RUOLO DELLA FAMIGLIA E RESPONSABILITÀ DELLA COMUNITÀ
Il dialogo tra famiglie e servizi: un diritto dei bambini?
Nell’attuale dibattito sui servizi per l’infanzia, un ruolo centrale acquista sempre più la famiglia, nonostante quest’ultima conosca oggi una forte crisi al suo interno.
Questa maggiore attenzione rivolta al nucleo familiare e alla genitorialità nasce dalla considerazione che il processo di integrazione sociale, che il bambino e la bambina sperimentano nei primi anni di vita all’interno delle strutture socio-educative a loro destinate, è segnato in gran parte dai primi legami affettivi vissuti in famiglia.
La comunità, le istituzioni, la cultura dell’infanzia, nel progettare e promuovere interventi a favore dei bambini, sono chiamate ad assumere le proprie responsabilità, guardando al rapporto con la famiglia non come ad un aspetto marginale, ma come ad un impegno decisivo per la qualità stessa dei servizi.
Occorre interrogarsi sulla specificità delle funzioni e delle competenze che famiglia e comunità assolvono nel delicato passaggio dei bambini dalla dipendenza all’autonomia, dalla “casa” al gruppo sociale, ma soprattutto, dato il tema del nostro incontro, sui rapporti che di fatto si stabiliscono tra genitori e operatori all’interno dei servizi socio-educativi.
Se è vero che la famiglia ha il compito di tutelare il bambino e la
bambina nei loro bisogni primari, rafforzandone l’identità e la stabilità
affettiva, e la comunità quello di elaborare interventi in grado di sviluppare
le potenzialità infantili e consolidare la dimensione sociale, è pur vero che
le funzioni esercitate dall’una e dell’altra non possono mai essere così
nette e differenziate, perché innanzitutto esse non lo sono mai per i bambini
nei primi anni di vita.
I bambini molto piccoli hanno uno sguardo globale sulla realtà e le loro
esperienze non sono mai del tutto settoriali: così come quando vanno
all’asilo si portano con sé “pezzetti” di casa che li rassicurano, allo
stesso modo, le sensazioni e gli stimoli vissuti all’esterno si prolungano
dentro le pareti domestiche e nei rapporti familiari.
Questo non può che spingere a guardare come fatto positivo uno scambio e un dialogo tra coloro che entrano in una relazione significativa con i bambini in età prescolare: quanto più si cerca di condividere competenze e responsabilità, tanto più efficacia acquista un’azione educativa.
RISORSE E LIMITI DELLE STRUTTURE PRIVATE
Le mie riflessioni prendono lo spunto da una lunga esperienza con la
prima infanzia, maturata soprattutto in ambito privato, all’interno di
strutture nate con l’obiettivo di sollecitare l’espressione e la
comunicazione dei bambini molto piccoli attraverso il gioco e le storie,
con una particolare attenzione al rapporto con la famiglia.
Una maggiore libertà progettuale e operativa, di cui non sempre dispone chi
lavora all’interno dei servizi istituzionali, mi ha dato l’opportunità, nel
corso di questi anni, di offrire risposte e spazi più flessibili ai
diversi bisogni legati all’età infantile e di valorizzare le figure
genitoriali che, in una struttura più rigida, rischiano di essere un
po’ penalizzate.
Questo è da considerare un aspetto positivo dei servizi privati: quando essi
nascono da un’attenzione reale al bambino e alla bambina
e da competenze specifiche, hanno delle possibilità in più per attuare
interventi svolti non solo con tempi e metodologie più elastiche e rispondenti
alle diverse esigenze, ma anche con una maggiore apertura alla comunicazione con
le famiglie.
Purtroppo però, nella nostra realtà territoriale, spesso l’ orientamento
delle strutture private che si rivolgono ai bambini in età prescolare è di
fatto connotato da una sorta di “chiusura”. E’ sempre più diffusa,
infatti, la tendenza a sganciare le iniziative private da una seria cultura
dell’infanzia e dei servizi (indispensabile per salvaguardarne la qualità),
per privilegiare unicamente interessi di tipo imprenditoriale.
Nell’ambito del privato ci troviamo di fronte ad un moltiplicarsi di “baby
parking”, asili nido, scuole materne, centri ricreativi, sui quali non esiste,
di fatto, alcun tipo di controllo, né in ordine ai contenuti né circa la
professionalità degli operatori. D’altronde, da parte di queste strutture,
manca l’interesse a confrontarsi con la comunità, ed è significativo che,
nel migliore dei casi, l’unica attenzione venga rivolta ad aspetti quali la
sicurezza, l’igiene, l’alimentazione, cioè unicamente alla crescita
“fisica” dei bambini, senza alcuna considerazione per la loro “mente”.
Questa visione privatistica dei servizi, che è possibile riscontrare anche all’interno di certe strutture istituzionali, talora altrettanto chiuse in sé stesse, corrisponde ad una mentalità, oggi molto diffusa anche nelle famiglie, che tende ad evitare qualsiasi confronto costruttivo con l’esterno, con una sorta di irrigidimento sui propri principi educativi Da ciò deriva uno stile familiare che non aiuta il bambino e la bambina a costruire autonomamente una propria identità e li porta ad imitare in maniera conformistica modelli prefissati da altri nonché a ripiegarsi narcisisticamente su di sé. Tale stile educativo è spesso unito ad un atteggiamento eccessivamente protettivo, che rende i bambini insicuri e incapaci di affrontare le “prove” che la vita impone.
Famiglie e servizi, in quest’ottica, diventano complici di un orientamento culturale che non ha alcun interesse a fissare percorsi educativi in cui vengano valorizzate le potenzialità dei bambini, venga sviluppato il loro senso critico e siano promossi valori quali la condivisione o il rispetto delle minoranze.
La chiusura e la separazione, che il bambino e la bambina dovessero sperimentare nei primi anni di vita nel rapporto tra famiglia e comunità, avranno molta più presa sulla loro sensibilità di quanto non possano avere, negli anni successivi, tutti i “ discorsi” che insegnanti o genitori potranno fare sul valore della solidarietà, del dialogo o della “pace”.
RUOLO DELLA FAMIGLIA ALL’INTERNO DEI SERVIZI
Sulla base di queste considerazioni, credo che l’oggetto di questo gruppo
di lavoro, cioè l’invito a ripensare al ruolo della famiglia all’interno
dei servizi, parta da precise valutazioni e preoccupazioni rispetto alla crisi
che essa attraversa e dalla necessità di definire le funzioni della
struttura familiare nei confronti delle altre agenzie educative, cui i bambini
fanno riferimento
Ci troviamo oggi di fronte ad una molteplicità di forme familiari rispetto al
passato: famiglie ricomposte, affidatarie, monoparentali, ecc..: ciò ha
determinato una trasformazione ed una confusione di quelle dinamiche e di
quei ruoli che nel nucleo tradizionale erano più facilmente riconoscibili.
Questo cambiamento, unito ad una generale caduta delle motivazioni e delle
funzioni genitoriali, ha reso più problematico il compito educativo nelle
famiglie, che sempre più tendono a delegarlo ad altre strutture, come gli asili
nido o i centri ricreativi, nei quali vengono inseriti i figli nelle diverse
fasi della crescita.
Questo, di fatto, determina una situazione in cui i servizi vengono investiti
di compiti che vanno oltre a quelle funzioni che il servizio stesso
istituzionalmente è chiamato ad assolvere nei confronti dei bambini.
In molti casi il grande compito della comunità e degli operatori è oggi quello
di sapere riconoscere tale disagio delle famiglie e di leggere, dietro un
apparente assenteismo o indifferenza di queste ultime, un forte bisogno di
chiarezza, di sostegno e di collaborazione con quanti hanno in carico
i figli.
La maggiore o minore attenzione rivolta a questo problema da parte delle
strutture si rivela decisiva non solo per la qualità degli interventi, ma anche
per un eventuale ripensamento dei compiti genitoriali.
In questa situazione, le strutture di servizio possono assumere, nei riguardi delle famiglie, diversi tipi di atteggiamento:
a) Il rapporto con le famiglie può essere inesistente: gli operatori del servizio guardano, in questo caso, agli utenti (i bambini) come soggetti avulsi da un contesto relazionale familiare; si punta unicamente all’aspetto tecnico, cioè a garantire determinate prestazioni, prescindendo dai legami affettivi dei bambini. Questo determina o una rigidità del servizio, contrassegnato in certi casi da una progettualità che non tiene minimamente conto della vita reale degli utenti, oppure, al contrario, uno svuotamento dei contenuti degli interventi attuati dal servizio, perché quest’ultimo viene deresponsabilizzato dall’assoluta mancanza di un confronto con la famiglia.
b) Il rapporto con le famiglie può essere poco influente: in questo caso
alla famiglia viene riconosciuto nei confronti del bambino un ruolo
significativo, ma operante in un ambito diverso e parallelo rispetto a quello
sociale, cosicché il servizio concepisce il proprio intervento come aggiuntivo
rispetto a quello della famiglia; un rapporto in cui ognuno fa la sua parte.
In questa prospettiva alla famiglia viene restituita una funzione e può esservi
una relazione con il servizio, ma si esclude l’idea di un dialogo costruttivo
tra i due contesti.
c) Un rapporto di interazione tra famiglia e servizio è quello che meglio può
garantire un percorso di crescita e di autonomia del bambino e della bambina.
Secondo quest’ottica ogni intervento non si esaurisce in se stesso, ma è
sempre parte di un più ampio sistema di relazioni. Come dicevo all’inizio,
così come nella “vita sociale” i bambini portano se stessi con tutti i
legami per loro più significativi, allo stesso modo, nel ritornare in famiglia
essi determineranno in quell’ambiente delle trasformazioni, dovute al fatto
che la loro crescente autonomia, per le esperienze vissute all’esterno,
solleciterà i familiari a modificare i propri comportamenti.
Il servizio sarà allora spinto a progettare interventi non semplicemente sulla
base di ciò che si ritiene utile per l’utente, ma anche sulla base dei
messaggi che arrivano dalla famiglia. In questo senso la consapevolezza che un
servizio offerto ad un individuo ha una ripercussione non indifferente sulla sua
storia familiare dovrebbe essere per gli operatori un incentivo ad operare con
maggiore senso di responsabilità e, contemporaneamente, ad avere uno sguardo più
ampio, un atteggiamento meno burocratico e più aperto alle diverse esigenze
legate alla sensibilità infantile.
Creare dei progetti su una base di maggiore flessibilità senza compromettere la
professionalità non è sempre facile; è più semplice puntare sulle “cose da
fare” e sulle tecniche da adoperare, piuttosto che curare le relazione umane,
che impongono in molti casi di rimettere in gioco i propri schemi operativi.
Chi lavora quotidianamente con bambini piccoli sa quanto l’attenzione e la
disponibilità data alle famiglie si rifletta positivamente non solo sulla
“salute del bambino, ma anche sull’andamento delle attività e sul clima
complessivo.
IL PUNTO DI VISTA DEI BAMBINI
Mi sembra inoltre importante sottolineare il fatto che l’esigenza di un
dialogo tra famiglie e servizi non nasca soltanto da simili considerazioni
teoriche, ma anche da precisi messaggi che i bambini inviano, rivelando attese e
disagi legati a questa sfera. Gli orientamenti pedagogici più incisivi
nell’ambito dei servizi per l’infanzia sono quelli che prendono le mosse da
un ascolto serio dei bisogni dei bambini, i quali, attraverso il gioco,
manifestano con molta evidenza i loro stati emotivi legati, per esempio,
al passaggio dalla casa alla scuola.
Più il contesto in cui il bambino è inserito dà spazio al linguaggio ludico,
più emerge il mondo interno, che il bambino non è ancora in grado di
esprimere verbalmente.
E’ il gioco simbolico a rivelare, spesso con molta chiarezza il
bisogno/desiderio di mettere in contatto la casa e la scuola, il “dentro “ e
il “fuori”: agli occhi dei bambini non ci sono due mondi isolati e divisi (è
questa semmai una paura da cui si sentono minacciati), ma un’unica esperienza
dalla quale vorrebbero sentirsi contenuti e accompagnati , pur sapendo ben
distinguere la specificità e la funzione di ciascun contesto relazionale in cui
sono inseriti.
Uno scambio ed un’intesa tra casa e servizi sono estremamente rassicuranti per
il bambino e per la bambina, e contribuiscono positivamente a costruire la loro
identità nei primi anni di vita.
E’ interessante poi osservare come nei giochi di finzione, la casa,
la dimensione domestica, rappresenti la parte interna, “solitaria” del
bambino e della bambina, mentre il parco, le strade, la scuola esprimono
la loro parte “sociale”, il contatto con il mondo.
Solitudine e socialità sono due risorse importanti in un percorso di crescita e
di autonomia; esse vanno ugualmente curate e alimentate, non solo
attraverso un aperto ed equilibrato rapporto tra famiglia e servizio (che,
nell’esperienza infantile, esprimono rispettivamente queste due
dimensioni), ma anche creando spazi di apertura all’interno della famiglia e
spazi di solitudine all’interno del servizio. Questo può significare, ad
esempio, dare attenzione all’ospitalità e all’accoglienza in famiglia e
attenzione all’individualità ed alla riservatezza del bambino nell’ambito
dei servizi. Il rischio, infatti, che molti bambini oggi corrono, è quello che
una sana esperienza di solitudine venga trasformata in isolamento e
ripiegamento, oppure che la naturale inclinazione alla socializzazione degeneri
in uno stato di confusione e di alienazione che mette in crisi la loro
identità.
DUE ESPERIENZE TERRITORIALI DI INTERAZIONE TRA FAMIGLIA E SERVIZIO
L’esigenza di trovare forme di incontro tra le figure genitoriali e gli
operatori che, non si riducessero semplicemente a sporadici colloqui sui figli,
ma che diventassero parte integrante di progetti per la prima infanzia, ha
trovato, nella mia esperienza professionale, una precisa concretizzazione almeno
in due casi.
Come dicevo all’inizio, tante volte l’operare al di fuori dei servizi
istituzionali presenta dei grossi vantaggi sul piano di una maggiore flessibilità,
che rende più facile anche la sperimentazione di nuove linee di intervento,
alla luce dei bisogni e delle opportunità che di volta in volta le situazioni
presentano.
1) Il “Corso di Primavera”: una via verso la progressiva socializzazione dei bambini di 1/3 anni alla presenza delle loro famiglie.
Si tratta di un intervento svolto in ambito privato, che ha l’obiettivo di
accompagnare il bambino e la bambina nei primi contatti con il gruppo e con la
struttura, alla presenza di operatori esperti nel gioco e nella
relazione, ed alla presenza della mamma, del papà o di altra figura familiare
di riferimento.
Questo corso si articola in circa quindici incontri, tenuti nel periodo della
primavera presso un “Centro del Gioco” per bambini in età prescolare, ed
accoglie gruppi di 8/10 bambini alla loro prima esperienza “ sociale”.
Il gioco libero, con angoli di attività differenziati ma comunicanti, è lo
strumento attraverso cui passano le relazioni e attraverso cui i bambini
sperimentano le loro potenzialità. Agli adulti presenti viene chiesto di
condividere l’esperienza ludica con una partecipazione discreta e attenta; un
particolare rilievo viene dato alla lettura dei libri a voce alta, rispettando i
tempi di ascolto dei singoli bambini.
La famiglia, in questo caso, costituisce quel supporto affettivo necessario
perché il bambino e la bambina accettino di trovarsi in un luogo estraneo da
condividere con altri, ma ha anche la funzione di suggerire indirettamente agli
operatori presenti alcuni accorgimenti, che rendono più facile accostare ogni
singolo bambino con le sue caratteristiche personali.
Gli operatori, oltre a curare la qualità dell’intervento avvalendosi di
mezzi e spazi adeguati, implicitamente forniscono ai genitori degli strumenti
con cui sia possibile comunicare con i propri figli attraverso il
linguaggio ludico e un interesse condiviso verso altre persone fuori dagli
affetti familiari.
In questa esperienza è proprio la compresenza di famiglia e operatori
che crea i presupposti perché il bambino e la bambina possano vivere con
maggiore fiducia e serenità la dimensione sociale, distaccandosi gradualmente
dalle sicurezze domestiche. L’interiorizzazione di un primo modello positivo
di integrazione sociale potrà, in una certa misura, tutelare i bambini nelle
successive esperienze fuori dalla cerchia familiare, creando le condizioni per
trarre il massimo vantaggio dai servizi in cui verranno inseriti.
Credo che questo tipo di intervento potrebbe riproporsi, con modalità analoghe,
anche all’interno delle strutture pubbliche, soprattutto nella fase di
ingresso dei bambini.
2) Lo “Spazio-gioco” nel Quartiere Albergheria per bambini e bambine di 2/5 anni e per le loro mamme.
Il secondo intervento, che è in corso da più di dieci anni, si svolge in un
contesto territoriale molto diverso . Si tratta di un quartiere
multiproblematico del centro storico di Palermo, con grosse sacche di povertà e
di degrado socio-culturale, cui si aggiunge l’inadeguatezza dei servizi
istituzionali rispetto ai bisogni del territorio. Il volontariato locale, nel
settore minorile, si rivolge prevalentemente a bambini già scolarizzati, con
interventi spesso saltuari e non sempre qualificati, nei quali le famiglie
rimangono il più delle volte tagliate fuori. E’ certamente estremamente
difficile svolgere all’interno di questo quartiere, come in altre zone della
città, un’opera di risanamento sociale e di promozione umana che parta dai
nuclei familiari, dove i problemi sono molteplici e spesso insolubili; ma è
proprio questa estraneità delle famiglie rispetto ai progetti territoriali in
cui sono coinvolti i bambini che determina il più delle volte l’inefficacia
dell’azione socio-educativa.
C’è da aggiungere che la maggior parte degli interventi, ad eccezione
dell’asilo nido che è superaffollato, è rivolta prevalentemente ai bambini
della scuola elementare, con attività di supporto scolastico o di animazione
estemporanea e discontinua.
Alla luce di queste due considerazioni (cioè la necessità di trovare degli
spazi di accoglienza per la famiglia, e la mancanza di centri di aggregazione e
di gioco per i bambini più piccoli , quasi sempre costretti a stare in
abitazioni fatiscenti o nella strada), è nato il progetto di volontariato “Spazio-gioco”,
di cui sono responsabile, che viene gestito grazie alla collaborazione di un
gruppo di operatori anch’essi volontari , ed è rivolto a piccoli gruppi di
bambini sotto i 5 anni ed alle loro mamme.
Vorrei mettere in evidenza due aspetti di questa iniziativa:
1) Essa nasce a fianco di un servizio socio-sanitario che opera sul
territorio da più tempo e che costituisce un punto di riferimento per
molte famiglie del quartiere. La collaborazione con questa istituzione
sanitaria, che si occupa della salute in senso lato, con una particolare
attenzione alle mamme in difficoltà, ha creato le condizioni per rafforzare il
valore e la funzione preventiva del gioco e della comunicazione, presentati alle
mamme come occasione per una crescita sana dei bambini, ed ha permesso di
entrare più facilmente in un rapporto di fiducia con alcune famiglie del
quartiere.
2) Nell’accogliere insieme bambini e bambine con le loro mamme (è più rara
la presenza dei papà), in un contesto di gioco e di “leggerezza”, si
innescano delle dinamiche importanti all’interno dei piccoli nuclei familiari
presenti, che nel tempo, lasciano dei segni . Da un lato viene data
indirettamente alle giovani mamme o ai papà, ai quali è stata negata
quasi sempre un’infanzia, l’opportunità di recuperare per se stessi una
dimensione di accoglienza e di ascolto che essi normalmente non conoscono;
d’altra parte viene data ai genitori l’opportunità di guardare con maggiore
interesse e simpatia i propri figli, scoprendo in essi capacità che, nello
squallore di un esistenza fatta di stenti e di violenza, non è possibile
vedere. Questo non può che accrescere nei bambini qualcosa di cui essi, in
questi contesti, sono normalmente privi, cioè l’autostima e la fiducia nelle
proprie risorse, che sono presupposti fondamentali affinché l’inserimento
nella scuola sia meno problematico.
Sulla base delle premesse generali e di queste due esperienze personali,
credo che uno dei servizi più importanti che possiamo fare nei confronti
dell’infanzia, qualunque sia il contesto culturale e ambientale ci troviamo ad
operare, è quello di cercare, di sostenere e valorizzare le funzioni
genitoriali, che accompagnano il bambino e la bambina nella fase più fragile
della loro esistenza, rispettando e non demolendo quel naturale ed
insostituibile legame che ogni bambino instaura con le prime figure affettive
con cui entra in contatto.
Afferma Winnicott: “C’è qualcosa nella madre che la rende particolarmente
adatta alla protezione del figlio in uno stato di vulnerabilità, e che la
fa capace di rispondere positivamente ai concreti bisogni di questo. La
madre può adempiere a questa funzione se si sente sicura; se si sente amata nei
suoi rapporti con il padre del bimbo, e con la propria famiglia; e inoltre se si
sente accettata in quel più vasto ambiente che circonda la famiglia e che è la
società”.
Questo pensiero dovrebbe far riflettere molto sulle accuse che vengono mosse
oggi, spesso con leggerezza, a tante madri, ritenute del tutto inadeguate ad
adempiere la loro funzione genitoriale, soprattutto in quelle realtà
territoriali maggiormente degradate. E’ un invito ad interrogarsi sulle
responsabilità che la comunità, le istituzioni, ognuno di noi può avere in
un’opera di risanamento sociale; tali interventi, piuttosto che tendere
all’allontanamento, spesso definitivo, dei bambini dalle loro famiglie e dal
loro ambiente, dovrebbero mirare, attraverso un’opera di recupero e di
sostegno domiciliare, ad un rafforzamento del nucleo familiare.
Questa strada è certamente più complessa e più delicata da percorrere, ma,
tranne che in casi eccezionali, deve essere privilegiata, poiché è l’unica
che permetta di salvare l’identità della famiglia e del bambino, nel loro
naturale diritto ad una reciproca appartenenza.