere. Valori comunque
sostiene di esserne uscito subito, lasciando Gelli al suo destino”
(165). In realtà, i rapporti tra i due si incrinarono nel momento in
cui Gelli egemonizzò la relazione con il neopresidente Peron e con il
suo braccio destro, il piduista José Lopez Rega. Lo scontro
Gelli-Valori si sarebbe concluso con l’espulsione di quest’ultimo
dalla P2. Nonostante l’uscita di scena dall’entourage dei fratelli della
superloggia, Giancarlo Elia Valori si è mantenuto in stretto contatto
con gli ambienti dei servizi segreti italiani, in particolare con il
generale Giuseppe Santovito, con il faccendiere Francesco Pazienza e
con il giornalista di Op Mino Pecorelli, successivamente assassinato.
Per questi legami certamente non ordinari tra i manager e gli
imprenditori italiani, Valori fu ripetutamente chiamato a deporre
nelle indagini chiave dei primi anni ‘80, quelle della Procura di
Roma sulla P2, del giudice Carlo Palermo sui traffici d’armi, di
Rosario Priore sui suoi rapporti con i Paesi arabi, nel contesto dell’inchiesta
sulla strage di Ustica. A differenza poi dei colleghi a capo dei
maggiori imperi finanziari e imprenditoriali, l’ex presidente di
Autostrade S.p.A. è uscito del tutto indenne dal filone d’indagine
di Mani Pulite. “L’unica ombra di Tangentopoli che lo ha sfiorato
è un versamento di 150 milioni nel giugno 1991; ne parla, al
sostituto procuratore di Milano Francesco Greco, Giuseppe Garofano,
allora presidente della Montedison: ‘Si è trattato di un versamento
da me effettuato a favore di Valori Giancarlo Elia, attuale presidente
della Sme, che all’epoca aveva prestato consulenze professionali
alla Montedison. Il Valori mi chiese di erogare la somma in nero e per
contanti, per motivi fiscali’” (166). Trattandosi di un pur
discutibile incarico di consulenza da parte di una società privata,
il fatto non poteva essere punibile processualmente. I magistrati poi,
non trovarono riscontri alle dichiarazioni dell’ex presidente della
Montedison. Pur conclusasi per oggettivi limiti d’età la carriera
manageriale in Autostrade di Giancarlo Elia Valori, esiste ancora chi
lo ritenga un personaggio potente da adulare e rispettare. Così gli
industriali di Roma e della regione Lazio lo hanno voluto alla
presidenza della propria associazione, mentre a fine aprile,
l'assemblea degli azionisti di Italintesa S.p.A., riunitisi a Reggio
Emilia, gli ha conferito la presidenza onoraria della società. Nel
corso dei lavori è stato altresì deliberato un sostanziale aumento
del capitale sociale e l’ingresso tra gli azionisti del politologo
americano Edward Luttwak, già consulente di Italintesa ed assiduo
editorialista nelle testate del Gruppo Monti e della siciliana
Gazzetta del Sud. Come Valori, Luttwak vanta un passato contiguo ai
poteri atlantici più o meno occulti. E’ stato tra i fondatori e gli
animatori del Csis – Center of Strategic and International Studies
di Washington, il centro di studi strategici legato alla CIA e al
Pentagono americano, noto per aver elaborato l’interventismo Usa a
fianco dei regimi fascisti-militari in America latina ed in Europa.
Casualità vuole che il Csis abbia avuto in Italia come partner la
Fondazione Bonino-Pulejo del presidente onorario della Stretto di
Messina, Nino Calarco, nell’organizzazione a Taormina, anno 1993, di
una convention internazionale sugli “Effetti delle migrazioni nei
paesi industrializzati” (167). La lobby delle tangenti e dei Servizi In rappresentanza di un altro istituto di credito, la Banca
Popolare dell’Emilia, nel direttivo dell'IGI, c’è un altro
personaggio di cui è nota la forte simpatia con il partito-azienda
del Presidente del consiglio. Si tratta di Claudio Calza,
contestualmente consigliere d’amministrazione del Banco di Sardegna
e dell’azienda farmaceutica Pierrel, amico come Zamberletti dell'ex
presidente della Repubblica Francesco Cossiga (168). Calza ha fatto
molto parlare di sé in questi mesi a proposito dell'inchiesta sulla
tangentopoli che ha colpito i vertici politici della Basilicata, primi
fra tutti i parlamentari Angelo Sanza (Forza Italia) e Antonio Luongo
(DS). Il presidente della banca emiliana, infatti, è stato arrestato
con l’accusa di concorso in corruzione per le presunte mazzette che
sarebbero state versate dal gruppo imprenditoriale De Sio per
aggiudicarsi l’appalto per una nuova sede dell’INAIL. Il Calza
avrebbe intrattenuto stabili contatti con i De Sio: il suo ufficio
sarebbe stato aperto nello stesso appartamento di Roma dove c’è l’ufficio
dell’ingegner Antonio De Sio, mentre in passato Claudio Calza ha
ricoperto il ruolo di presidente della Banca Popolare del Sinni, della
quale i De Sio risultano azionisti (169). Particolarmente inquietanti le trascrizioni di alcune telefonate
intercettate al consigliere dell’IGI. Claudio Calza era in costante
contatto con il dirigente del Sisde, generale Stefano Orlando, in
servizio al Quirinale quando era presidente Francesco Cossiga. Il
militare è stato accusato dai magistrati di Potenza di rivelazione di
segreti d’ufficio e favoreggiamento nei confronti proprio di Calza,
per conto del quale avrebbe fatto alcuni accertamenti avvalendosi dei
mezzi a disposizione del Sisde. Orlando avrebbe avviato un rapporto
con Calza, “forse nella prospettiva di reclutarlo nei servizi
segreti, di farne una fonte dalla quale ricevere notizie di prima mano
su operazioni economiche e finanziarie per miliardi di lire” (170).
Qualcosa del genere è stato ipotizzato per spiegare le relazioni tra
il collega-socio nell’Istituto Grandi Infrastrutture, Giancarlo Elia
Valori, e l’allora direttore del Sismi Giuseppe Santovito.
Considerate poi le ambigue ‘rivelazioni’ del presidente
Zamberletti sulle stragi di Ustica e di Bologna resta l’impressione
che nell’esclusivo club delle Grandi Opere, le entrature nei o dei
Servizi, siano proprio tante. I miracolati di Mani Pulite Sono socie illustri le aziende, società e banche che partecipano
al ‘consorzio’ per le grandi infrastrutture. Della maggioranza
delle aderenti, le cronache giudiziarie di Mani Pulite ne hanno
tracciato intime radiografie, ricostruendo metodologie tangentizie
sperimentate con successo da Nord a Sud. Su alcune – Grassetto,
Impregilo-ex Cogefar - ci siamo soffermati in precedenza per le
maxinchieste della Procura di Milano sui lavori alla metropolitana e
al passante ferroviario di cui la Rocksoil del ministro Pietro Lunardi
ha eseguito consulenze per svariati miliardi. Possiamo solo aggiungere
che il titolare della Grassetto, il costruttore siciliano Salvatore
Ligresti, noto per la sua amicizia con Bettino Craxi, oltre ad essere
stato attenzionato per l’affare della Metropolitana di Milano, è
stato implicato nello scandalo della vendita di alcuni palazzi ad enti
pubblici da parte della sua Premafin, e in quello dell’accordo
Eni-Sai, secondo cui furono affidati alla società del costruttore,
tutti i contratti assicurativi dei dipendenti dell’ente petrolifero,
grazie al pagamento di una tangente di diciassette miliardi di lire. Per ciò che riguarda la grande società di costruzioni del gruppo
Fiat è interessante notare come tra le socie nell’IGI, compaiano
due delle maggiori banche che ne sono azioniste, la Banca di Roma e la
Cariplo, quest’ultima entrata in Banca Intesa, il più accreditato
istituto finanziario del Ponte di Messina. Nell’Istituto Grandi
Infrastrutture c’è poi un’altra grande azionista dell’Impregilo,
la Girola Partecipazioni. Cariplo e Girola hanno condiviso con l’Impregilo,
ex-Cogefar, alcuni guai giudiziari: l’allora presidente della cassa
di risparmio lombarda, Roberto Mazzotta, è stato arrestato e
processato per una storia di tangenti a DC e PSI. Dopo una condanna in
primo grado, Mazzotta è stato graziato in appello grazie alla
modifica dell’art. 513 del codice di procedura penale che impedisce
l’utilizzo delle accuse in fase istruttoria se non ripetute in aula.
La Girola, invece, è stata una delle innumerevoli società implicate
nello scandalo delle ‘Fiamme sporche’, le mazzette girate ad
ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza, una ventina dei
quali affiliati alla massoneria, per ottenere un occhio di riguardo su
bilanci truccati e fatturazioni di comodo (171). Sempre nell’IGI,
compare un’altra società di riferimento del Gruppo Agnelli, la Fiat
Engineering, finita nelle cronache giudiziarie per aver tentato una
poco ortodossa sollecitazione su un europarlamentare del PDS per
ottenere un parere favorevole per l’appalto al nuovo stadio di
Venezia, tentando “di riciclare il progetto bocciato per il ‘Delle
Alpi’ di Torino” (172). Nel sistema spartitorio degli appalti alla metropolitana di Milano,
oltre alle società già menzionate, hanno partecipato alcune delle
maggiori cooperative ‘rosse’. Due di esse, la Coopsette di Reggio
Emilia e la Cmc di Ravenna, sono tra i soci-consiglieri dell’Istituto
Grandi Infrastrutture dell’on. Zamberletti. Grazie all’ingresso
nell’affare metro, le cooperative di costruzioni “vengono trattate
come tutte le altre aziende: vengono cioè inserite nelle
aggiudicazioni preconfezionate degli appalti, in cambio del pagamento
ai partiti di una quota percentuale sul valore della commessa”
(173). La Coopsette è inoltre tra le aziende che hanno realizzato il
centro commerciale Le Gru di Gugliasco, alle porte di Torino, di
proprietà dell’Euromercato-Standa (Gruppo Berlusconi-Fininvest).
Per ottenere le autorizzazioni a realizzare il centro commerciale, i
proprietari sono sospettati di aver distribuito tangenti ad assessori
e consiglieri comunali del capoluogo piemontese. La Cooperativa Costruttori e Cementisti di Ravenna (CMC), da parte
sua, in consorzio con le società Torno, Guffanti e Collini ha
ottenuto l’appalto per le forniture del lotto 6 della metropolitana
di Milano, che secondo i giudici, avrebbe visto l’esborso di
cospicue tangenti a favore degli amministratori meneghini. Altre
tangenti sarebbero state versate da Torno, Guffanti e Collini per un
altro lotto, il 2/a, della metropolitana. Nello specifico la Torno di
Milano, società che è socia della CMC nell’Istituto Grandi
Infrastrutture, avrebbe versato per i lavori alla metro di Milano, fra
i 300 e i 400 milioni l’anno, per lo meno dal 1987 al 1991 (174). La cooperativa ravennate invece, è un gruppo che si è
caratterizzato per un certo attivismo nel ‘difficile’ mercato
delle costruzioni in Sicilia. In particolare, sbaragliando l’Impregilo
dell’allora presidente Franco Carraro, la CMC ha ottenuto un appalto
di oltre ottanta miliardi per l’ampliamento della base militare di
Sigonella. Per lunghi anni quest’infrastruttura strategica delle
forze armate statunitensi è stata in mano a consorzi e società delle
cosche mafiose locali, che ne hanno gestito lavori infrastrutturali,
trasporti, pulizie. Nel corso delle indagini è stato scoperto che un’azienda
della famiglia Ercolano, la Sud Trasporti, si è incaricata della
movimentazione per conto della CMC di Ravenna. La stessa cooperativa
ha affidato alla Trasporiental dei fratelli Francesco e Antonio Pesce,
i lavori di pulizia di alcuni appartamenti realizzati a Sigonella.
Anche la Trasporiental è tra le società controllate dai gruppi
catanesi di Cosa Nostra. Gli inquirenti hanno accertato che tra i
dipendenti della cooperativa hanno fatto parte due elementi di spicco
del clan Santapaola, entrambi condannati nel 1996 per associazione
mafiosa, Natale Di Raimondo e Carmelo Santocono. Alla mensa delle Ferrovie Nel consorzio Cociv che cura i lavori per la tratta dell’Alta
Velocità Milano-Genova, c’è poi un’altra associata IGI, la
Tecnimont, società d’engineering della Montedison. Con la Tecnimont
si sono consorziate due grandi società di costruzioni, una
appartenente al gruppo Grassetto-Ligresti, l’altra al gruppo
Itinera-Gavio. Anche sulla megacommessa della Milano-Genova incombono
le ombre della magistratura, interessata in particolare ad una serie
di studi di natura idrogeologica in buona parte “inutili”, ma
soprattutto ipercostosi (si parla di una spesa di oltre cento miliardi
di lire). Contro la Tecnimont, la procura di Milano sta poi procedendo
per falso in bilancio a seguito della scoperta di “consulenze
fantasma” eseguite per suo conto da un’azienda irlandese
presumibilmente nell’orbita di Pierfrancesco Pacini Battaglia. La
fatturazione sarebbe servita a creare fondi neri per possibili
tangenti (176). L’Itinera del costruttore Marcellino Gavio, a sua
volta, è finita sotto inchiesta per un giro di mazzette versate ai
massimi dirigenti del PSI per ottenere i lavori per la realizzazione
della Milano-Serravalle, autostrada gestita da una società per azioni
entrata anch’essa nella potente schiera dell’Istituto Grandi
Infrastrutture. Sempre per restare in tema di corruzioni vere o presunte realizzate
dai componenti IGI, un capitolo a parte meritano i fratelli
imprenditori-editori Leonardo e Francesco Gaetano Caltagirone,
titolari della Vianini Lavori. Entrambi sono stati rinviati a giudizio
nell’estate del 2001 per corruzione in atti giudiziari, per una
tangente versata in concorso con il commercialista Sergio Melpignano,
ai giudici romani Orazio Savia ed Antonino Vinci (quest’ultimo
recentemente scomparso), che indagavano sul cosiddetto scandalo dei
‘palazzi d’oro’ che vedeva coinvolti, tra gli altri, i due
fratelli costruttori. In passato un’altra indagine aveva interessato
i fratelli Caltagirone per un presunto versamento di un contributo per
un miliardo e 600 milioni a favore del cassiere della DC Severino
Citaristi per ottenere una variante al piano regolatore sull’area
milanese del Portello. Nel 1994 i Caltagirone furono anche sottoposti
a misura cautelare, ma quattro anni più tardi, l’inchiesta fu
archiviata dal PM Antonino Vinci. Oltre metro, treni ed autostrade, i tentacoli dei grandi
costruttori non potevano non estendersi ai grandi appalti di ‘Malpensa
2000’, la realizzazione del nuovo e inquinante aeroporto di Milano,
su cui sono piovute le immancabili indagini giudiziarie. A gestire i
due aeroscali del capoluogo (Linate e Malpensa), la Sea, azienda a
capitale pubblico-privato, affiliata al gruppo IGI. Il suo
vicepresidente, il democristiano Roberto Mongini, fu arrestato nel
1992 perché considerato uno dei ‘cassieri’ dell’intero sistema
tangenti di Milano. Per il giro di mazzette alla Sea, a conclusione
delle indagini, quarantaquattro persone tra politici, amministratori e
dirigenti dell’azienda, sono state rinviate a giudizio. Per ottenere
alcuni appalti nel nuovo aeroscalo di Malpensa, il costruttore Paolo
Pizzarotti, a capo dell’omonima società che ha una delle
vicepresidenze IGI, avrebbe consegnato a Bettino Craxi una tangente di
500 milioni in tre tranche. Secondo il costruttore parmense, per i
lavori di ‘Malpensa 2000’, esisteva un preciso procedimento
spartitorio: una società provvedeva alla DC, un’altra al PSI e un’altra
ancora al PCI. Nonostante i soldi a Craxi, Pizzarotti era il referente
per lo scudocrociato. “Personalmente ho provveduto a versare il
denaro alla DC nelle mani del senatore Severino Citaristi per un
importo complessivo di circa un miliardo, un miliardo e 300 milioni”,
ha dichiarato Pizzarotti. Il costruttore fu costretto a diversificare
ulteriormente la contribuzione, provvedendo, pare, ad ungere qualche
funzionario del PCI-PDS di Milano (177). Sempre in tema di contribuzione illecita ai partiti, il primo
grande ‘pentito’ di tangentopoli, il socialista Mario Chiesa, ha
raccontato ai giudici che tra le società di costruzioni da cui
avrebbe ricevuto grosse tangenti, compariva l’ennesima socia IGI, la
Sic di Ugo Fossati. In società con la Ifg-Tettamanti, una delle tante
società per cui ha lavorato come consulente il ministro Lunardi, la
Sic ottenne un appalto da sessanta miliardi, ampliabile fino a
centoventi, per le costruzioni di alcuni padiglioni del Pio Albergo
Trivulzio. “In cambio Sic e Tettamanti avevano versato a Mario
Chiesa 100 milioni al mese, fino a raggiungere i sei miliardi di lire
pattuiti” (178). Ad essere incorsa in un procedimento penale è un’altra delle
grandi cooperative ‘rosse’ che quasi a sottolineare la
trasversalità del mondo della politica e degli affari italiani,
siedono al tavolo dell’Istituto Grandi Infrastrutture. Si tratta
dell’Iter di Ravenna, il cui direttore Michele Cavallini è stato
arrestato a Catania nell’ambito dell’inchiesta per i lavori di
costruzione del nuovo ospedale ‘Garibaldi’. Sotto osservazione dei
magistrati etnei, oltre alla cooperativa emiliana, Filippo Salamone, l’imprenditore
agrigentino divenuto punto di riferimento del ‘tavolino’, il nuovo
patto tra politici, imprenditori e Cosa Nostra, e Giulio Romagnoli,
della famiglia un tempo proprietaria del gruppo finanziario Acqua
Marcia (179). Romagnoli, presidente della Costruzioni generali Cgp
S.r.l., società che ha partecipato ai lavori del ‘Garibaldi’ con
Iter, Collini S.p.A. ed Impresem è stato accusato di concorso esterno
in associazione mafiosa, poiché ritenuto in collegamento con il boss
Giuseppe Intelisano, del clan di Nitto Santapaola. E’ da notare che
negli anni ’70 la famiglia Romagnoli, insieme ai costruttori
siciliani Cassina, Costanzo e Rendo, aveva partecipato alla
realizzazione dell’autostrada Palermo-Punta Raisi. Nell’occasione,
i materiali di costruzione furono forniti dalle cave di Cinisi,
Terrasini e Partinico gestite dai clan diretti da Tano Badalamenti
(180). Romagnoli S.p.A., con Tettamanti, Cogefar-Impregilo, Gruppo
Ferruzzi, Lodigiani, Pizzarotti, Grassetto, Consorzio Intermetro e
Metropolitana di Milano, hanno una cosa in comune oltre alle tangenti:
l’essersi fregiate delle consulenze del ministro Pietro Lunardi, il
nuovo Re Mida delle Grandi Opere e del Ponte, l’ingegnere della
deregulation in tema di appalti e concessioni I.G.I. Consiglio direttivo Presidente Giuseppe Zamberletti Vice Presidente Vicario cav. lav. dr. Franco Nobili imp. Pizzarotti Vice Presidenti : prof. Giancarlo Elia Valori Soc. Autostrade dr. Giuseppe Mustica Fiatengineering geom. Vittorio Morigi C.m.c. dr. Maurizio Pagani Intesa BCI S.p.A. consiglieri: dr. ing. Gianni Battolla Iter dr. ing. Paolo Bruno Condotte S.p.A. dr. Paolo Cetroni Astaldi dr. Giorgio Cimagalli SIC geom. Donato Fontanesi Coopsette dr. Giuseppe Gatto Impregilo dr. Franco Lattanzi Banca di Roma dr. ing. Valter Montevecchi Vianini S.p.A. dr. Guelfo Tagliavini Alcatel dr. ing. Massimiliano Di Torrice Oice dr. Mario Lupo Agi dr.Claudio Calza Banca Pop. Emilia Romagna Tesoriere dr. Francesco S. Salini Salini S.p.A. Collegio dei Revisori Presidente dr. Paolo Resta Componenti: dr. Adolfo Leonardi rag. Maurizio Silvi I SOCI Alcatel – Business Distribution; Alstom Power Italia; Assiteca; Astaldi; Autostrade S.p.A.; Autostrade Serravalle; Baldassini-Tognozzi; Banca di Roma; Banca Popolare dell’Emilia Romagna; Banca Popolare di Milano; Gruppo Banca Popolare di Vicenza; C.M.C. – Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna; Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A.; Coopsette; De Lieto Costruzioni Generali; A & I Della Morte S.p.A.; Ferrovie Emilia Romagna; Fiat Engineering; Fioroni Sistema; Sviluppo Sistema Fiera di Milano; Girola; Grandi Lavori Fincosit; Impresa Grassetto; Impregilo; Intesa BCI; Iter – Cooperativa Ravennate; Lombardini Ruscalla Costruzioni; Pizzarotti & C.; Pontello S.p.A.; Safab Società Appalti e Forniture per Acquedotti e Bonifiche; Salini Costruttori; System Service; S.A.T.A.P. S.p.A.; S.E.A.; S.I.C. – Società Italiana Cauzioni; Taverna S.p.A.; Tecnimont; Tenax; Todini Costruzioni Generali; Torno; Trevi-Finanziaria Industriale; Unicalce; Unieco; Vianini Lavori. L’Istituto del Ponte Ha le idee chiare in materia l’on. Zamberletti. Trasformare la
società di progettazione in entità privata, fuori da ogni controllo
pubblico e farle assumere la responsabilità dell’intero ciclo dell’opera,
dal reperimento delle risorse finanziarie, alla gestione del bando di
gara, all’assegnazione degli appalti, fino alla realizzazione delle
infrastrutture e magari alla futura gestione delle attività d’attraversamento
del Ponte. Quando il governo avrà definito il destino della società
concessionaria e la quota di contributo pubblico da allocare, spiega
Zamberletti, la Stretto di Messina potrà operare ”per parti e/o per
fasi, ad esempio come soggetto promotore e/o poi appaltatore e/o poi
affidatario dei lavori e/o poi gestore a regime, etc”. Al futuro della società del Ponte, l’Istituto Grandi
Infrastrutture ha riservato studi, analisi e commissioni di lavoro.
Nei fatti si è sostituito al parlamento e all’esecutivo, i quali,
pur rilanciando mediaticamente il sogno-mito di un’infrastruttura di
collegamento tra le coste di Scilla e Cariddi, mai hanno affrontato
con serietà una questione di per sé strategica. Nel 2001, l’IGI
delle grandi società di costruzione e del cuore bancario d’Italia,
ha istituito una speciale commissione di lavori “Ponte sullo Stretto”,
affidandone il coordinamento al dottor Baldo de Rossi, già
amministratore delegato della Stretto di Messina, quota Italstat,
accanto a Nino Calarco presidente e Gianfranco Gilardini vice (182). I
risultati della commissione di studio sono stati resi pubblici assai
di recente e il testo finale del documento è consultabile su
internet. Ne riportiamo i passi più significativi. L’IGI, ha valutato la fattibilità finanziaria dell’opera e la
situazione giuridica dell’attuale società Stretto di Messina, di
cui innanzi tutto se ne chiede la ricapitalizzazione e
privatizzazione, anche se ad oggi nessuna grossa azienda
internazionale si è fatta avanti per partecipare all’ipotesi
progettuale del Ponte (183). Per rendere appetibile l’investimento e
l’ingresso dei soggetti di natura privata, secondo l’IGI, sarà
però prima necessaria “l’emanazione della norma speciale che
consenta alla neo società di assumere le responsabilità dell’intero
ciclo operativo e delle attività tecnico-finanziarie”. La
commissione ‘Ponte sullo Stretto’ prefigura due ipotesi: la prima
prevede l’abrogazione della legge 1158 del 1971 che istituisce la
società pubblica per la progettazione e la costruzione dell’infrastruttura
per l’attraversamento dello Stretto, “attraverso un provvedimento
legislativo e la conseguente eliminazione dell’atto di concessione”,
per poi mettere in gara la concessione stessa, previa acquisizione del
progetto di massima predisposto. La seconda ipotesi prevede l’ingresso
di un socio privato nella Stretto di Messina, affidando il pacchetto
di controllo dell’IRI al concorrente miglior offerente. Quest’ultima possibilità è stata però scartata dall’Istituto
per le Grandi Opere poiché “in conflitto con le attuali norme
europee”, soprattutto dopo che la Commissione dell’Unione ha
diffidato il governo italiano di continuare a considerare la Stretto
di Messina concessionaria della realizzazione della megainfrastruttura
(184). “Resta dunque sul campo, se si vuole evitare una lunga e
logorante controversia con la commissione UE, solo l’ipotesi di
porre fine all’attività della società Ponte sullo Stretto, come
concessionaria e di mandare in gara per la scelta di un concessionario
di costruzione e gestione il progetto di massima approvato con
prescrizioni dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e che attende
l’approvazione formale del Governo”. Il documento elaborato dall’Istituto Grandi Infrastrutture passa
poi ad elencare una serie d’ipotesi per accelerare la
cantierizzazione e l’esecuzione dell’opera. Per il club dei
signori del cemento è necessaria la “modifica delle norme ordinarie
in tema di opere pubbliche” onde assicurare la “eccezionalità
delle molteplici attività di acquisizione dei fondi, di gestione
amministrativa, d’affidamento delle commesse, di scelta fiduciaria
dei fornitori, di provvista dei materiali, di reperimento della
manodopera e di tutto ciò che rende unica la realizzazione dell’opera”.
Alla nuova Stretto di Messina in mano ai privati, cioè, devono essere
affidati pieni poteri, “poteri eccezionali”, quasi come ci si
trovasse di fronte ad una grande emergenza (un terremoto? una guerra?
una catastrofe naturale?). Per l’idea del ‘Ponte chiavi in mano’
sono così necessarie l’adozione di “semplificazioni procedurali
che contraddistinguono le autorizzazioni o le contrattazioni previste
per i grandi investimenti privati industriali”, ulteriori contributi
pubblici “che oltre all’apporto in conto capitale”, prevedano
“appropriate forme di esenzione/riduzione di IVA, di rimodulazione
del costo del lavoro, di tassazione differenziata per comparti e fasi
di realizzazione, di copertura programmata dell’eventuale
differenziazione costi/ricavi di gestione” (185). Come dire che l’Opera
che doveva prevedere la finanziazione privata, di privato avrà solo
la gestione delle risorse e dei profitti, scaricando costi e rischi
all’erario pubblico e per di più bypassando le norme in tema di
contratti di lavoro e sicurezza nei cantieri (186). Come se ciò non bastasse, l’Istituto Grandi Infrastrutture
ritiene che alla riformulata Società Stretto di Messina, dovrebbero
essere infine consentite “potestà amministrative pari a quelle di
una autonoma ‘autorità di territorio’, perlomeno responsabile di
tutte le attività antecedenti la realizzazione fisica dell’opera,
ivi compreso il riassetto ambientale ed urbanistico della zona”
(187). Una mostruosità giuridica che avrebbe come conseguenza l’extraterritorialità
di diritto e di fatto dello Stretto, esautorando i poteri degli enti
locali in tema di ordinamento territoriale, pianificazione e
regolazione urbanistica, ecc. Un ulteriore regalo ai poteri criminali
e alla borghesia mafiosa che già regna sovrana tra Scilla e Cariddi.
“Le cosche mafiose – scrive Rocco Sciarrone - hanno storicamente
dimostrato una grande capacità di adattamento, riuscendo a sfruttare
a proprio vantaggio occasioni economiche che nascono e si sviluppano
in un clima di emergenza, che poi esse stesse hanno cura di alimentare
nel tempo”. Proprio per non creare opportunità favorevoli alla
mafia, il rapporto di Nomos sul ‘rischio criminalità’ diffidava
che i “caratteri di straordinarietà che indubbiamente presenta l’opera”
fossero tradotti in emergenzialità, “ovvero in attori che
giustifichino procedure d’urgenza o eccezionali, oppure corsie
preferenziali o speciali, che di fatto possono finire per aggirare le
normative e gli standard previsti e richiesti” (188). La divergenza
con lo Zamberletti pensiero è proprio insormontabile. L’ordine è esautorare la legge ed eliminare i controlli Più specificatamente, l’Istituto Grandi Infrastrutture punta
alla sostanziale modifica delle previsioni della legge Merloni
relative alla percentuale del contributo pubblico all’investimento
nell’opera (attualmente le norme pongono il limite della
partecipazione statale al 50%) e alla durata della concessione, in
modo da estenderla oltre l’attuale limite massimo dei 30 anni.
Entità dell’investimento pubblico e durata della concessione sono i
“punti critici” emersi durante gli incontri tra i maggiori
istituti bancari e il ministero delle infrastrutture, relativi alla
fattibilità finanziaria del Ponte sullo Stretto. "Se non vengono
eliminati i vincoli giuridico-amministrativi della Merloni, il
progetto non sta in piedi” è il commento unanime dei banchieri. “Se
la concessione non può andare oltre i 30 anni, sarà difficile anche
recuperare il servizio del debito perché stiamo parlando di un
progetto da oltre 9mila miliardi. (...) Considerando le stime di mole
di traffico sul ponte e una tariffa concorrenziale con quella dei
traghetti, l'operazione non è concepibile se poi lo Stato non
contribuisce con più del 50%". Per le banche, quindi, "è
indispensabile che la legge obiettivo, attualmente all'esame del
Parlamento, intervenga su questi due punti. Prima di allora, è
impossibile per gli istituti di credito valutare fondatamente la
finanziabilità del progetto: è difficile per una banca pronunciarsi
sul lato economico-finanziario quando non conosce nemmeno quanto può
essere il contributo dello Stato" (191). Il governo ha fatto proprie le considerazioni del Club per le
Grandi Opere, varando a fine dicembre 2001 una legge delega
finalizzata a porre le condizioni per la realizzazione di un programma
nazionale di diciannove infrastrutture definite strategiche, tra cui
ovviamente il Ponte, e che prevede investimenti quantificati in 235
mila miliardi di lire (192). Più concretamente, il cosiddetto decreto
Lunardi prevede una serie di interventi tesi “a rimuovere gli
ostacoli che hanno impedito una massiccia partecipazione dei privati
ai finanziamenti delle opere”. Al proposito viene individuato uno
strumento, il general contractor o contraente generale, già
sperimentato in occasione dei lavori per le tratte dell’Alta
Velocità interappenniniche, di cui sono noti gli effetti ambientali e
il fitto sistema corruttivo generato. La legge Merloni ne limitava il
ricorso solo alle opere la cui redditività era così elevata da
consentire un apporto di capitali privato superiore al 50% dell’onere.
Con la ‘legge obiettivo’ si estende l’intervento del general
contractor alle opere stretagiche di cui è lo Stato ad essere il
principale se non il solo finanziatore. Unico limite per il soggetto
aggiudicatore (il consorzio delle aziende private), il rispetto delle
normative europee in tema di evidenza pubblica e di scelta dei
fornitori di beni o servizi, “ma con un regime derogatorio rispetto
alla legge 109 del 1994 per tutti gli aspetti di essa non aventi
necessaria rilevanza comunitaria” (193). Come spiegato dallo stesso ministro Lunardi, attraverso le
competenze affidate al general contractor, il contraente viene
individuato come “esecutore con qualsiasi mezzo di un’opera
rispondente alle esigenze specificate dal soggetto aggiudicatore”.
Il contraente, cioè, “è un costruttore di opere che, per altro, a
differenza dell’appaltatore di lavori pubblici regolato dalle leggi
attuali, può realizzare l’opera ad esso affidata con qualsiasi
mezzo, cioè anche subaffidandola in tutto o in parte a terzi dallo
stesso prescelti e coordinati” (194). Lo Stato cioè, rinuncia
rinuncia ad ogni controllo sulla realizzazione dell’opera (dalla
progettazione, alla gestione degli appalti, alle varianti in corso d’opera,
ecc.), anche se i costi dell’infrastruttura graveranno interamente
sul bilancio pubblico. Enti locali e regioni saranno del tutto
esautorati; vengono ridotte le possibilità di ricorso al TAR e
limitati gli effetti della sospensiva in attesa di giudizio; si da
ampia possibilità ai contraenti di realizzare le grandi opere senza
la Valutazione di impatto ambientale, sostituendo la normativa con un
‘accertamento di compatibilità ambientale’, di cui sarebbe
responsabile il CIPE (195). L’affidamento alle aziende private del
rapporto diretto con il territorio, scavalcando il ruolo di
intermediazione dei soggetti pubblici locali, porrà ancorà di più
le opere a rischio d’infiltrazione mafiosa. Saranno possibili nuovi
e più stringenti accordi tra le cosche e i soggetti incaricati, e nel
caso, improbabile, in cui ci si vorrebbe opporre al dominio mafioso,
il privato possiede meno strumenti di reazione nei confronti della
violenza criminale” (196). “La legge Obiettivo – ha commentato l’economista Ada Becchi -
è l’ennesimo provvedimento, varato per ‘sregolare’ le procedure
per la realizzazione di opere pubbliche. Il riferimento, in questo
caso, è alla legislazione per la tutela dell’ambiente, ma più
ancora alla legislazione cosiddetta Merloni, approvata negli anni ‘90,
e motivata in larga parte dalla necessità di por fine agli sprechi ed
alla corruzione che avevano a lungo dominato il campo” (...). Il
recupero del passato, delle deroghe, del ricorso indiscriminato al
general contractor, ecc., è così drastico e sfrontato da lasciare
interdetti” (197). Dopo i colpi di spugna giudiziari al Malaffare di
tangentopoli, un dispositivo legislativo che sigilla il ritorno ai
circuiti imprenditoria-politica-mafia per il saccheggio delle risorse
e del territorio. Le alternative nel cassetto Il rilancio della centieristica in sostegno al potenziamento del
traghettamento pubblico nello Stretto e la realizzazione di
collegamenti veloci con l’aeroporto di Reggio Calabria e le isole
minori dell’arcipelago eoliano; l’attivazione di quei servizi
pubblici la cui inesistenza accentua il gap con le aree urbane del
Settentrione e ha drammatiche ricadute in tema di vivibilità; il
recupero del patrimonio storico e artistico danneggiato dal terremoto
del 1908 e dall’incuria di tutte le aministrazioni locali
post-ricostruzione; il risanamento dei quartieri periferici dove
imperano le baracche e sono inesistenti spazi verdi e luoghi di
socializzazione; la manutenzione delle abitazioni private e degli
edifici pubblici del centro storico le cui realizzazioni sono
fatiscenti e ad alto rischio di crollo; una politica di prevenzione
antisimica in un’area dove i sismologi attendono a breve un evento
di dimensioni simili a quello subito all’inizio del XX secolo; la
riqualificazione del territorio collinare devastato dall’abusivismo
edilizio e dalla cementificazione dei torrenti, già oggetto di
disastrosi nubifragi; la valorizzazione turistica del porto e la
realizzazione di parchi urbani per il recupero dell’antico sistema
fortilizio; la valorizzazione di alcune aree paesaggistiche
straordinarie, oggi in stato d’abbandono (la zona falcata, Capo
Peloro, i monti Peloritani); l’impegno sul fronte delle nuove
tecnologie ove può avere un ruolo propulsivo l’Università,
caratterizzatasi sino ad ora come soggetto distributore di reddito ed
appalti; l’investimento nell’agricoltura biologica e il rilancio
delle produzioni tipiche dell’area (agrumi, olio d’oliva,
vigneti); la valorizzazione dell’artigianato locale e il recupero
delle antiche produzioni artistiche; lo sfruttamento delle energie
rinnovabili (proprio lo Stretto ha un patrimonio energetico
incommensurabile – si pensi all’energia eolica e alle correnti
marine); il finanziamento diretto e la facilitazione di accesso al
credito per tutto il ‘terzo settore’ in vista dell’incentivazione
delle imprese sociali, dell’associazionismo e delle cooperative
giovanili (quest’ultime finalmente libere dalle relazioni
clientelari e di sperimentazione della flessibilità d’orario e di
salario che le hanno caratterizzate sino ad oggi). Ecco alcune delle
alternative possibili, reali, credibili, al modello obsoleto e
insostenibile del Ponte di Scilla e Cariddi. Rispondere ai criteri di un’economia autocentrata che valorizzi le risorse locali e dia risposte concrete ai bisogni della gente. Mettere innanzi tutto i valori della difesa del patrimonio esistente nell’area dello Stretto, contro speculazioni, saccheggi, rapine dei Signori del Ponte. Pensare, creare, sognare, organizzare, la Vita contro la cultura della Morte, il ritorno alla relazione ancestrale con il territorio e l’ambiente contro il dominio mafioso dell’acciacio e del cemento. 1 Nel febbraio del 2001, il Ministero dei Lavori Pubblici ha stimato un costo per il Ponte di Messina, pari, al netto dell’IVA, di circa 9.400 miliardi contro i 7.150 miliardi stimati nel 1997. Per quanto concerne gli interventi infrastrutturali di supporto (rete stradale, ferroviaria, ecc.) l'advisor ha stimato, una spesa ulteriore pari a 4.650 miliardi di lire. 2 In Gazzetta del Sud, 23 aprile 1998. 3 Per una più approfondita analisi sui collegamenti tra le cosche catanesi, i clan della provincia di Messina e il gruppo ‘ndranghetista di Africo si consulti www.terrelibere.it/africo). 4 “Denaro e potenziale di fuoco – si legge nelle due relazioni semestrali 2001 della Dia - sono i veri assi della manica della ‘ndrangheta che gode del silenzio politico e sociale per espandersi, fare proselitismo con le promesse di lavoro e infiltrare giorno dopo giorno il tessuto sociale sano della Calabria”. 5 In Il nuovo Soldo, 11 maggio 2002. 6 Si vedano in particolare le indagini ‘Olimpia 1, 2, 3 e 4’. 7 M. Portanova, “ll lamento del grande escluso”, in Il diario della settimana, 13-19 aprile 2001. 8 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia. Storie di uomini eccellenti e no”, Marco Tropea Editore, Milano, 2002, pag. 243. 9 In Gazzetta del Sud, 15 settembre 1999. 10 In Gazzetta del Sud, 17 dicembre 2000. 11 In Gazzetta del Sud, 5 dicembre 2000. 12 Gli advisor sono stati prescelti dal Ministero dei lavori pubblici per fornire gli elementi per la decisione definitiva sulla realizzazione dell'opera. La consulenza per l’approfondimento degli aspetti tecnici del progetto di massima del Ponte di Messina, è stata assegnata alla Parsons Transportation Group di Washington con la controllata Steinman di New York (l’importo della gara è stato di euro 857.318 + IVA). La definizione delle “problematiche territoriali, ambientali, sociali, economiche e finanziarie del progetto” è stata invece assegnata nel dicembre 1999 al Certet dell'Università Bocconi di Milano, alla Coopers & Lybrand, alla Pricewaterhouse Coopers, al Sic e al Sintra (importo di euro 2.143.296 + IVA). 13 G. Colussi, “Perchè i mafiosi amano tanto il ponte”, Carta, n.19, 16-22 maggio 2002, pag. 27. 14 A. Becchi, “Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in Italia”, Donzelli, Roma, 2000, p. 40. 15 R. Sciarrone, ‘E la mafia, starà a guardare? Il rischio criminalità’, in AA.VV., “Ponte sullo Stretto”, Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, Donzelli Editore, Roma, 2001, p.167-168. 16 Ibidem, p. 169. 17 Ibidem, p. 174-175. 18 Tribunale di Palmi, “Richiesta di rinvio a giudizio, di misure cautelari e di archiviazione nei confronti di Galluzzo V. R. + 81”, Palmi, 1993, p. 1687. 19 In Gazzetta del Sud, 15 settembre 1999. 20 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, Laterza editori, Roma, 1996, p. 223. Per intendere come i poteri criminali abbiano modificato i loro rapporti con le grandi imprese di costruzioni nazionali, si può pensare a quanto successo, ancora una volta a Gioia Tauro, con la società Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi-Gardini, entrata in consorzio con uomini legati al clan Piromalli per il riciclaggio delle ceneri della centrale. Come vedremo successivamente, la Calcestruzzi, oggi nell’orbita della famiglia Pesenti, è una delle tante imprese candidate alla realizzazione del Ponte dello Stretto. 21 R. Sciarrone, ‘E la mafia, starà a guardare?’, cit., p. 176-177. 22 G. Colussi, “Perché i mafiosi amano tanto il ponte”, p. 27. 23 R. Sciarrone, “E la mafia starà a guardare?”, cit., p. 177. 24 Ibidem, p. 178. 25 O. Pieroni, “Il mostro sullo Stretto”, Ora locale, n. 9, ottobre-novembre 1997. 26 Ibidem, p. 180. 27 Ibidem, p. 181. 28 In Gazzetta del Sud, 10 febbraio 2001. 29 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., p. 183. 30 In Gazzetta del Sud, 25 giugno 2002. 31 In Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002. 32 Procura di Reggio Calabria-DDA, “Operazione Olimpia. Condello Pasquale ed altri”, Reggio Calabria, 1994, p. 4884. 33 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, Cit., p. 143. 34 Tribunale di Reggio Calabria, “Ordinanza-Sentenza contro Albanese Mario + 190”, Reggio Calabria, 1998, p. 312. 35 In N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari. 1943-91. Editori Laterza, 1992, pagg. 369-70. 36 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., p. 169. 37 La convenzione fu firmata da Claudio Signorile, dall’allora presidente dell’ANAS Franco Nicolazzi, da Romano Prodi per l’IRI, dal presidente della Stretto di Messina on. Oscar Andò e dall’amministratore delegato Gianfranco Gilardini. Nonostante gli impegni assunti da Craxi e Signorile, la Gazzetta del Sud aprì uno scontro con il governo, accusato di “parlare con il cuore e non con la mente”. Anche l’allora presidente delle Ferrovie dello Stato, l’on. Lodovigo Ligato si dichiarò scettico sul rispetto dei tempi previsti (in Onda Verde, n. 9, gennaio-febbraio 1991, pp. 74-75). Ligato, ritenuto vicino alla famiglia De Stefano, verrà successivamente assassinato. Nino Calarco, direttore della Gazzetta, nel 1990 sarà nominato presidente della Stretto di Messina, mentre l’on. Sebastiano Vincelli, intimo amico di Ligato, entrerà nel consiglio d’amministrazione della società del Ponte, su designazione dell’IRI di Romano Prodi. 38 E’ opportuno menzionare che l’indagine ‘Olimpia 4’ ha fatto luce su un’altra inquietante vicenda criminale, l'omicidio del dipendente della società Tourist Ferry Boat, Vincenzo Santoro, avvenuto a Villa S. Giovanni il 14 giugno 1984 (in Gazzetta del Sud, 2 settembre 1998). Come vedremo in seguito, la Tourist è una delle società che ha il monopolio dell’attraversamento privato dello Stretto di Messina, un’attività dove è stata forte l’“attenzione” mafiosa e dove impera un’imprenditoria che guarda con sempre maggiore attenzione alla realizzazione del manufatto per il collegamento stabile. 39 Proprio in località Campo Piale, nel comune di Villa San Giovanni, è previsto l’ancoraggio del Ponte dello Stretto. 40 In Gazzetta del Sud, 19 marzo 2002. 41 In Il nuovo Soldo, 27 aprile 2002. 42 Per comprendere la complessità del sistema di relazioni tipico della cosiddetta ‘borghesia mafiosa’, si consulti U. Santino, “La borghesia mafiosa”, CSD, Palermo, 43 Si pensi innanzitutto alla forte presenza a Messina dell’obbedienza massonica della Camea strettamente inserita nel sistema mafioso-finanziario di Michele Sindona. Sindona, originario della provincia di Messina, aveva avviato nell’area importanti attività industriali ed era proprietario della Banca di Messina. 44 E’ da sottolineare come alcuni degli aderenti alla Gladio siciliana sono risultati affiliati alla loggia massonica ‘Giuseppe Minolfi‘ del Grande Oriente d’Italia, contestualmente a un vicequestore, un ufficiale di marina, un comandante dei carabinieri e a noti imprenditori e docenti universitari delle due città di Messina e Reggio Calabria. 45 Secondo il CENSIS, il 28,2% dei residenti risulterebbe disoccupato contro una media nazionale del 12,1% Tra le fasce giovanili, il tasso di disoccupazione raggiunge punte del 60%. 46 Nel solo territorio comunale sono state censite 255 imprese del settore finanziario ed assicurativo, un valore di 1.1 in rapporto alla popolazione (su 1.000 abitanti) contro lo 0,8 nazionale. Ad esse si aggiungono 68 sportelli bancari. 47 in Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002. 48 La Caronte S.p.A. è stata creata nel luglio 1998 dopo aver rilevato parte del patrimonio della Caronte Shipping S.p.A. La Caronte è entrata in pool con la Tourist Ferry Boat del gruppo siciliano Franza e attualmente controlla oltre l’80% della quota di mercato del traffico gommato nello Stretto di Messina. Presidente è stato nominato Elio M.. Dalle ceneri della Caronte Shipping è sorta anche la Amadeus S.p.A. a cui sono state attribuite tutte le attività economiche del gruppo M. diverse dal settore armatoriale. A presiedere l’Amadeus, il cavaliere del lavoro Amedeo M. senior. 49 In merito alla rivolta di Reggio, il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro ha ricostruito con dovizia di particolari i legami tra la ‘ndrangheta, l’eversione di destra e alcuni noti imprenditori calabresi. In relazione ad Amedeo M., il Lauro ha raccontato che l’armatore avrebbe fornito “i soldi per le azioni criminali per la ricerca delle armi e dell’esplosivo “. Ha aggiunto poi di aver ricevuto da Ciccio Silverini, accusato della strage al treno di Gioia Tauro del 22 luglio 1970, tre milioni di lire come pagamento dell’esplosivo utilizzato per l’attentato. “A dire di Ciccio Silverini, e non aveva motivo di dirmi una palla per un’altra, i soldi gli erano stati forniti da Amedeo M. e dal cavaliere Mauro nelle mani di Ciccio Franco” (Procura di Reggio-DDA, “Operazione Olimpia”, cit., p. 4830). 50 L’impero dei Franza è stato fondato dal commendatore Giuseppe Franza, recentemente scomparso, risultato affiliato al Centro Sociologico italiano, la superloggia massonica palermitana di Via Roma 391 in cui sono risultati iscritti alcuni tra i maggiori boss di Cosa Nostra (In la Città, 19 febbraio 1998). Attualmente le redini della famiglia Franza sono tenute dalla signora Olga Mondello, vedova dell’ingegnere Giuseppe, nominata da Carlo Azeglio Ciampi cavaliere del lavoro, e dai figli Vincenzo, Helga e Pietro. Tutti sono azionisti della società armatoriale. Tra i soci della Tourist Ferry Boat compare anche l’on. Francantonio Genovese, neoparlamentare della Margherita all’Assemblea Regionale Siciliana, figlio del senatore DC Luigi Genovese e nipote dell’ex ministro Nino Gullotti, azionista ‘ombra’ e padrino del successo economico della famiglia Franza. 51 Il collaboratore di giustizia Mario Marchese ha dichiarato in particolare che le dazioni di denaro a favore della società del gruppo M. sarebbero proseguite almeno sino ai primi anni ’90 a favore del clan ‘ndranghetista Imerti-Mondello (In Contro, 30 aprile 1998). 52 La Società Ponte d’Archimede ha comunque avviato la progettazione di infrastrutture similari da realizzare in Norvegia, tra le città di Sandnes e Oanes, nello Stretto di Jintang (Cina), a sud di Shangaj, e nel lago di Como, per congiungere Menaggio a Bellano. I progetti prevedono il finanziamento dell’Unione Europea; solo in Cina è stimata una spesa di 500 milioni di euro (in Il nuovo Soldo, 11 maggio 2002). Nonostante il rifiuto del progetto per un ponte sommerso, la Ponte d’Archimede è comunque tornata ad essere attiva nell’area dello Stretto di Messina, avviando un programma sperimentale per la “produzione di energia dalle correnti marine”. Lo studio sulle correnti dello Stretto di Messina prevede la partnership con la società cinese Zheijang Provincial Science and Technology Commission e l’Università Federico II di Napoli. 53 In Gazzetta del Sud, 25 luglio 1996. 54 Come abbiamo visto in precedenza, Paolo De Stefano è colui che scatenò la guerra di mafia per l’accaparramento dei flussi finanziari per le grandi opere nella provincia di Reggio Calabria, e in particolare di quelli per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. 55 Singolari le idee di Amedeo M. junior sul tema della mafia: "Voi giornalisti fate confusione tra la delinquenza e la mafia, che ha le sue regole morali. Regole morali simili a quelle del miglior galateo. La mafia parla di protezione della donna, di strette di mano e non di carte scritte, di rispetto della persona e di valori. Io parlo della mafia delle campagne, di quella con le scarpe sporche di terra, della Calabria che non è mai stata capita perché colonizzata dal Nord" (In Corriere della Sera, 31 ottobre 1989). 56 In Gazzetta del Sud, 10 maggio 2002. 57 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, cit, p. 218-219. 58 M. Torrealta, “La trattativa. Mafia e Stato: un dialogo a colpi di bombe”, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 66. 59 M. Portanova, “ll lamento del grande escluso”, cit.. 60 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., p. 256. 61 In Gazzetta del Sud, 10 luglio 2002. 62 Il Gruppo Franza è azionista di minoranza degli storici Cantieri navali Snav – Rodriquez che realizzano aliscafi e unità veloci utilizzabili anche a fini militari. 63 Il Gruppo Franza opera nel settore delle costruzioni attraverso la Siceas Building, società responsabile di una devastante cementificazione delle colline sovrastanti i laghi di Ganzirri, una delle località naturalistiche più importanti di Messina, a due passi da Capo Peloro dove dovrebbe sorgere il Ponte sullo Stretto. 64 Del Messina Calcio, è vicepresidente il giovane Pietro Franza; presidente il gioiellere Emanuele Aliotta, già vicepresidente dell’Acr Messina guidato dall’imprenditore di Bagheria Michelangelo Alfano, oggi in carcere per essere ritenuto uno dei referenti stortici di Cosa Nostra a Messina. 65 Forti perplessità sull’opera furono espresse dai leader locali del PSI Nicola Capria e Giacomo Mancini e dall’allora presidente delle Ferrovie dello Stato on. Ligo Ligato, esponente democristiano, successivamente assassinato dalla ‘ndrangheta. 66 In Il Soldo, 25 gennaio 1986. 67 In Centonove, 14 maggio 1994. 68 Nell’occasione, ad accompagnare il ministro su un traghetto del Gruppo Franza, c’erano anche l’allora presidente della Società Stretto di Messina, Nino Calarco, e il presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro. Il ministro Lunardi si è così espresso: “Il Ponte sullo Stretto è una struttura straordinaria che verranno a vedere da tutto il mondo. Sarà un’opera eccezionale dal punto di vista ingegneristico e ambientalistico, che avrà una valenza come il Colosseo e le Piramidi, indispensabile per il rilancio del Sud” (In Gazzetta del Sud, 7 aprile 2002). 69 Al Consorzio Costruttori Messinesi, oltre alla Siceas Building del Gruppo Franza, hanno aderito la A & V costruzioni, la Antonino Lanzafame di Messina, la Anzà costruzioni di Patti, l’ing. Paolo Arcovito S.r.l. di Messina, la Antonino Bongiovanni di Messina, la Benito Borrella di Spartà, la C. e D. costruzioni S.r.l., la D & D, la Giovanni De Domenico Snc, la Edil.Gen. S.r.l., la Edilmoter di Barcellona, la E.Spert S.p.A. di Messina, la Fago S.r.l. di Milazzo, la Figliozzi costruzioni S.r.l., la geom. Domenico Gemelli di Messina, la Italgeo S.r.l., la Vincenzo Oliva di Milazzo, la Giuseppe Pettinato, la Studi progetti e costruzioni S.p.A. di Messina e la Trio S.r.l. di Pace del Mela. Alcune di queste società sono state coinvolte in inchieste di tangentopoli. 70 Il Gruppo Franza, per la sua affermazione nei settori armatoriale, edile, industriale e finanziario, ha goduto della ‘protezione’ e dell’amicizia di importanti istituti di credito regionali e nazionali, in particolare del Banco di Sicilia, della Cassa di Risparmio Siciliana, della BNL e della Banca del Sud oggi assorbita dal Banco di Lodi. 71 Della COMIT i Franza sono i maggiori azionisti accanto a Giuseppe Stefanel, alle Assicurazione Generali, alla Commerzbank tedesca, al Gruppo Lucchini, al gruppo Monti e alla Codelouf del finanziare Luca Padulli, azionista a sua volta del gruppo Ferruzzi e Montedison. Il Gruppo Intesa Bci è attualmente il maggior gruppo bancario italiano; si è costituito nel 1998 con l'integrazione fra Cariplo e Ambroveneto a cui si sono aggiunti l'anno successivo Cariparma, FriulAdria e Banca Commerciale Italiana. 72 Per l’operazione di acquisizione di Mediocredito-Banco di Sicilia, il Gruppo Franza è entrato in cordata con i costruttori Virlinzi di Catania, con l’editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo - al tempo presidente della Federazione Editori Italiani (Fieg) - e con i banchieri trapanesi D’Alì Staiti, ex proprietari della Banca Sicula poi assorbita dalla COMIT, oggi Banca Intesa Bci. 73 La Banca Antonveneta è alla guida di uno dei principali gruppi bancari italiani che comprende, oltre al Capogruppo e alla Banca di Credito Popolare di Siracusa, il Credito Industriale Sammarinese, la Banca Popolare Jonica (Grottaglie Taranto), la Banca Cattolica (Molfetta, Bari), la Banca Nazionale dell'Agricoltura e la Banca Agricola Etnea (Catania). Quest’ultimo istituto è appartenuto al costruttore siciliano Gaetano Graci, di cui sono stati provati i legami con le maggiori cosche mafiose catanesi e con il finanziere Michele Sindona. Grazie all’assorbimento della BAE, l’Antonveneta dispone attualmente in Sicilia di 74 sportelli bancari. 74 Nella finanziaria Consortium, sorta nel 1980 per gestire il salvataggio poi non effettuato della Snia, oltre al Gruppo Franza, sono presenti tra gli altri, la Mediolanum della famiglia Berlusconi, Unicredito, la Banca di Roma, la Tredicimarzo (ex gruppo Lazard), le Assicurazioni Generali e il costruttore Marcellino Gavio, titolare della società Itinera, coinvolta in alcune inchieste di tangentopoli per gli appalti autostradali. 75 In www.imgpress.it 76 La Marathon Holding era di titolarità della Cominvest di Roma, società attiva nella gestione patrimoniale di proprietà del finanziere Sergio Cragnotti. Nel 1994 fu ceduta ad un gruppo di manager e promotori finanziari, guidati dal Gruppo Franza, su ordine della Consob, dopo la condanna in Canada del presidente della Lazio e dell’ex braccio destro Raul Gardini, per una vicenda di “insider training’ nella Borsa dell’Ontario (Il Mondo, 9-16 gennaio 1995, pag. 87). 77 Oltre alla Banca del Sud, la Popolare di Lodi ha acquisito in Sicilia la Banca Popolare di Belpasso, istituto finito nelle mani del boss mafioso catanese Giuseppe Pulvirenti ‘u malpassotu, la Banca Popolare di Carini, il cui consiglio di amministrazione è stato rinviato a giudizio per falso in bilancio, le banche monosportello di Vittoria e Mazara del Vallo, il Credito Siciliano guidato dall’ex eurodeputato di Forza Italia, Pietro Di Prima. La Popolare di Lodi è in mano ad un gruppo di privati: la immobiliare romana Magiste di Stefano Ricucci (4,99%), la Barilla (3,2%), la Hopa di Emilio Gnutti (2%), la Tabacchi della Safilo (1%) (in Il nuovo Soldo, 8 giugno 2002). 78 E’ grazie all’emendamento presentato come primo firmatario dall’on. Pietro Folena dell’allora PCI, che venne iscritto per la prima volta nella Finanziaria un fondo di 40 miliardi di lire a favore della Società Stretto di Messina, a cui è stata affidata la progettazione del Ponte. A partire dal 1991 tutte le Finanziarie hanno previsto un capitolo a favore della società, con il voto unanime di tutti i partiti escluso Verdi e Rifondazione Comunista (in Il Manifesto, 10 luglio 1996). 79 La Società Stretto di Messina assicura, con l’indotto, 7.000 posti di lavoro a termine, che considerata l’entità dell’investimento è poca cosa se si pensa che i dodici Patti Territoriali approvati nel 1998 dal CIPE con una spesa di 1.245 miliardi prevedono un incremento occupazionale stabile di 7.040 unità. 80 P. Sergi, “Quotidiani desiderati. Giornalismo, editoria e stampa in Calabria”, Edizioni Memoria, Cosenza, 2000, p. 200. 81 Secondo i progettisti, il Ponte sarà lungo 3.690 metri, ma l’intero manufatto raggiungerà i 5.070 metri. La campata centrale sarà di 3.360 metri. A sorreggerla ci saranno quattro cavi di dimensioni gigantesche (il loro diametro sarà di 132 centimetri) che avranno il compito di “ancorare la sede stradale alle quattro torri”, alte ciascuna 380 metri. La campata sarà sospesa a 64 metri dal mare e sarà larga 61 metri, così da consentire sei corsie stradali, più due d’emergenza, e quattro binari ferroviari. Verranno inoltre costruiti 27 chilometri di collegamenti stradali e 35 di ferrovie. 82 La carica di Nino Calarco è rimasta ‘scoperta’ sino allo scorso 21 maggio, quando il governo ha nominato presidente della Stretto di Messina, l’ex parlamentare DC Giuseppe Zamberletti, già ministro dei lavori pubblici e della protezione civile. Nino Calarco è stato tuttavia nominato ‘presidente onorario’ della società. 83 Si trattava di un seminario sull’Europa di Maastricht, organizzato dalla Fondazione Bonino-Pulejo presieduta dall’on. Calarco e a cui intervennero oltre ad Andreotti e Cossiga, Gustavo Selva, Antonio Martino e Achille Occhetto. Giulio Andreotti giunse a Messina direttamente da Palermo dove aveva assistito, da imputato, ad un’udienza dello storico processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Andreotti al tempo, era anche imputato al processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli a Perugia. Come è noto, da questi processi Andreotti uscirà assolto. 84 Il sen. Calarco è stato commissario di sconto del Banco di Sicilia e componente della commissione distrettuale delle Imposte dirette. Per la sua elezione al Senato scese direttamente in campo il consorzio La Casa Nostra, che per l’occassione sperimentò il voto differenziato: per il Senato Calarco; per la Camera dei deputati il PSI, preferenze all’allora ministro Nicola Capria, a Natale Amodeo e Salvatore Rizzo; per il parlamento europeo Salvo Lima. Dietro la realizzazione del complesso edilizio La Casa Nostra, un’opera devastante dal punto di vista paesaggistico e del territorio, sono stati determinanti gli interessi economici dei gruppi mafiosi vicini all’imprenditore Michelangelo Alfano. “Per il complesso edilizio di Tremonti – ha dichiarato ai magistrati il collaboratore Gaetano Costa – erano direttamente interessati Leoluca Bagarella, Luciano Liggio, Mariano Agate, Totò Riina, Leonardo Greco ed altri esponenti di Cosa Nostra”. 85 Alberto Sensini fece domanda di affiliazione alla P2 il 2 settembre 1977, quando stava per aprirsi la corsa alla direzione del Corriere della Sera, dopo le dimissioni di Piero Ottone. L'8 novembre 1977 la sua domanda fu accolta. Successivamente Sensini cominciò a pensare “d'aver fatto una sciocchezza” e su sua richiesta, nel giungo 1978 entrò nella condizione di "sospeso". 86 Di Costantino Belluscio, la Gazzetta del Sud giunse a pubblicare una smentita di affiliazione alla loggia P2, lunga tre colonne, nonostante i giudici fossero in possesso di alcune ricevute di pagamento del parlamentare a favore di Licio Gelli. 87 La scelta di Nino Calarco da parte dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, fu fatta di concerto con i ministri dei lavori pubblici Giovanni Prandini e dei trasporti Carlo Bernini. I due ministri saranno travolti dallo scoppio di Tangentopoli. 88 In Ondaverde, n. 9, gennaio-febbraio 1991, p. 79. 89 Va aggiunto che il figlio dell’on. Nino Calarco, Duilio, ha assunto recentemente l’incarico di giornalista presso la sede regionale di Palermo di Rai Tre. 90 Nell’ordinanza dei magistrati di Reggio si fa esplicito riferimento ad “una politica calabrese prigioniera, ingabbiata e soprattutto manovrata”, pronta ad allontanare il direttore generale della Asl che non si era piegato alle intimidazioni mafiose, per sostituirlo con Francesco Cosentino, detto ‘Ciccio mazzetta’, “già arrestato per concussione, legato alla massoneria di Vibo Valentia e contiguo agli interessi della 'ndrangheta” (F. Folda, “Minniti e quel favore molto Stretto”, in Panorama, 18 novembre 2000). 91 In una telefonata del 9 settembre 1999, l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino si rivolgeva al giornalista Pollichieni perché il sottosegretario diessino Marco Minniti si interessasse alla sua vicenda processuale relativa al sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini, conclusasi con la condanna a tre anni e quattro mesi per il reato di truffa. Il nome del generale Delfino è comparso tra le carte di un’altra inchiesta, quella relativa ad maxitraffico d’armi gestito dalle cosche catanesi, l’imprenditore messinese Filippo Battaglia e alcuni esponenti siciliani vicini a Forza Italia. A Delfino, al tempo in forza al comando dei Carabinierri di Roma, si rivolgeva telefonicamente l’ex agente Walter Beneforti, in stretto contatto con i principali trafficanti siciliani. 92 Esponente dei DS, Minniti, è il politico di governo che insieme a Lamberto Dini si recherà a Tunisi per partecipare ai solenni funerali del latitante Bettino Craxi. Interrogato come teste nell’indagine sulla malasanità, Marco Minniti ha ammesso di conoscere l’omonimo amministratore della Edilminniti e di averlo incontrato sia a Reggio Calabria che Roma. 93 F. Folda, “Minniti e quel favore molto Stretto”, in Panorama, 18 novembre 2000. 94 Ibidem. 95 In Gazzetta del Sud, 1 febbraio 2001. 96 In Gazzetta del Sud, 4 ottobre 1999. 97 Gaetano Martino è il padre di Antonio, attuale ministro della difesa e ministro degli esteri nel primo governo Berlusconi, una domanda di iscrizione, ‘sospesa’, alla loggia P2 di Licio Gelli. 98 Le elezioni politiche del 1972 rappresentano un grande successo per il partito neofascista, che a Messina elegge oltre a Uberto Bonino, l’on. Saverio D’Aquino, futuro sottosegretario alla sanità e agli interni, e che è stato ritenuto dagli inquirenti come uno dei politici locali più contigui alle organizzazioni criminali. 99 Prima della sua partenza per Milano, il finanziere Michele Sindona lavorava presso lo studio di Antonino Mangiò, tributarista del gruppo Bonino e sindaco nella Gazzetta del Sud e nella società Mulini Gazzi di proprietà dei coniugi Uberto Bonino e Sofia Pulejo. 100 La privatizzazione de facto dell’Ateneo e dell’Opera Universitaria oltre alla Fondazione Bonino-Pulejo vede il protagonismo delle società del Gruppo Franza, che oltre a sponsorizzare alcune iniziative culturali, sono contestualmente erogatrici per contratto di servizi e infrastrutture a favore delle istituzioni universitarie di Messina. Gli interessi comuni dei due grandi gruppi economici vanno al di là della condivisione delle spese per la realizzazione di eventi culturali in ambito universitario. La Banca Commerciale, oggi in Intesa Bci, ha aperto nel dicembre ’96 una propria filiale all’interno dei locali della Gazzetta del Sud di Via Bonino a Messina; i loghi del Gruppo Franza e della Fondazione Bonino-Pulejo compaiono accanto nelle campagne abbonamento per le stagioni calcistiche del Messina di serie B, squadra di cui è vicepresidente Pietro Franza. Nella stagione 95-96, quella del rilancio del Messina Calcio e dell’ingresso nella proprietà dei Franza, il Centro Neurolesi della Fondazione è stato lo sponsor principale della squadra. 101 Attualmente l’amministratore della SES è il presidente dell’Associazione Industriali di Messina Gianni Morgante. 102 “Tra quattro anni saranno necessari centinaia di ingegneri, che non dovranno certo essere presi altrove” ha inoltre dichiarato Nino Calarco. “Mafia e 'ndrangheta si sconfiggono con il progresso economico che deve coinvolgere le giovani leve siciliane e calabresi, alle quali è giusto dare la possibilità di proiettarsi nel futuro” (Gazzetta del Sud, 15 marzo 2002). 103 In Gazzetta del Sud, 28 aprile 2002. 104 E. Ciconte, ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi’, Laterza, Bari, 1992, p. 299. 105 Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale, “Le mani sull’Università”, Armando Siciliano Editore, Messina, 1998, p. 149-150. 106 E.Ciconte, “’Ndrangheta dall’unità ad oggi”, cit., p. 243. 107 Salvatore Cacace è stato candidato nelle file del PSDI dell’ex sottosegretario alla Difesa on. Dino Madaudo, accusato dai magistrati di legami con il clan Marchese della zona nord della città di Messina e con il boss Giuseppe Pulvirenti ‘u Malpassotu’ di Catania. Madaudo è stato assolto dall’accusa di voto di scambio con la mafia per intervenuta prescrizione del reato. 108 La società S.p.i.d.a. aveva progettato la lottizzazione di una vasta area per creare insediamenti industriali, in un terreno a ridosso del villaggio Tremestieri, noto come ‘Villa Melania’, sottoposto a vincolo della Soprintendenza nel settembre del 1991 dopo che le ruspe portarono alla luce alcuni reperti che hanno confermato l'esistenza di un insediamento romano di età imperiale. 109 Carlo Pesenti e Mario Ciancio siedono inoltre nel consiglio d’amministrazione della Gazzetta del Sud Calabria S.P.A, società che cura la stampa delle edizioni calabresi dell’omonimo quotidiano. 110 In Il Soldo, 16 marzo 1985. 111 Giuseppe La Loggia è il padre dell’attuale ministro di Forza Italia, Enrico La Loggia. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1994, la Procura di Palermo intercettò il futuro ministro La Loggia in un colloquio telefonico con il commercialista Giuseppe Mandalari, gran maestro di logge massoniche coperte e uomo di fiducia del boss Totò Riina. 112 Il rapporto tra l’on. La Loggia e Carlo Pesenti continuò negli anni successivi: grazie all’industriale del cemento e a Carlo Faina della Montecatini, La Loggia ottenne “il sostegno economico e politico per essere eletto nuovo presidente del governo regionale. E quel governo venne chiamato dalla stampa di opposizione proprio “il governo dei due Carletti”” (M. Bartoccelli, “La via giudiziaria al deserto Sicilia. Rapporto su come, per colpire la mafia, la magistratura ha ucciso l'economia dell'isola”, www.liberalfondazione.it, 2001). 113 Salvatore Ligresti, costruttore intimamente legato a Bettino Craxi e al PSI lombardo è stato indagato e prosciolto per lo scandalo delle lottizzazioni del ‘Piano Casa’ di Milano; è stato arrestato con l’accusa di corruzione per i lavori alla metropolitana di Milano, per l’acquisto di un terreno dell’IPAB, e per l’affare Sai-Eni, il cui procedimento si è concluso con la condanna in primo grado di Ligresti a quattro anni e quattro mesi. L’imprenditore è riuscito però ad evitare il carcere facendosi affidare ai servizi sociali. Ligresti è stato coinvolto inoltre nell’indagine sul tracollo della Maa Assicurazioni di Paolo Berlusconi (G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite. La vera storia”, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 675). Su un ipotetico legame dell’imprenditore con la criminalità si è soffermato il collaboratore di giustizia Luigi Sparacio, che in riferimento ad alcune opere in via di realizzazione a Messina, ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di imprese dal clan Santapaola “a cui erano interessati i palermitani”. Tra esse, Sparacio nomina la Di Penta, “un’impresa di calcestruzzi di Ravenna” e la Grassetto di Salvatore Ligresti che al tempo stava realizzando lavori per 73 miliardi presso il Policlinico Universitario di Messina (Comitato Messinese per la Pace e il Disarmo Unilaterale, “Le mani sull’Università”, cit., pp. 79-80). L’azienda di Ligresti, secondo i giudici, per ottenere l’appalto, avrebbe versato tangenti del 5-6% a funzionari e politici locali. Come vedremo successivamente la Grassetto è tra i soci dell’IGI-Istituto Grandi Infrastrutture presieduto da Giuseppe Zamberletti, neopresidente della Società Stretto di Messina. 114 L’Italcementi ha acquisito nel 1992 il Gruppo Ciments Français, conquistando la leadership internazionale della produzione del cemento. Attualmente possiede al mondo 53 cementerie, 13 centri di macinazione, 150 cave di aggregati, 533 centrali di betonaggio. L’attività è focalizzata sulla produzione di cemento (oltre il 60% del fatturato) e si integra con la produzione di calcestruzzo, aggregati e materiali per l’edilizia. 115 Il Gruppo Pesenti, già titolare del 36% del pacchetto azionario della Calcestruzzi S.p.a., ha acquisito la restante quota societaria dalla Calcemento S.p.a. del Gruppo Lucchini. 116 In E. Bellinvia e S. Palazzolo, “Falcone Borsellino. Mistero di Stato”, Edizioni della Battaglia, Palermo, 2002, pp. 57-58. 117 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., pp. 204-205. 118 Già alla fine degli anni '80 la Procura della Repubblica di Massa Carrara aveva scoperto che l'intero capitale della SAM (Società Apuana Marmi) e dell'Imeg (Industria di Marmi e Graniti), erano stati ceduti dall'ENI alla Calcestruzzi di Ravenna. L’affare fu realizzato dalla Generale Impianti, il cui capitale sociale apparteneva alla Finsavi, società al 50% dei fratelli Buscemi. Direttore della Imeg era un parente di Buscemi, Rosario Sfera, che diventerà procuratore della Finimeg “società che porta il gruppo Calcestruzzi tra gli affari di Michele Greco, facendogli acquistare il complesso immobiliare di Pizzo Sella di proprietà di Rosa Greco Notaro, sorella del boss Michele Greco” (M. Bartoccelli, “La via giudiziaria al deserto Sicilia”, cit., www.liberalfondazione.it.). I lavori di realizzazione del complesso di Pizzo Sella furono eseguiti inizialmente dall’impresa Sicicalce di Andrea Notaro, marito di Rosa Greco, e furono terminati dalla Cisa del Gruppo Ferruzzi, guidata dal manager Giuliano Visentin. 119 Hanno scritto in merito i magistrati palermitani: “Non risultano acquisiti elementi per affermare né per escludere che Salvatore Riina abbia investito propri capitali nelle attività imprenditoriali del gruppo Ferruzzi. Certo è che Gardini e Penzavolta ben sapevano legare le loro sorti a quelle di soggetti di cui conoscevano l’influenza e il carisma nel contesto mafioso palermitano e anzi ritenendo proprio per questo di potere più facilmente introdursi nel difficile mercato siciliano”. “Non è dato conoscere se vi sia stata una molla scatenante che abbia indotto i maggiori rappresentanti di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti del nostro paese a mettere totalmente e del tutto consapevolmente a disposizione di pericolosissimi esponenti di Cosa Nostra la loro struttura, il credito acquisito presso il sistema bancario, il loro prestigio”. 120 La Crea è stata ceduta dal Gruppo Franco Tosi nei primi mesi del 2000. 121 Attualmente Italgen-Italcementi dispone in Italia di tre centrali termoelettriche con una potenza installata di circa 150 Mw, di tredici centrali idroelettriche con una potenza di circa 50 Mw, e di linee di alta tensione per oltre 400 chilometri. 122 Con l’accordo con il Gruppo Monti-Riffeser, i Pesenti hanno ceduto la proprietà della Editrice Romana (editrice del quotidiano Il Tempo) e della Società Tipografica Tiburtina. Le tre testate edite dalla Poligrafici Editoriale sono invece quelle con cui la Gazzetta del Sud ha un accordo per la produzione congiunta delle pagine di politica interna ed estera. 123 L’Hdp di Romiti possiede il 7,6% del pacchetto azionario della Poligrafici Editoriale; è inoltre titolare di una quota della società informatica Dada, attiva nel sistema internet. La Hdp è inoltre attiva nel mercato della moda, dove controlla la Fila e sino allo scorso marzo la Valentino, poi ceduta alla Marzotto. 124 Giampiero Pesenti è stato accusato in qualità di presidente del Gruppo Gemina di aver coperto artificiosamente parte dei 446 miliardi di perdite sui crediti rateali della Rizzoli-Corriere della Sera. Il processo è stato bloccato all’inizio del maggio 2002 per intervenuta prescrizione del reato (G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 658). 125 Dalle ceneri del Banco Ambrosiano è sorto il Banco Ambroveneto, oggi confluito nel Gruppo Banca Intesa Bci. 126 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga. Roberto Calvi e l’aventura dell’Ambrosiano”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982, p. 203. 127 Carlo Pesenti entra nel consiglio di amministrazione della Centrale, insieme ad altri grossi personaggi dell’imprenditoria italiana, Alberto Grandi (Gruppo Bastogi), Giovanni Fabbri (azionista del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera e industriale della carta), e il re dell’acciaio Luigi Lucchini. Questo gruppo aprirà uno scontro con la cordata di imprenditori guidata da Enrico Cuccia e Mediobanca, riunitosi nella Consortium e a cui aderirono gli Agnelli, i Bonomi, Mondadori, Silvio Berlusconi e lo stesso Lucchini. 128 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga”, cit., p. 205. 129 Nel 1979 sono la Toro Assicurazioni con la Kredietbank di Anversa, la Credito Overseas di Panama e lo IOR del Vaticano a detenere il pacchetto di maggioranza del Banco Ambrosiano. Tre anni più tardi, quando scoppia il crack dell’istituto di Milano e viene assassinato Roberto Calvi, la situazione è diversa: l’Italmobiliare di Milano ne è il maggiore azionista (3,62%), seguita dalla Kreditbank (3,2%), dalla Credito Overseas (2,71%) e dallo IOR (1,58%) (M. A. Calabrò, “Le mani della Mafia. Vent’anni di finanza e politica attraverso la storia del Banco Ambrosiano”, Edizioni Associate, Roma, 1991, p. 248). 130 Al tentativo di ‘salvataggio’ del Banco Ambrosiano parteciparono tra gli altri due personaggi che sono riusciti a superare brillantemente le tempeste politico-giudiziarie degli scandali dell’Ambrosiano e della loggia P2: il faccendiere sardo Flavio Carboni e l’amico Giuseppe Pisanu, anch’egli sardo, ex sottosegretario DC, neoministro agli interni del governo Berlusconi. 131 Attraverso il Banco Andino avvennero i pagamenti di una serie di forniture di materiale bellico (missili Exocet, cannoni navali Oto Melara, velivoli da trasporto Aeritalia, elicotteri Agusta) a favore dell’Argentina dei generali golpisti affiliati alla P2 di Licio Gelli. Scoppiata la guerra con gli inglesi per le Falkland-Malvinas, il buco del Banco Andino divenne una voragine e il banchiere Roberto Calvi fu costretto a riparare in Svizzera per fuggire ai magistrati italiani che indagavano sul crack dell’Ambrosiano. Il 17 giugno 1982, giorno delle dimissioni a Buenos Aires del generale Galtieri, Calvi venne ritrovato impiccato a Londra sotto il 'Blackfrias Bridge', il ponte dei frati neri, l'unico del Tamigi dipinto in bianco e celeste, i colori della bandiera argentina. 132 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga”, cit., p.154. 133 Oltre ai Pesenti, Battaglia sarebbe stato in contatto con le note famiglie della finanza Bonomi e Bulgari. 134 In un troncone dell’inchiesta sui ‘mandanti coperti’ delle stragi, sono stati indagati a Caltanissetta l’attuale presidente del consiglio Silvio Berlusconi e il braccio destro Marcello Dell’Utri. Lo scorso maggio il Gip ha archiviato l’inchiesta per l’”insufficienza e la frammentarietà delle prove raccolte”. Nel suo provvedimento di archiviazione, il Tribunale di Caltanissetta scrive però che sono stati “accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione di Cosa Nostra”. “Vi è insomma da ritenere – conclude il Gip di Caltanissetta – che tali rapporti di affari con soggetti legati all’organizzazione abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli ‘uomini d’onore’ l’idea che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di Cosa Nostra”. 135 in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 180. 136 In Sicilia, la Cogefar-Impresit è stata tra le maggiori committenti nazionali accanto alla Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi, alla Lodigiani di Roma, alla CMC di Ravenna e alla Grassetto del cavaliere Salvatore Ligresti. A fine anni ’90, il dirigente Impregilo per l’area siciliana, Giuseppe Crini, è stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta denominata ‘Trash’, relativa alla gestione della discarica di Bellolampo (Palermo) e del piano regionale di realizzazione di alcune discariche comprensoriali in Sicilia, su cui erano forti gli interessi dei maggiori gruppi criminali. Giuseppe Crini aveva lavorato in passato presso la Cisa del Gruppo Ferruzzi, la società che ha realizzato il devastante complesso immobiliare di Pizzo Sella. E’ interessante sottolineare che nell’ambito dell’inchiesta ‘Trash’ è stato arrestato anche l’imprenditore Romano Tronci, titolare della De Bartolomeis, società realizzatrice con la Fiat-Impresit del grande depuratore di Palermo, i cui costi lievitarono dai 14 miliardi preventivati ai 170 finali. Tronci, vicino ad ambienti del PCI-PDS, si era associato con la Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi e l’Ansaldo per ottenere, dietro il pagamento di una grossa tangente, i lavori per la desolforazione di alcune centrali a carbone dell’Enel. 137 L’Impregilo è in mano al gruppo Gemina S.p.A che detiene il 15,63% del pacchetto azionario, al Gruppo Fiat-Sicind S.p.A. (4,7%), alla Girola Partecipazioni S.p.A. (2,77%) e a cinque importanti istituti bancari nazionali, la Banca di Roma, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, Cariplo e il Gruppo Bancario San Paolo-Imi. Per un approfondimento sulle maggiori infrastrutture realizzate nel Sud del mondo dalla Cogefar-Impregilo, si veda: A. Mazzeo, A. Trifirò, “Colombia. Conflitto armato, ruolo delle multinazionali e violazione dei diritti indigeni”, Palombi Editori, Roma, 2001, pp.122-144. Si veda anche www.terrelibere.it/impregilo. 138 in Carta n. 20, 23-29 maggio 2002, pag. 25. 139 In particolare la Rocksoil di Pietro Lunardi è stata tra le progettatrici nel 1994 delle gallerie Pianoro, Saderano, Monte Bibele, Raticosa, Scheggianico, Fiorenzuola, Rinzelli, Morticina e Vaglia (Alta Velocità Bologna-Firenze), e delle gallerie Collatina, Massimo, Colli Albani, Sgurgola, Macchia Piana 1 e 2, La Botte, Castellana, S. Arcangelo, Selva Piano, Collevento, Selvotta, Colle Pece, Campo Zillone 1 e 2, Briccelle, Castagne, Santuario (Alta Velocità Roma-Napoli). 140 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 25. 141 L’Iri-Italstat, che vedremo successivamente coinvolta nel grande affare dell’Alta Velocità, è l’azionista di maggioranza della Società Stretto di Messina a cui è affidata la progettazione e la realizzazione del Ponte. 142 I. Cicconi, “La storia del futuro di Tangentopoli”, Dei-Tipografia del Genio Civile, Roma, 2000. 143 Ibidem. 144 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 559. 145 Nelle indagini, avviate dalla Procura di La Spezia, è stata individuata una misteriosa società di progettazione dell’Alta Velocità, la Tpl, in mano a Pacini Battaglia, che avrebbe ricevuto anticipazioni finanziarie largamente superiori al fatturato; dai bilanci della Tpl sarebbero emerse “irregolarità contrattuali e procedurali che dimostrano sia il vantaggio economico che il favore riservato a Tpl da parte dei responsabili decisionali di Italferr, Tav e Fs”. Sempre in ambito ferroviario, Pacini Battaglia avrebbe mediato anche una tangente versata dal Consorzio Ferscalo per aggiudicarsi i lavori di un gigantesco terminal ferroviario alle porte di Milano, lo Scalo Firenza. Al consorzio aderivano la Cogei della famiglia Rendo di Catania, la Lodigiani di Roma e il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, una delle maggiori coop rosse. Il nome di Pacini Battaglia, accanto a quello di Sergio Cragnotti compare anche nella maxi-inchiesta Enimont. 146 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 561. 147 Dal 1989, la Rocksoil è stata trasformata in società per azioni e che conta attualmente su una sessantina di collaboratori. Per conoscere la lista completa delle opere progettate dalla Rocksoil della famiglia Lunardi si consulti il relativo sito web www.rocksoil.com. 148 Il valore delle consulenze della Rocksoil a favore della RAV è stato di circa sette miliardi di vecchie lire; più specificatamente tra il 1989 e il 1990 sono state progettate per l’autostrada Aosta-Monte Bianco le gallerie Villenueve, Avise, Leverogne, Les Cretes e Villaret. 149 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., pag. 412. 150 In Il nuovo Soldo, 22 giugno 2002. Nel nuovo consiglio di amministrazione della Stretto di Messina oltre a Carlo Bucci e Lino Cardarelli, hanno fatto ingresso Giuseppe Calcerano, Ercole Pietro Pellicanò, Vito Riggio, Francesco Sabato (ANAS), Renato Gabrio Casale (FS), Emmanuele Emanuele (Regione Calabria) ed Elio Fanara (Regione Siciliana). Nel collegio sindacale sono stati invece nominati Lucio Brundo (presidente), Gaetana Celico, Giuseppe Chessa (sindaci effettivi), Lucio Mariani, Giovanni Rizzica e Giuseppe Pedalino (sindaci supplenti). 151 In Gazzetta del Sud, 29 aprile 2002. 152 Giuseppe Zamberletti è stato inoltre componente dell’Assemblea Parlamentare dei Consigli d’Europa e dell’Unione Europea Occidentale. E’ attualmente presidente dell’UNAIE, associazione di sostegno agli italiani emigrati all’estero, e come vedremo, dell’IGI, l’Istituto Grandi Infrastrutture. 153 in Il Resto del Carlino, 29 novembre 2000. 154 Per la realizzazione del suo Piano di Rinascita Democratica in Italia, Licio Gelli guardava con particolare attenzione, tra gli altri, all’ex ministro democristiano Antonino Gullotti, messinese, oggi scomparso. Gullotti è ritenuto il maggior ‘padrino’ delle fortune della famiglia Franza. La sorella Angelina, sposa del sen. Luigi Genovese, con il nipote Francantonio Genovese, risultano tra gli azionisti e i membri del C.d.a. della Tourist Ferry Boat, della Satme S.p.A. e della Framon Hotel S.r.l. del Gruppo Franza. 155 John Mc Caffery senior, insieme a Licio Gelli ed Edgardo Sogno ha firmato gli ‘affidavit’ a favore di Michele Sindona per evitarne l'estradizione in Italia a seguito dell’inchiesta giudiziaria per bancarotta. Ha dichiarato Mc Caffery: "Sindona è anticomunista, filoamericano, progettò un colpo di Stato in Italia nel 1972. Era destinato ad insediare un governo filoamericano e capitalista. A questo progetto partecipai anch'io. Ci incontrammo con ufficiali di alto rango delle forze armate italiane e Sindona, per proprio conto, ebbe contatti con la Cia e con funzionari di rango elevato dell'ambasciata americana a Roma". I primi contatti tra Michele Sindona e John Mc Caffery risalirebbero al periodo in cui il finanziere di Patti sarebbe stato 'arruolato' da Lucky Luciano per tenere i collegamenti tra gli agenti segreti italo-americani Vincent Scamporino e Max Corvo con i capi mafiosi della Sicilia, alla vigilia dello sbarco alleato del 1943. 156 U. Santino, “Il ruolo della mafia nel saccheggio del territorio”, paper, Gibellina, 1993, pp. 15-17. 157 I. Sales, “La camorra, le camorre”, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 198. 158 Giuseppe Zamberletti è anche presidente del Forum Europeo dell’Ingegneria generale e di costruzioni e del Forum europeo delle Grandi Imprese, uno degli interlocutori privilegiati dei Commissari e degli uffici della Commissione lavori pubblici e infrastrutture dell’Unione europea. 159 Franco Nobili è stato inoltre membro della Giunta Confederale della Confindustria e vicepresidente dell'ANCE, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili, e consigliere dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, Attualmente ricopre l’incarico di presidente dell’Unione di Amicizia Italia-Turchia, paese quest’ultimo nel mirino delle maggiori organizzazioni umanitarie internazionali per le costanti violazioni dei diritti umani e per le attività di repressione del popolo kurdo. 160 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, Op. cit., p. 675. 161 Oltre ai Benetton in Autostrade S.p.a. sono presenti tra i maggiori azionisti la Fondazione Cr Torino, Acesa, le Assicurazioni Generali, Unicredito. 162 Al tempo della presidenza di Giancarlo Elia Valori della telefonica Sirti, la Stet che ne era proprietaria, era era presieduta dal politico socialista calabrese Michele Principe, iscritto alla P2 di Licio Gelli come lo stesso Valori. 163 La biografia di Giancarlo Elia Valori è tratta da G. Barbacetto, “Campioni d’Italia’, cit., pp. 84-95. 164 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., p. 94. 165 Ibidem, p. 87. 166 Ibidem, p. 88. 167 Comitato Messinese per la Pace e il Disarmo Unilaterale, “Le mani sull’Università”, cit., p. 155. 168 Nel C.d.A. della Pierrel siede con Claudio Calza anche Flavio Briatore, ex accompagnatore di Noami Campbell ed ex manager della scuderia automobilistica della Benetton. 169 “A proposito di Claudio Calza - ha raccontato ai giudici il collaboratore Gerardo Gastone -posso dire che lo stesso è una testa di cuoio dell’onorevole Sanza Angelo, lo so con certezza perchè ho lavorato con Sanza per tre anni. Il Calza, in sostanza, gestisce la Job Orienta Business che è la società presso al quale si trova l’ufficio di Roma dell’ing. Antonio De Sio e dove, almeno in passato, lavorava la signora Aurora Bisogni, moglie di Sanza. Negli uffici di Roma vengono gestiti gli affari sia di De Sio che di Sanza che, peraltro, sono tra loro legatissimi. (...). So che tra i De Sio e Calza ci sono ingenti movimenti di denaro, in particolare spesso il dottor Michele versa denaro a Calza. So che in passato sicuramente Calza Claudio ha smistato tangenti per Sanza” (in Gazzetta del Sud, 31 maggio 2002). 170 Gazzetta del Sud, 11 giugno 2002. 171 Tra le società implicate nell’inchiesta sulle ‘Fiamme sporche’, oltre alla Girola, c’è la controllata Cogefar, la finanziaria della famiglia Agnelli Gemina, la Falck del gruppo Pesenti, la Lodigiani di Roma, l’Euromercato dei fratelli Berlusconi. 172 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 191. 173 Ibidem, p. 44. 174 La Torno di Milano è indagata a Messina nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione dei megasvincoli autostradali di Giostra e Annunziata, insieme ad amministratori e funzionari comunali ed ai titolari della società di costruzioni di Barcellona Gitto & figli. Per un approfondimento sull’inchiesta si veda www.terrelibere.it/gitto). 175 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 169. 176 Ibidem, p. 568. 177 Ibidem, p. 123. La Pizzarotti S.p.a. è una delle società che ha particolarmente contribuito al processo di militarizzazione della Sicilia, ottenendo importanti appalti per la realizzazione della ex base nucleare di Comiso. Per un approfondimento si veda www.terrelibere.it/memoriacomiso. 178 Ibidem, p. 15. 179 Secondo i magistrati di Palermo, Totò Riina avrebbe promosso un comitato d’affari tra lo stesso Filippo Salamone, i fratelli Buscemi e il Gruppo Ferruzzi, che esautorando Angelo Siino, avrebbe regolato negli anni ’90 la spartizione degli appalti in Sicilia, d’intesa con i politici, gli imprenditori e la mafia. Filippo Salamone è titolare dell’Impresem e fratello del giudice Fabio Salamone in forza alla procura di Brescia, titolare dei procedimenti contro i giudici del pool di Mani Pulite di Milano. 180 Centro siciliano di documentazione ‘Giuseppe Impastato’, “Accumulazione e cultura mafiosa”, Palermo, 1979, pp. 12-19. 181 Ansa. “Ponte Stretto, Società può essere appaltante”, 30 luglio 2001, ore 16.34.42. 182 Come per Nino Calarco e Gianfranco Gilardini, la nomina di Baldo de Rossi ai vertici della Società Stretto di Messina fu firmata dal trio di governo Andreotti-Prandini-Bernini. 183 Solo nel 1998 la Mitsubishi Heavy Industries LTD, una delle più grandi società costruttrici di ponti al mondo, ha manifestato il proprio interesse a partecipare, sia in qualità di costruttore che di finanziatore, alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Da allora non sono seguiti ulteriori interventi. 184 Dalla lettura del testo elaborato dalla commissione ‘Ponte sullo Stretto’ dell’IGI, si evince che i massimi dirigenti dell’istituto si sono recati di recente a Bruxelles per incontrare “il professor Mattera e i suoi collaboratori della Direzione Generale del Mercato Interno”. Poi a Roma c’è stata una riunione tra l’IGI e il capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio per approfondire il tema della “situazione giuridica” e dell’apertura ai privati della Stretto di Messina. Un’ulteriore prova di quanto stia a cuore al consorzio dei grandi costruttori di tangentopoli, la realizzazione dell’Opera. 185 Il sole-24 Ore ha ipotizzato la “regolamentazione del servizio di traghettamento e contenimento degli effetti indotti dal trasferimento di traffico alle autostrade del mare” (Il sole-24 Ore, 7 ottobre 2001). Come spiegato da Giuseppe Gilimberti, presidente di Italia Nostra-Sicilia, ciò significherebbe che “data la prevedibile necessità di imporre alte tariffe al transito dei mezzi si dovrà intervenire per evitare che flussi di traffico in specie commerciale possano prendere la strada del cabotaggio. Ciò non potrà non avvenire se non costringendo anche gli operatori marittimi ad imporre alte tariffe o evitando di mettere a disposizione le infrastrutture necessarie allo sviluppo di questo tipo di traffico” (G. Giliberti, “Il gioco dei tre Ponti di Messina”, Bollettino Nazionale di Italia Nostra, ottobre 2001). 186 Il ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi ha le idee chiare sul modello che dovrà caratterizzare i lavori di realizzazione del Ponte. Nel corso della sua recente visita a Messina ha dichiarato ai giornalisti che per accelerare i tempi di consegna dell’opera, il governo prevederà “turni di notte, per complessivi tre turni nel corso della giornata; riconoscimento di incentivi economici alle imprese che consegneranno i lavori prima dei termini contrattuali; lotti unici affidati a un “general contractor” con costi e tempi certi” (Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002). 187 La relazione finale della commissione IGI per il ‘Ponte sullo Stretto’ è consultabile su internet all’indirizzo www.igitalia.it/documenti. 188 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., pp. 184-185. 189 Sui limiti e le contraddizioni del ‘Project financing’, la ‘progettazione attraverso la finanziazione pubblica-privata’, si veda M. Lo Cicero, “Project Financing” in AA.VV., ‘Ponte sullo Stretto’, cit., pp.187-208. 190 Per comprendere appieno la ‘cultura ambientale’ del neopresidente della Stretto di Messina Giuseppe Zamberletti, è rilevante il successivo passaggio della relazione svolta davanti alle società e alle banche dell’Istituto Grandi Infrastrutture: “Si è preferito fasciarsi la testa con norme farraginose, pensate in una logica appaltistica, che scoraggiano qualsiasi promotore che abbia idee e soldi e che desideri investirli in progetti remunerativi. (...) Le penalizzazioni operative imposte dalla Merloni con le successive integrazioni, gli affanni derivanti da un faticoso processo autorizzatorio, gestito con tutte le prudenze indotte da un khomeinismo ambientalista, capace di condizionare la pubblica amministrazione, avevano già da tempo appesantito il mercato dei lavori pubblici, incidendo negativamente sulla attività ordinaria riguardante le opere programmate” (Giuseppe Zamberletti, “Relazione di chiusura dell’anno sociale 2001”, Roma, 21 maggio 2001, in www.igitalia.it/documenti). 191 Ansa. “Ponte Stretto, al via audizioni banche”, 3 settembre 2001, ore 18.41.16. 192 Si tratta della cosiddetta “Legge Obiettivo” o “Legge Lunardi” (è la n. 443 del 21 dicembre 2001, “Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive”. Le norme della legge delega riguardano oltre al Ponte sullo Stretto di Messina, la realizzazione di altre grandi opere infrastrutturali di enorme impatto ambientale, tra cui il sistema delle Mose di Venezia, l’autostrada Livorno-Civitavecchia e la linea ferroviaria ad Alta Velocità Milano-Genova. 193 Per un’analisi approfondita della ‘legge obiettivo’ del ministro Pietro Lunardi, si veda A. Becchi, “A proposito del Ponte”, in AA.VV., ‘Ponte sullo Stretto’, cit., pp.127-138. 194 In Gazzetta del Sud, 5 maggio 2002. 195 Gli effetti di una deroga in tema di Valutazione dell’Impatto Ambientale nel progetto del Ponte sarebbero devastanti, considerato anche il fatto che sino ad oggi gli studi ambientali allegati al progetto sono incompleti e deficitari. Se ne è accorto lo stesso ministro Lunardi che ha richiesto l’affidamento di un nuovo studio d’impatto ambientale. Il C.d.A. della Società Stretto di Messina, il 28 giugno 2002, ha affidato il “servizio d’aggiornamento e integrazione dello studio di impatto ambientale del Progetto del Ponte sullo Stretto” al Raggruppamento temporaneo di imprese Systra S.p.A. (mandataria), Bonifica S.p.A., Systra-Sotecni S.p.A., Ast Sistemi S.r.l.. 196 G. Colussi, “Perchè i mafiosi amano tanto il ponte”, Carta, cit., pag. 28. 197 A. Becchi, “A proposito del ponte”, cit., p. 133. |
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