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STOP A QUESTO MONDO GLOBALE

di Renzo M. Grosselli

Dopo New York, o le armi o la tolleranza
Stop a questo mondo globale
Il mercato non potrà più, da solo, uniformare il pianeta
O saranno gli eserciti, o si sceglierà la via della tolleranza
Noi e la guerra/ 8
Il politologo Marco Revelli:
«Internet e concorrenza hanno lasciato spazi culturali e ideologici diversificati, alcuni distruttivi»
«Due strade ora: o affiancare le armi alle merci o metterci la politica: valorizzando le differenze»
«Gli Stati Uniti potrebbero optare per la seconda via. Perché sono i figli diretti del contrattualismo inglese del ´600, del puritanesimo»
«L´Europa e l´Italia devono invitarli ed aiutarli su questa strada. Vedoperò in giro molta voglia di mostrare i muscoli»

Il dramma delle Torri gemelle ha dimostrato che la globalizzazione non ha affatto uniformato il mondo: rimangono sul pianeta ampi spazi culturali diversificati, realtà economiche non addomesticabili ancora, ideologie, religioni, razze. Uomini e idee diverse insomma che il solo «mercato» non sa adattare alle nostre idee, ai nostri modi di essere.

Ecco l´insegnamento di New York, la crisi epocale: la globalizzazione così come è stata sinora non avrà più spazio. Due vie si aprono a chi ha la possibilità di sceglierne il futuro (l´Occidente e, soprattutto, gli Stati Uniti d´America): imporla anche con gli eserciti, oppure proporla e propagarla attraverso la logica della tolleranza, della convinzione, pronti a recepire contenuti e forme che non vengono dal Primo mondo. Una analisi raffinata, originale, complessa ed affascinante quella
proposta da Marco Revelli, politologo che ultimamente aveva raccolto su di sé l´attenzione della cultura italiana per la sua opera «Oltre il Novecento».

Aspettando la guerra, professor Revelli. Ma a questo punto, è proprio necessaria una risposta armata a Bin Laden e al terrorismo?

Bisogna partire da lontana e provare a riflettere sulla tragedia di New York. Uscire dall´angoscia paralizzante che ci ha colti di fronte a quell´immagine: il nostro mondo che si inabissava. Credo che, oltre al dolore per le perdite umane, abbiamo tutti avuto la sensazione che cambiava qualcosa nel profondo della storia planetaria.

«Data storica l´11 settembre» Cosa?

Che la morte di massa è arrivata nel cuore delle nostre metropoli, cosa che l´Europa non conosceva dal 1945 e che gli Usa non avevano mai conosciuto. È successo che questa morte di massa ha dato il segno di una guerra «totalmente civile», in cui le vittime sono tutte civili e, soprattutto, i mezzi di distruzione di massa sono colti tra gli oggetti della vita civile: aerei passeggeri, grattacieli e persino le taglierine. Vulnerabilità del territorio, in particolare quello americano, e cancellazione del confine tra dimensione civile e militare della guerra, queste le due grandi novità incrociate che danno il segno del cambiamento. Noi possiamo definire la globalizzazione come una grande rivoluzione della percezione dello spazio, e cioè la costruzione di uno spazio unificato su scala planetaria. Ora, fino all´11 settembre l´Occidente, soprattutto gli Usa, aveva guardato a questo fenomeno, di cui era protagonisti, con uno sguardo sdoppiato. Consapevolmente costruiva uno spazio globale unificato e interdipendente nel quale ogni punto e ogni luogo era in grado di influenzare gli altri. Ma allo stesso tempo si riteneva un po´ al di fuori e un po´ al di sopra rispetto alle conseguenze di ciò che in quello spazio avveniva. Avvicinava tutti i punti del globo (comunicazioni veloci, trasporti, processi produttivi) ma continuava a considerarsi protetto dalla distanza. Come ai tempi dell´espansione coloniale. Con l´11 settembre ci si è accorti con raccapriccio che invece si è tutti raccolti nello stesso spazio; esposti a tutto quello che in questo spazio avviene, alle minacce che vi si muovono, ai grumi di odio che vi si condensano.

La globalizzazione cioè non ha uniformato culture ed ideologie.

Basta un corpo disposto ad autodistruggersi pur di distruggere con sé altre migliaia di corpi, per colpirci al cuore! Insomma, ci si è accorti che in questo spazio unificato sopravvivono, e non promettono affatto di dissolversi, mentalità molto diverse dalla nostra ed ostili al nostro stile di vita. E che, in fondo, provocare una catastrofe così disastrosa non richiede un grande dispiegamento di mezzi. La soglia per provocare ferite mortali richiede investimenti da media impresa transnazionale.

La svolta dell´11 settembre, quindi, segnerebbe la fine della globalizzazione liberista, quella portata avanti dalle spallate del mercato e senza un´idea politica dietro?

Certo, si giocava col denaro e con le merci e non anche con l´apparato degli eserciti, o solo in certi casi. Si è trattato della fine di quella che Aldo Bonomi sul «Corriere della Sera» ha definito la Belle Epoque: New York come la Sarajevo globale. D´ora in poi, i flussi astratti che avevano disegnato il mondo globale (finanze, investimenti, saperi, comunicazione, Internet) dovranno misurarsi con ciò che avviene sul terreno, nei territori. Si dovrà scendere a terra per affrontare il problema dell´ordine globale. Non ci si può più illudere che faccia tutto l´economia: viene richiamata in campo la politica.Ma non nella forma in cui i critici della globalizzazione speravano: non con Tobin Tax, neo-keynesismo, politiche pubbliche di equità. Ma la politica col suo volto più rude: la forza, la logica amico-nemico, la guerra, il controllo.

Quali le direzioni possibili della nuova globalizzazione?

Abbiamo davanti due porte tra cui la politica dovrà scegliere. Nei territori rimangono profonde diversità culturali, religiose, di stili di vita. Che non sono destinate ad assorbirsi prontamente, né a rimanere inerti. Possono configurarsi anche come minacce.
Una opzione può essere quella di proseguire la logica della prima globalizzazione e del pensiero unico, con altri mezzi.Non solo con denaro e tecnologia ma anche con le armi. Cioè tentare una bonifica culturale dei territori che elimini le possibilità che «mentalità altre» ci diventino nemiche. L´Europa ha già conosciuto una fase di questo genere, al tempo delle guerre di religione, tra ´500 e ´600, quando era in corso un´altra rivoluzione spaziale, che portava alla nascita degli
Stati-nazione. E si doveva fare i conti con l´esistenza entro gli stessi confini di fedi religiose diverse: la rottura della Civitas cristiana prodotta dalla Riforma. Per più di un secolo ci si massacrò nel tentativo di unificare fisicamente i territori, senza venire a capo del problema. Poi qualcuno cominciò a pensare che la logica della tolleranza fosse più efficace.

La seconda porta sarebbe quindi quella della tolleranza e del confronto?

È la seconda via che abbiamo di fronte. Scegliere la strada della tolleranza senza passare per il Calvario delle guerre tra civiltà.

E come?

Vuol dire cercare di immaginare lo spazio globale come uno spazio nel quale non solo le culture diverse devono imparare a convivere, ma devono anche regolare ognuna se stessa, in modo tale da non minacciare la sopravvivenza dell´altra. O non infliggere all´altro ingiurie che questi potrebbe ritenere insopportabili. Io lo chiamo «principio di sostenibilità». Da non applicare solo all´ecologia o all´economia ma anche alla cultura, ai modelli di vita.

E chi dovrebbe avere questa saggezza? Chi potrebbe pensare di generalizzarla? Se di scelta si tratta, solo gli Stati Uniti potrebbero farla perché solo loro disporrebbero anche dell´altra opzione, quella militare.

Una possibilità è quella di risolvere la questione con una logica piramidale. Decide chi sta al vertice, chi ha gli strumenti militari. Allora però abbiamo scelto la prima porta. Oppure prendiamo atto che, essendo inclusi nello stesso spazio, ognuno è responsabile per tutti gli altri. E scegliamo una logica di rapporto orizzontale.

«Più adeguati oggi i religiosi»
Ma gli Usa di Bush e dell´oligarchia capitalista le paiono in grado di
scegliere questa via?

Gli Stati Uniti di oggi derivano in linea diretta da quella cultura che si è formata in Inghilterra nel corso del 1.600. Dal puritanesimo militante ai livellatori, all´elaborazione del contrattualismo di Locke.
Che era il contratto tra pari, Stato politico e civile come contratto.
In cui anche il più debole, proprio perché può produrre il massimo dei mali ai più forti, deve essere messo su un piede di eguaglianza nella stipulazione del contratto.

E il ruolo dell´Europa?

Noi come europei e italiani dobbiamo aiutarli su questa strada, noi che rischiamo esattamente come loro.

Anche l´Europa e l´Italia, secondo lei, rischiano di diventare territorio di violenze terroristiche?

Non sono un profeta, non ho idea di come sarà combattuta questa guerra annunciata. Nelle leadership politiche vedo spaventose inadeguatezze, tentazioni di esibizioni di muscoli. Mi paiono più adeguate le parole di molti religiosi, a cominciare dal Papa. Sono pessimista ma speranzoso.

Studioso di lavoro e globalizzazione Marco Revelli insegna Scienza della politica ad Alessandria, alla Facoltà di scienze politiche dell´Università del Piemonte Orientale.
Vive a Torino ed è figli di Nuto Revelli, famoso personaggio della Resistenza piemontese, scrittore e cultore della memoria popolare. Sposato con un figlio, Marco Revelli ha fatto scalpore con il suo ultimo libro, «Oltre il Novecento», Einaudi 2001, dove sostanzialmente aveva individuato in una certa concezione e pratica del lavoro, la caratteristica più peculiare del Novecento. Tra altri suoi titoli, «Lavorare in Fiat», Garzanti 1989, «Le due destre» Bollati-Boringhieri 1996 e «La sinistra sociale» Bollati-Boringhieri 1998.


per gentile concessione del giornale L'ADIGE


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