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Il testo integrale della Riforma

MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE

progetto di riordino dei cicli scolastici

Premessa

  • Il senso del documento
  • La formazione delle nuove generazioni costituisce per ogni governo una responsabilità ineludibile perchè su di essa poggiano la continuità e lo sviluppo del sistema democratico, la solidità del sistema economico e industriale, l'armonico dispiegarsi dei rapporti in divenire, le speranze di tutti i membri della comunità.
    Fino ad una certa epoca, la formazione ha avuto come suo nucleo fondamentale la "trasmissione" di conoscenze consolidate, di tradizioni, di consuetudini. Gli sviluppi della scienza moderna hanno fatto emergere la necessità di affiancare a tale tradizionale modello, la "tramissione-acquisizione" di metodi, la sollecitazione dell'intelligenza critica, della ricerca, dell'approfondimento, la coniugazione più stretta tra momento cognitivo e intellettuale e momento applicativo e di indagine. L'accelerazione dello sviluppo delle tecnologie ha poi profondamente inciso sulla "stabilità delle conoscenze", sempre più rapidamente "bruciate" dalle innovazioni; e, nei paesi più avanzati, intere generazioni hanno sperimentato il significato di "obsolescenza" riferito ad abilità e capacità che l'evolvere dei tempi aveva inesorabilmente reso inutili.
    Per altro verso, proprio la instabilità dei "contenuti" del moderno sapere ha dimostrato che la formazione deve contenere in sè forti elementi culturali di tipo generale, metodologico e di indirizzo, tali da favorire la formazione della persona nella sua interezza e da fornirle nel contempo gli strumenti per mantenere aggiornati i livelli di competenza, di conoscenza e di abilità.
    L'attuale sistema di istruzione e di formazione italiano è praticamente stabile dagli inizi del secolo e sembra ormai venuto il momento di porre mano ad un intervento riformatore che pur possedendo memoria del passato, prenda atto degli sviluppi della società, delle condizioni presenti e dei possibili sviluppi futuri.
    Si tratta di temi che, per la loro complessità, richiedono, prima della presentazione del necessario provvedimento legislativo, un approfondito confronto. Occorre pertanto chiamare tutti, gli esperti del settore, i docenti, i dirigenti scolastici, ma anche gli uomini di cultura, le famiglie, le forze politiche, le associazioni, le istituzioni del sociale, ad una riflessione dalla quale scaturiscano proposte efficaci ed un dibattito sereno che si svolga nella consapevolezza dell'interesse preminente del nostro Paese e del suo futuro.
    Il presente documento, che si fonda peraltro sul contributo degli studi e delle discussioni condotte in tutte le sedi negli ultimi anni, e tiene conto dei tentativi di riforma che sono stati oggetto di divisioni anche profonde, è la proposta, convinta, ma aperta a tutte le possibili modificazioni, con la quale il Ministro della pubblica istruzione e il Governo intendono avviare nel Paese il dibattito sulla riforma dei cicli dell'istruzione e sulla realizzazione di un sistema integrato di istruzione e di formazione, e si assumono l'impegno, sulla base degli esiti di tale dibattito, di presentare in Parlamento un disegno di legge che tenga conto di tutte le istanze e di tutte le proposte intese a migliorarne la configurazione.

  • La formazione come fattore di sviluppo: necessità di un approccio globale
  • Nel corso degli anni '80 nei paesi industrializzati si è sviluppata la consapevolezza della centralità delle risorse umane: a) come elemento di governo dei fenomeni del cambiamento e della complessità generati dalla mondializzazione dell'economia e dei mercati, dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dal penetrante ruolo dell'informazione, dalle trasformazioni sociali e culturali; b) come strumento per sostenere la crescita economica e la competizione a fronte di uguali livelli di investimento.
    La qualità delle risorse umane disponibili è stata riconosciuta come fattore strategico per lo sviluppo e il mantenimento dei livelli produttivi e occupazionali di ciascun paese.
    Il problema della cultura, dell'istruzione e della formazione, come strumenti per ottenere un'alta qualità delle risorse umane è pertanto emerso in tutta la sua evidenza ed è divenuto il volano di molti interventi riformatori che dalla fine degli anni '80 hanno impegnato molti paesi europei nel perseguimento dell'obiettivo prioritario della "piena scolarità" per la costruzione di un sistema chiamato tendenzialmente a portare tutti i giovani al raggiungimento di risultati formativi concreti. Tali interventi sono stati ovunque supportati da ingenti investimenti finalizzati da un lato al coinvolgimento di tutti i giovani in un percorso formativo utile al raggiungimento di sufficienti capacità e abilità (potenziamento quantitativo delle risorse umane) e dall'altro a rimuovere ostacoli e a valorizzare percorsi di specializzazione e vocazioni di eccellenza (potenziamento qualitativo).
    Le soluzioni adottate non sono state ovunque eguali: l'obbligo fino a 18 anni nel settore della formazione professionale per chi non prosegue nella scuola (Germania, Belgio); obiettivi di produttività prefissati (legge francese del 1989, che si è proposta di portare al diploma almeno l'80% dei diciottenni e, in subordine, un'intera fascia d'età alla qualifica professionale); l'estensione della scolarità verso il basso e verso l'alto (Spagna: sviluppo dell'educazione infantile e obbligo fino a 16 anni); la costruzione di opportunità differenziate dopo l'obbligo, in modo da corrispondere alle aspettative di tutti, favorendo però la possibilità di passaggio da un canale all'altro; interventi contro la dispersione scolastica (si ricordi la risoluzione CEE del 1989).
    Sul piano legislativo la scelta è caduta più frequentemente su grandi leggi quadro di riordino dell'intero sistema (Francia, Spagna, Inghilterra, Belgio) inteso non solo come "riordino funzionale", ma soprattutto come ricerca di nuova qualità.
    Un po' dovunque ci si è mossi nella direzione del decentramento e dell'attribuzione di "autonomia" alle singole unità scolastiche, per consentire un raccordo sempre più forte con il territorio. Nei sistemi che si erano già orientati verso scelte localistiche ci si è mossi invece nella direzione della definizione di standard e momenti organizzati di varia natura a carattere intermedio e nazionale. Dovunque si sono sviluppati sistemi nazionali di valutazione allo scopo di verificare la produttività scolastica, di valorizzare le situazioni di eccellenza e di supportare quelle di disagio. Gli obiettivi generalmente condivisi sono stati: responsabilizzare i vari protagonisti, dando loro maggior ruolo, consolidando il loro consenso; avvicinare i luoghi dell'istruzione alla realtà sociale, culturale, produttiva, occupazionale del territorio; individuare standard generali.
    Oltre a soluzioni di carattere strutturale (opportunità differenziate; curricoli in parte comuni e in parte opzionali) hanno via via acquisito importanza temi e problemi quali la motivazione, l'orientamento, l'apprendimento, la pedagogia del "contratto formativo", la possibilità di personalizzare i percorsi e di tenere conto dei diversi stili cognitivi, la centralità del soggetto in formazione, la valorizzazione delle differenze.
    Anche in Italia il dibattito sulla scuola sviluppatosi nel corso delle ultime legislature ha evidenziato, con grande chiarezza, l'esigenza di un approccio globale al problema dell'istruzione e della formazione, fondato su una riflessione e una prospettiva strategiche, che necessariamente investono anche livelli di istruzione già "riformati".
    I ritardi accumulati dal legislatore italiano nell'affrontare il problema dell'elevazione dell'obbligo scolastico, della riforma della scuola secondaria superiore, del rafforzamento della formazione professionale, del riordino degli studi universitari, sono probabilmente dovuti proprio alla progressiva consapevolezza, forse non compiutamente espressa, ma certamente rinvenibile in tutti i contributi parlamentari e culturali degli ultimi anni, dell'insufficienza di singoli provvedimenti di riordino degli attuali percorsi di istruzione e formazione, fuori da un quadro generale che offra risposte meditate e compiute a tutti gli interrogativi e i problemi ai quali l'attuale sistema ha dato origine. La stessa riforma del 1990 della scuola elementare -l'unica dopo l'istituzione della scuola media unificata (1962 e 1977) e della scuola materna statale (1968)- ha messo in luce, con estrema chiarezza, la necessità di garantire, negli anni della prima formazione, una maggiore continuità educativa ed ha sottolineato la "solitudine" della scuola media, compressa tra le nuove metodologie delle elementari e le metodologie tradizionali della secondaria, punto di snodo di scelte spesso non sufficientemente orientate e, comunque, affidate ad un'età eccessivamente precoce.
    La necessità di elevare istituzionalmente l'età della scolarizzazione obbligatoria, da tutti riconosciuta come ineludibile, ha avuto come esito principale quello di suscitare una riflessione sull'efficacia e la funzionalità dell'intero sistema. E' sembrato infatti piuttosto problematico innestare l'elevamento dell'obbligo su un sistema che manifesta forti penalizzazioni e un elevato tasso di dispersione scolastica proprio nel primo anno della scuola secondaria.
    Si è inoltre consolidato il convincimento che il solo ridisegno istituzionale non è sufficiente e che occorre preliminarmente dare risposte di qualità ad alcuni quesiti.
    Cos'è oggi la "cultura generale"? Quali sono gli elementi, i requisiti, le qualità che la compongono? Sussiste ancora la contrapposizione tra "cultura e professione"?
    Quali sono i risultati in termini di conoscenze culturali, di sapere tecnico, di sapere pratico, che devono competere ai vari cicli, indirizzi, comparti?
    Quali sono gli obiettivi quantitativi, da coniugare con quelli qualitativi, che il Paese ritiene necessari per garantire e sorreggere lo sviluppo e che debbono pertanto essere indicati come obiettivi irrinunciabili al sistema dell'istruzione?

  • Quadro di riferimento e linee guida della riforma
  • In un mondo nel quale l'evoluzione dell'organizzazione sociale e del lavoro fa presumere che ciascun individuo, nel corso della propria esistenza, sia chiamato a cambiare più volte la propria attività lavorativa, è evidente che la pretesa della scuola di consegnare saperi, abilità e capacità definitive deve essere in parte abbandonata e che si deve, invece, puntare allo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere i problemi; occorre inoltre che il sistema dell'istruzione perda la sua caratteristica di struttura fortemente piramidale, dove ogni ciclo di studio ha funzione fondamentalmente propedeutica rispetto ai cicli successivi, per assumere una struttura modulare nella quale ogni segmento identifichi precise soglie da raggiungere e consolidi risultati spendibili in termini culturali, scienticici e professionali. Solo una struttura siffatta può garantire l'apertura del sistema dell'istruzione a momenti diversificati di approfondimento e di specializzazione e la sua valorizzazione come risorsa utilizzata in modo sinergico con la formazione professionale e con le altre offerte culturali.
    L'innalzamento della qualità del sapere richiede, poi, necessariamente, una rinuncia alla quantità eccessiva delle nozioni. In una società traboccante di informazioni e risorse culturali la scuola oltre alla funzione fondamentale di fornire un approccio sistematico alla conoscenza, deve offrire ai giovani le chiavi per la lettura dei dati, la capacità di orientarsi e di appropriarsi degli elementi necessari per la crescita, per l'impostazione dei problemi, per la scelta dei settori ai quali dedicare un approfondimento.
    Ciò comporta necessariamente una riduzione quantitativa dei "contenuti" in favore di un maggiore approfondimento dei "nuclei fondanti" delle diverse discipline e degli strumenti per svilupparne ulteriormente l'esplorazione e la conoscenza e accrescere le relative capacità.
    La capacità di apprendimento deve essere potenziata e sviluppata per favorire la crescita di autonomie individuali capaci di riconversione professionale e di apertura alle evoluzioni dei saperi nel corso dell'intera vita. E' questa, peraltro, una scelta che ha trovato già valide risposte in importanti esperienze della scuola secondaria superiore.
    La consapevolezza di questo insieme di problemi, mai affrontati in un disegno complessivo, ha costituito un potente freno alla produzione normativa, causando un forte ritardo nei confronti degli altri paesi europei.
    Tale ritardo, ove non ulteriormente esasperato, potrebbe anche rivelarsi un fatto positivo in quanto consentirebbe di evitare alcuni errori di impostazione, facendo tesoro non solo delle esperienze, ma anche degli errori commessi da altri Paesi nella prima fase della riforma.
    Una riflessione e una prospettiva strategica non possono infatti prescindere da quanto è già in atto negli altri Paesi europei, specie in un momento storico nel quale la creazione di un mercato monetario unificato fa risaltare le prospettive di mobilità e di interscambio sottolineandone l'attualità e la concretezza.
    Sarebbe peraltro inutilmente pessimista ritenere che l'Italia sia all'anno zero. La realtà ha precorso, per molti profili, l'intervento del legislatore e la scuola, utilizzando lo strumento della sperimentazione, unico elemento vero di flessibilità che abbia caratterizzato gli ultimi decenni, ha già individuato vie, percorsi alternativi, soluzioni, ipotesi che attendono solo di essere compresi, valorizzati e riordinati in un sistema complessivo che, superando gli invalicabili ostacoli frapposti da alcune rigidità normative, raggiunga lo sviluppo naturale al quale l'intensa attività di docenti, direttori didattici, presidi, associazioni, l'ha già predisposto.
    La stessa attribuzione di autonomia didattica e organizzativa alle istituzioni scolastiche favorisce un processo di sburocratizzazione e di valorizzazione della collaborazione con altre agenzie formative che nei fatti è già in atto da molto tempo e che ha visto negli interventi per il recupero della dispersione, in quelli per lo sviluppo della salute, in quelli per l'attuazione di iniziative integrative e complementari, la realizzazione di percorsi e di soluzioni diversi rispetto a quelli tradizionali.
    Se poi si guarda alla intera scolarizzazione, si deve registrare che nel paese c'è stata una forte spinta alla sua complessiva estensione sia verso il basso (scuola materna), sia verso l'alto (scuola secondaria).
    Occorre ora fare uno sforzo di sintesi, traendo dalla realtà ciò che di meglio essa ha prodotto ed impostando una complessiva politica della istruzione e della formazione che riorganizzi in un sistema unitario e coerente ciò che il lavoro di migliaia di operatori della scuola ha già individuato come linea di sviluppo del sistema.

  • Gli obiettivi di Fondo
  • Le considerazioni fin qui espresse convergono nella necessità di dare vita da un intervento di grande respiro volto alla modernizzazione del sistema complessivo dell'istruzione e della formazione, considerato come strumento essenziale per le politiche di sviluppo sociale, culturale, economico e dell'occupazione e fattore indispensabile per garantire la crescita e la competitività del Paese.
    In questa prospettiva gli obiettivi di fondo, frutto di un dibattito ormai decennale, si possono ritenere ormai da tutti condivisi e possono essere così sintetizzati:
    -l'innalzamento dei livelli culturali e scientifici generali; -la crescita di abilità e capacità professionali e di una moderna cultura professionale;
    -lo sviluppo di una cultura fondata sulla tolleranza, la valorizzazione delle differenze e i valori del pluralismo e della libertà;
    -la crescita della coscienza democratica e la realizzazione di una cittadinanza piena e consapevole.
    Anche su talune scelte di percorso si può ormai registrare un consenso pressoché generale:
    -l'elevazione della durata della scolarità obbligatoria da otto a dieci anni;
    -l'affermazione e l'attuazione in tempi ravvicinati del diritto alla formazione fino al diciottesimo anno di età, per consentire a tutti i giovani di conseguire un diploma o una solida qualifica professionale;
    -la valorizzazione della professionalità degli operatori della scuola e della formazione e la valorizzazione di tutte le componenti nel governo e nella gestione delle istituzioni scolastiche e formative;
    -la realizzazione di un sistema di valutazione capace di supportare l'autonomia scolastica e di individuare i necessari interventi perequativi per uno sviluppo armonico ed unitario dell'intero sistema scolastico nazionale.
    A partire da tali convergenze, nelle pagine che seguono si analizzano più in dettaglio le varie fasi dell'istruzione e si elabora una complessiva proposta, che si affida al dibattito generale del Paese.

    N. B. Per una lettura più agevole dell'intera proposta e per un suo raffronto con l'attuale ordinamento e con gli ordinamenti dei maggiori Paesi europei, sono state predisposte quattro tabelle, che si allegano al presente documento.

    1. La scuola di base

    La distinzione dell'istruzione scolastica in tre livelli, elementare, media e secondaria superiore, è quasi del tutto scomparsa nell'Unione europea. In alcuni paesi (Danimarca, Finlandia, Portogallo, Spagna, Svezia) esiste un primo livello di scuola di base della durata di 7, 8 o 9 anni, che comprende i vecchi livelli della scuola elementare e media. In altri paesi (Austria, Belgio, Germania), dopo la scuola elementare (primaria) si accede alla scuola secondaria. In Gran Bretagna è in corso una riforma per il passaggio dal secondo al primo modello, con l'introduzione di una scuola di base da 5 a 14 anni.
    In Francia l'insegnamento primario si indirizza agli alunni da 6 a 12 e si svolge in 6 anni ripartiti in tre gradi di due anni ciascuno.
    Nella maggior parte dei paesi europei l'obbligo scolastico "a tempo pieno" dura fino all'età di 16 anni. In Belgio, Olanda, Germania, all'obbligo "a tempo pieno" segue un periodo di obbligo "a tempo parziale" fino al 18° anno di età.
    La riforma della scuola media, introdotta in Italia nel 1962, avrebbe dovuto trovare un completamento nella riforma della scuola secondaria. Non essendosi ciò verificato, si è prodotto un elemento di discontinuità e di frattura nel percorso della scuola di base e nei confronti della secondaria; discontinuità che la riforma del primo segmento (elementare) e la mancata riforma dell'ultimo (secondaria) ha vieppiù evidenziato.
    Al di là dei problemi di architettura di sistema, occorre ricordare che l'evoluzione dell'approccio ai problemi della formazione, unito alle nuove conoscenze pedagogiche, psicologiche e sociologiche ha determinato, anche in Italia, col trascorrere degli anni, uno spostamento sempre più sensibile dai temi dell'insegnamento a quelli dell'apprendimento e che l'approfondimento dei temi connessi all'età evolutiva ha posto vieppiù l'accento sulle esigenze di flessibilità, di continuità e di gradualità legate al rispetto dei ritmi naturali di apprendimento degli alunni.
    Questa maggiore sensibilità ha fatto risaltare con chiarezza la vetustà di una concezione fondata sugli "ordini e gradi di istruzione" in favore di una concezione nella quale siano definiti "finalità" ed "obiettivi", rispetto ai quali l'organizzazione didattica delle discipline divenga uno strumento flessibile per l'accrescimento costante della qualità dell'offerta formativa.
    L'autonomia didattica e organizzativa consentiranno di realizzare le necessarie flessibilità, ma non garantiranno di per sé il raggiungimento delle finalità di apprendimento se non saranno accompagnate da una riforma strutturale che garantisca la complessiva unità del percorso della nuova scuola di base e dell'intera scuola dell'obbligo, prendendo ispirazione dai naturali ritmi di crescita degli alunni, individuando progressivi obiettivi formativi, il cui raggiungimento sia costantemente verificato. In tal senso i programmi ministeriali dovranno trasformarsi da individuazione di contenuti a individuazione di obiettivi e di standard di apprendimento, intesi non come "contenuti standardizzati", bensì come livelli differenziati di raggiungimento degli obiettivi formativi. I percorsi della scuola elementare e media potrebbero costituire un unico segmento formativo, suddiviso in scansioni temporali (ad esempio biennali), all'interno delle quali si potrebbero introdurre momenti non traumatici di verifica dei risultati, lasciando agli alunni i tempi necessari per eventuali riprese, accelerazioni di maturazione, etc., e fornendo loro, ove necessario, sostegni personalizzati.
    Una scuola di base unificata eviterebbe, tra l'altro, la ripetizione di identici programmi in spazi temporali ristretti (si faccia l'esempio della storia: tre anni di elementari e tre di medie per studiare daccapo, dalla preistoria alla seconda guerra mondiale, tutti gli eventi) e consentirebbe la costruzione di percorsi meno compressi, con possibilità maggiori di arricchimenti e approfondimenti.
    Il problema della scuola di base è anche quello della sua durata, che ha rilievo sia in relazione alla durata complessiva degli studi, che in relazione all'età del passaggio nella scuola superiore, che dovrebbe, per quanto possibile, riflettere il transito naturale da interessi più propriamente infantili a interessi pre-adulti.
    Si è molto discusso sull'opportunità di anticipare di un anno l'ingresso nella scuola elementare, al fine di consentire ai ragazzi di lasciare il sistema scolastico al compimento della maggiore età, analogamente a quanto avviene negli altri paesi dell'unione europea.
    Il problema è stato probabilmente mal posto e le soluzioni finora prospettate risentono più del timore di ridurre il numero complessivo di anni di scuola da 13 a 12, per i riflessi che questo potrebbe avere sul personale docente, che di una riflessione approfondita.
    Si deve ricordare che l'anticipo dell'ingresso nella scuola elementare al quinto anno di età è stato introdotto solo in Gran Bretagna e in Olanda (in Grecia fra il quinto ed il sesto anno);
    in realtà nella maggior parte dei paesi europei l'età della scolarità obbligatoria inizia col sesto anno di età e vi sono perfino paesi (Svezia, Islanda, Norvegia) che solo recentemente hanno deciso di abbassare da 7 a 6 anni la data di ingresso nel sistema scolastico. Ci sono due considerazioni che non possono essere ignorate: la permanenza degli ultradiciottenni nel sistema scolastico, improntato a regole di disciplina e a ritmi poco adatti a giovani uomini e donne già capaci di autonome scelte, non giova né a loro né al sistema scolastico nel suo insieme; l'ingresso troppo precoce in un sistema scolastico fondato sull'orario di insegnamento e sulla disciplina di classe può non corrispondere alle esigenze del corretto sviluppo della generalità dei bambini.
    Se si prende atto di queste difficoltà, la soluzione più efficace può consistere nella costruzione di un ciclo primario di sei anni, suddiviso in tre bienni, complessivamente sostitutivo delle attuali elementari e ai primi due anni della scuola media, riducendo di un anno la durata complessiva degli studi e lasciando ferma a sei anni l'età dell'ingresso nella scolarizzazione vera e propria.
    Se a tale riduzione corrispondesse una generalizzazione della scuola dell'infanzia, da attuarsi rendendo obbligatoria la frequenza almeno dell'ultimo anno -da intendersi come anno preparatorio- (e così portando la durata complessiva della scuola di base a 7 anni, articolati in un anno del ciclo dell'infanzia e in sei anni di ciclo primario), lasciando pertanto alla scuola dell'infanzia stessa il compito della prima scolarizzazione intesa come capacità di integrazione nel gruppo classe, di svolgimento di attività in comune, di libero sviluppo delle capacità naturali, di sostegno ad eventuali difficoltà, il passaggio alla nuova organizzazione dei cicli sarebbe probabilmente più agevole e consentirebbe anche l'introduzione di momenti di flessibilità riferiti alle esigenze individuali, in un raccordo costante tra docenti e genitori che favorisca l'unitarietà del processo educativo iniziale. A tal proposito è utile ricordare che l'estensione della scolarità verso il basso, attuata da taluni paesi europei, ha lo scopo di prevenire per tempo le diseguaglianze e i rischi di insuccesso scolastico. In tal modo la durata complessiva degli studi continuerebbe ad essere di tredici anni, ma sarebbe affidato all'ultimo anno del ciclo dell'infanzia il compito, che peraltro essa gia svolge in gran parte, di preparare la totalità dei bambini ai "ritmi" della scuola, in modo che la prima classe del ciclo primario si rivolga ad alunni già pronti, con evidenti riflessi positivi sull'organizzazione e i tempi del successivo insegnamento.
    Ai primi due bienni successivi alla scuola dell'infanzia dovrebbe essere affidato il compito di provvedere alla alfabetizzazione culturale, tenendo conto che questa, oltre ai tradizionali "leggere, scrivere e far di conto" e alla formazione di corretti collegamenti spazio-temporali, comprende, nella società attuale, anche un primo avvicinamento alle tecnologie informatiche, l'apprendimento di una lingua straniera, etc. In questi due bienni dovrebbe essere favorita la progressiva presa di coscienza critica del mondo circostante (attitudine alla curiosità e ad apprendere) e dei propri diritti e doveri (accettazione delle differenze, imparare a cooperare).
    All'ultimo biennio della scuola di base dovrebbe essere affidato il compito di consolidare le competenze, abilità e conoscenze acquisite nell'obiettivo di rafforzare i metodi dell'apprendimento, incoraggiando l'autonomia dei singoli verso l'approfondimento e sollecitando da parte degli alunni una richiesta di saperi sempre più articolata.
    Il passaggio nella scuola secondaria dovrebbe avvenire al termine dell'ultimo biennio, i cui risultati dovrebbero essere verificati con modalità diverse da quelle del tradizionale esame, alla conclusione del dodicesimo anno di età (e dell'infanzia vera e propria) e all'inizio di quella che, per la generalità dei ragazzi e delle ragazze, viene genericamente definita l'età dello sviluppo.
    Per quanto riguarda gli insegnanti della scuola elementare eventualmente in esubero, si deve ricordare che una riforma di questa portata si attua gradualmente e che si potrebbe sperimentare una utilizzazione degli insegnanti eccedenti per un'assistenza programmata, nel biennio successivo alla scuola dell'infanzia, agli alunni che mostrino maggiori difficoltà di decollo e, comunque, per la copertura totale delle necessità di supplenza; prevedere una accelerazione dei programmi di formazione degli insegnanti di seconda lingua; favorire la mobilità professionale degli insegnanti già muniti di titolo di studio adeguato verso l'ultimo biennio della scuola primaria (l'obiettivo finale è, peraltro, quello di avere insegnanti laureati in tutto il ciclo).Una utilizzazione ricca di potenzialità e di importanza intrinseca è inoltre lo sviluppo di un adeguato sistema di educazione ricorrente, per gli adulti, la metà dei quali è ancora priva di licenza media.
    Gli insegnanti della scuola media dovrebbero confluire per due terzi nella scuola primaria e per un terzo nel primo triennio della scuola secondaria. Anche in questo caso il passaggio potrebbe avvenire gradualmente, inizialmente solo nel primo anno e successivamente, per mobilità professionale anche negli altri due anni del primo triennio.
    Si deve inoltre ricordare che, in un sistema così riformato, diventa di vitale importanza poter disporre, di figure di sistema che svolgano funzione di tutoraggio, di aiuto e di sostegno nelle scelte, al fine di realizzare un sistema di orientamento concreto. Gli insegnanti della scuola elementare e media con adeguata preparazione in questo senso potrebbero trovare agevole collocazione in tali funzioni.

    2. La scuola secondaria

    Storicamente la scuola secondaria non è nata come scuola di istruzione di base, ma come canale di accesso alle professioni o diretto (attraverso i titoli di studio abilitanti) o indiretto (come preparazione all'Università) e, in definitiva, come strumento per la preparazione della classe dirigente.
    In Italia, come in Francia e in Germania, i licei hanno svolto la funzione di preparare agli studi universitari e all'esercizio delle professioni cosiddette "liberali" e, in una certa misura, hanno segnato una demarcazione tra strati sociali.
    Le riforme adottate dai paesi industrializzati dopo il secondo conflitto mondiale hanno abbandonato questo approccio, che è stato mantenuto solo dall'Austria e dalla Germania. Le modifiche sono andate nella direzione di prolungare la funzione della istruzione di base non professionalizzante, di integrare il sistema scolastico con organici sistemi di formazione professionale, di delegare molta della preparazione agli studi superiori ai primi anni di università. Questo indirizzo ha raggiunto la sua massima espressione nei sistemi anglosassoni (Inghilterra e Stati uniti), dove i primi anni universitari non si distinguono molto dalla formazione liceale italiana o francese. Anche in Germania e in Austria, dove il sistema dei licei è rimasto immutato, l'insegnamento dei primi anni di università si è notevolmente semplificato perché nella società moderna, con la scolarizzazione di massa, la funzione della scuola secondaria si è necessariamente ridimensionata. La Germania ha peraltro dato vita ad un sistema duale, o di doppio canale, che vede integrato nel percorso scolastico un percorso forte di formazione professionale.
    Il modello italiano è rimasto sostanzialmente l'unico in Europa che non si è adattato allo sviluppo industriale; il concetto di formazione professionale ha stentato e stenta a decollare ed è comunque considerato inferiore al concetto di formazione culturale, tanto che mentre l'accesso alle professioni, ormai in quasi tutti i paesi del mondo, avviene attraverso rapporti diretti col mondo delle professioni e con l'esercizio pratico del mestiere all'interno del curricolo di formazione, in Italia il momento della formazione è costantemente rinviato, al punto che la gran parte dei laureati non ha mai avuto esperienze di formazione o di tirocinio.
    Una delle preoccupazioni più spesso rappresentate dagli intellettuali più legati alla tradizione con riguardo alla trasformazione del sistema formativo italiano concerne il rapporto tra "cultura" e "professionalità".
    In realtà tale distinzione (come quelle tra teoria e pratica, lavoro intellettuale e lavoro manuale, ecc.) ha perso molto del suo significato da quando si è cominciato a riconoscere che, di fatto, in ogni livello e in ogni settore della vita lavorativa esistono componenti culturali e professionali. Dovunque sono necessarie conoscenze, abilità e, come si dice oggi, "competenze"
    .Elemento connaturale alla professionalità è il potere di controllo e di direzione che il singolo e il gruppo hanno sul contesto lavorativo in cui sono inseriti, ovvero la responsabilità che ciascuno assume nella vita sociale e lavorativa. Le differenze che si riscontrano tra i vari livelli e settori sono più quantitative (quanto di autonomia, di controllo, di complessità; quanto di conoscenze, informazioni, abilità tecniche, operative) che qualitative. All'interno di ciascun livello e settore risaltano invece le differenze qualitative, che demarcano le differenze individuali a parità di conoscenze, abilità e responsabilità.
    Si è inoltre constatato che fattore determinante per la crescita della professionalità è il contesto lavorativo, che assume forte vocazione formativa soprattutto in sistemi come quello statunitense e giapponese, nei quali si è sviluppato fortemente il discorso sul "controllo di qualità" e sulla "qualità totale".
    In tale visione si è compreso che la qualità dipende da una grande varietà di fattori e dal grado di responsabilità di ciascuno in ogni settore e ad ogni livello; e si è verificato che il raggiungimento di un grado soddisfacente di responsabilità presuppone necessariamente una adeguata "formazione culturale" supportata da una corretta filosofia ed etica del lavoro.
    L'armonizzazione fra preparazione cosiddetta culturale e preparazione cosiddetta professionale è oggi un problema che interessa ogni livello di formazione, dalla scuola elementare all'università ed oltre, in una prospettiva di educazione permanente che tenga conto del dato di fatto che non esiste più una società nella quale prima si studia e poi si lavora per tutta la vita, magari sempre nello stesso posto di lavoro. Esistono comunque già valide esperienze, in particolare nell'istruzione professionale, dirette ad utilizzare in vario modo gli insegnamenti generali per il rafforzamento della cultura professionale.
    Occorre superare la concezione in base alla quale certa cultura ha carattere "disinteressato", mentre altra è finalizzata esclusivamente alla applicazione lavorativa, per giungere ad una visione complessiva ed equilibrata della formazione, nella quale si recuperi la centralità dello studente nella sua esigenza di crescita culturale e di crescita nelle relazioni sociali e professionali.
    Occorre anche superare la concezione che certi contenuti culturali siano "riservati" a certi tipi di studi, con esclusione di ogni possibile interconnessione, mentre occorre coraggiosamente imboccare la via che riconosce l'esistenza di forti analogie tra studi apparentemente molto dissimili (si citi come solo esempio il caso classico della musica e della matematica) lasciando all'interno del sistema elementi di flessibilità che consentano, nelle scelte opzionali, la libertà di abbinamenti culturali e professionali che aprano la via anche a strade fino ad oggi inesplorate.
    In questa visione anche la ricorrente discussione sul liceo classico può trovare interessanti soluzioni che pur confermandone la tradizionale funzione di strumento di acquisizione di conoscenze consolidate (il "deposito culturale") ne accentui quella di conoscenza delle culture antiche (e non solo greca e romana), nei rapporti tra tali culture, nell'indagine archeologica, filologica, bibliografica, linguistica e storica, al fine di sviluppare capacità critiche, di indagine e di confronto, con metodi che all'apprendimento passivo affianchino la ricerca e l'intento interpretativo. Anche il liceo classico, accanto alla principale finalizzazione della propedeuticità agli studi ulteriori, potrebbe pertanto assumere una connotazione anche professionalizzante -da sviluppare, come per altro negli altri indirizzi, negli studi post-secondari-, nella direzione di offrire agli studenti metodi di studio e capacità operative di ricerca, di analisi e di sintesi tali da stimolare lo sviluppo di competenze e abilità definite, che possano fondare livelli di responsabilità e di autonomia individuali.
    E' comunque evidente che la scuola italiana deve uscire dall'ambiguità ed imboccare con decisione una strada che la caratterizzi e le restituisca pienamente la sua funzione di formazione delle future leve della società e di preparazione del loro ingresso nel mondo del lavoro ai diversi livelli.
    Perché ciò possa realizzarsi occorre fare lo sforzo di costruire un sistema che fino ad una certa età consolidi un quadro di conoscenze fondamentali per gli sviluppi formativi successivi e favorisca la conoscenza delle possibili opzioni e la corretta impostazione delle scelte attraverso un orientamento progressivamente più mirato e, da una certa età in poi favorisca l'approfondimento esplicito delle scelte, pur senza pregiudicare la possibilità di evoluzioni future.
    Ciò che sembra importante è che sia gli anni dell'orientamento (con tale termine intendendosi gli anni nei quali è maggiormente favorita la mobilità tra i vari indirizzi in relazione ai problemi connessi alla maturazione ed alla crescita) che quelli terminali degli studi siano attratti nella scuola secondaria, al fine di sottolinearne la valenza adulta e l'importanza formativa.
    La scuola secondaria potrebbe pertanto dividersi in due segmenti, la scuola dell'orientamento e la scuola superiore, ciascuno di durata triennale.

    2a. La scuola dell'orientamento e la conclusione dell'obbligo scolastico

    Il primo triennio della scuola secondaria cade, nell'ipotesi in esame, esattamente nell'età (13-15 anni) in cui i ragazzi e le ragazze, in piena trasformazione, cominciano ad essere pronti a compiere scelte di vita.
    E' essenziale, in questo periodo, porli davanti a grandi opzioni su percorsi predeterminati e tollerare il maggior numero di ripensamenti compatibili con una evoluzione che li conduca all'individuazione di ciò che veramente è loro conforme. E' altrettanto essenziale che il ventaglio delle possibili opzioni sia loro offerto nel modo meno teorico possibile, nel senso che "l'orientamento" non deve essere una riflessione su ciò che si potrebbe fare in astratto, ma deve sostanziarsi in un incontro concreto con diverse discipline e attività, tra le quali scegliere. In questa fase occorre attribuire ai genitori un ruolo attivo, informandoli quanto più possibile sul carattere e sulle finalità delle opzioni, al fine di consentire loro il pieno esercizio dei compiti educativi.
    Il primo anno, di necessità, è il più difficile da immaginare e organizzare. I giovani, appena usciti dalla formazione di base, hanno davanti a sé tutte le possibilità: dalle lettere al giardinaggio, dalle scienze ai trasporti, dall'arte allo sport.
    La differenza di genere, prima solo immaginata ed intuita, diviene una realtà di vita.
    E poiché non è immaginabile che si possa fare "tutto insieme di tutto un po'", diventa inevitabile che accanto allo studio di alcune materie definite fondamentali (che tali restino per tutta la durata della scuola secondaria), che riprendano e consolidino ulteriormente le acquisizioni della scuola primaria, sia loro offerto un ventaglio più allargato di grandi opzioni e dei corrispondenti percorsi (a titolo puramente esemplificativo si potrebbe pensare ad una parte dell'orario da impiegare in corsi mensili, bimestrali, trimestrali; a esperienze organizzate in collaborazione con agenzie esterne; a qualsiasi iniziativa che le istituzioni scolastiche programmino con riferimento alla realtà territoriale).
    Col secondo anno della scuola secondaria dovrebbe iniziare un orientamento più mirato, da realizzare in un percorso predeterminato nel senso che il ragazzo sarebbe invitato a scegliere tra diversi indirizzi (ad esempio: artistico, classico, scientifico, tecnico, professionale) già nettamente caratterizzati e con i quali ha avuto primi, esemplificativi contatti, nel primo anno. Per evitare che un errore di scelta possa tradursi nella perdita di un anno, si potrebbe anche organizzare il biennio in segmenti di durata quadrimestrale (o inferiore), prevedendo che per la conclusione dell'obbligo ne debbano essere complessivamente frequentati quattro (o più), con possibilità di passare dall'uno all'altro, di compensare eventuali carenze in quello successivo attraverso l'introduzione del "debito scolastico" e il sostegno del tutor e, ove tutto ciò sia ancora insufficiente, di ripetere solo un segmento invece che l'intero anno scolastico.
    E' immediatamente evidente che un'organizzazione di questo tipo rende necessaria l'introduzione di figure di sistema necessarie per supportare le scelte, gli eventuali ripensamenti e passaggi. Sempre nell'ambito del nuovo obbligo scolastico (di durata decennale) un ulteriore elemento di grande novità potrebbe essere costituito dall'apporto che il sistema della formazione professionale potrebbe dare alla realizzazione degli obiettivi della riforma. Tale apporto -previsto esplicitamente dall'Accordo sul lavoro del 24 settembre 1996- potrebbe sostanziarsi nell'arricchimento della valenza orientativa e in particolare nell'offerta di moduli improntati al "fare" e al "saper fare", nella predisposizione di percorsi integrativi di quelli scolastici per gli studenti che volessero optare -ferma restando la frequenza degli insegnamenti scolastici fondamentali- verso una scelta di maggiore professionalizzazione nel corso degli ultimi anni di obbligo. Quest'ultima possibilità potrebbe essere realizzata attraverso convenzioni con centri di formazione che abbiano requisiti predeterminati e diano anche le necessarie garanzie culturali, continuando le scuole a seguire gli alunni attraverso i tutor e facilitando sempre, ove richiesto, il ritorno nella scuola.
    Per gli alunni che abbiano intenzione di lasciare gli studi al termine della scuola dell'obbligo, ma non abbiano interesse a transitare subito nella formazione professionale (magari nella prospettiva di riprendere successivamente gli studi), potrebbero inoltre immaginarsi iniziative integrative e complementari, anche realizzate in convenzione con agenzie della formazione, con associazioni ed enti operanti sul territorio, con l'obiettivo di fondare prime capacità lavorative in relazione alle esigenze del mercato del lavoro locale.
    Al termine del terzo anno gli studenti, ivi compresi quelli che hanno frequentato nell'ultimo anno i corsi di formazione professionale, dovrebbero sostenere il primo esame di Stato: la licenza della scuola dell'obbligo.
    Tale licenza dovrebbe dare accesso agli ulteriori studi, all'attività lavorativa e ai corsi di formazione professionale e dovrebbe compiutamente attestare le conoscenze e le abilità acquisite.

    2b. La scuola superiore

    In armonia con quanto detto sopra, il triennio finale della scuola secondaria (15-18 anni) dovrebbe avere carattere professionalizzante, nel senso di offrire agli studenti indirizzi corrispondenti a grandi aggregazioni culturali-professionali, il cui numero, nelle ricerche svolte sulle professioni in altri paesi (e in Italia dall'ISFOL) varia da 7 a 11. Sono quelle che in Gran Bretagna vanno sotto il nome di "famiglie occupazionali".
    La vera novità del triennio finale dovrebbe consistere nell'avvicinamento progressivo al mondo del lavoro e nella possibilità di cominciare ad esercitare talune capacità, ad esplorare talune vocazioni, a formarsi un quadro complessivo dell'organizzazione degli studi universitari e della formazione avanzata, a compiere talune esperienze lavorative. Le aree di progetto e gli stages potrebbero essere il vero settore nel quale l'autonomia delle istituzioni scolastiche realizzi, nel rispetto degli obiettivi e degli standard nazionali, collegamenti con le realtà culturali, scolastiche, formative e produttive locali.
    La formazione di "tradizioni" proprie delle singole istituzioni incoraggerebbe tra loro una concorrenza non basata solo su dati quantitativi, ma anche su dati qualitativi e stimolerebbe l'interesse dei giovani a muoversi maggiormente sul territorio, con un complessivo arricchimento degli scambi culturali. Se a tutto ciò, nello sviluppo dell'autonomia, si accompagnasse un potenziamento della circolazione delle informazioni all'interno del sistema scolastico e la nascita di abitudini di concertazione territoriale, di iniziative comuni, di articolazione in reti tra loro complementari, si potrebbe giungere a realizzare forme di interscambio che garantiscano il riequilibrio territoriale.
    Al termine del triennio dovrebbe sostenersi l'esame di Stato per il conseguimento del titolo di studio finale, col quale si potrebbe accedere all'istruzione universitaria, ai corsi di istruzione post-secondaria e ai corsi di formazione professionale avanzata.
    Naturalmente il diploma finale di una scuola siffatta dovrà indicare le conoscenze e le abilità raggiunte.
    Al fine di non disperdere nessuna esperienza e di facilitare la costruzione di curricoli personali "spendibili" ed il passaggio dalla scuola alla formazione professionale sarebbe altresì opportuno che al termine di ciascun anno fosse rilasciato a ciascuno studente un documento personale che certifichi le competenze acquisite.

    3. L'istruzione post-secondaria

    L'Italia è l'unico paese al mondo che abbia, come istruzione superiore, cioè post-secondaria, l'Università come canale pressoché esclusivo di formazione. Per di più il modello universitario italiano è ancora fortemente caratterizzato dalla trasmissione di un sapere quasi esclusivamente accademico, cioè di tipo cognitivo, nel quale si presta ancora poca attenzione agli strumenti, ai metodi, alle tecniche e, quindi, alle abilità ed alle competenze operative e professionali che implicitamente vengono trasferite dai docenti ai discenti.
    Un altro aspetto peculiare è la mancanza di una vera articolazione dei curricoli: ancora oggi la laurea è il livello decisamente prevalente, quando ormai in quasi tutti i paesi occidentali il primo livello (under-graduate) è quello che qualifica il maggior numero di studenti; inoltre i curricoli di studio spesso sono costruiti senza una previa definizione delle finalità formative.
    Le resistenze al cambiamento sono tipiche del mondo accademico anche in altri paesi, dove, talvolta, mutamenti nella struttura e nella vita dell'istruzione superiore sono stati di recente imposti dai governi (Gran Bretagna, Francia e Belgio) o favoriti da una radicale de-regulation (Spagna e Portogallo).
    Uno dei problemi più evidenti della crisi dell'Università italiana è l'elevato tasso di insuccesso, ma ciò può essere facilmente spiegato dall'assenza di altri canali formativi.
    Non esiste tra l'altro, all'interno delle Università italiane, attenzione al mondo dei servizi, soprattutto di quelli maggiormente legati ai valori della persona: è in via di organizzazione la formazione professionale degli insegnanti; è grandemente carente quella degli operatori dei servizi sociali e sanitari; manca totalmente nei settori dell'organizzazione della pubblica amministrazione, della giustizia, della ricerca, dell'editoria, dei beni culturali, dell'arte, dello spettacolo; è ancora gravemente lacunosa la formazione nel settore dell'informazione; è inesistente quella nel settore della valutazione della qualità dei servizi.
    I modelli europei di riforma dell'istruzione superiore ruotano tutti attorno al problema di cui si è parlato prima con riferimento alla scuola secondaria: la risposta che l'istruzione superiore deve dare ai bisogni della società e l'equilibrio fra formazione culturale e formazione professionale. In alcuni paesi dove esisteva una lunga tradizione di distinzione fra le Università e gli altri istituti di formazione superiore più finalizzati (Gran Bretagna, Germania, Svezia e, in parte, Francia e Spagna) si tende a riaccorpare all'interno delle università le funzioni di formazione alle professioni superiori prima svolte da questi istituti. Le decisioni, spesso, sono motivate da ragioni finanziarie, ma in ogni caso spingono le istituzioni più professionalizzanti ad aprirsi ai problemi della formazione culturale e della ricerca scientifica e, viceversa, spingono le università ad aprirsi alle necessità di formazione alle professioni. Al contrario, in altri paesi anche molto diversi fra loro (Austria, Finlandia, Grecia) è stata presa la recente decisione di creare, a fianco delle università, istituti superiori per la formazione professionale, sul modello di quelli in via di estinzione altrove. Ciò in parte dipende da differenze storiche, culturali ed economiche, ma in molti casi dipende dalla resistenza più o meno forte del mondo accademico alle riforme che la società ritiene ormai improrogabili.
    In Italia l'unica esperienza veramente moderna valutabile di istituti di istruzione post-secondaria non universitaria è rappresentata dalle Accademie di Belle Arti e dagli Istituti superiori per l'industria artistica. Questi ultimi, in particolare, di recente istituzione (a Roma, Firenze, Urbino e Faenza), e con spiccati tratti professionalizzanti, hanno raggiunto elevati livelli qualitativi e rappresentano anche una lodevole eccezione per quanto riguarda la facilità con cui trovano occupazione gli studenti che vi si diplomano.
    Negli anni più recenti, all'interno del sistema scolastico sono stati sperimentati anche corsi di istruzione post-secondaria che hanno assunto particolare ampiezza nel Mezzogiorno, grazie a specifiche collaborazioni avviate tra singole Regioni e Ministero della Pubblica Istruzione, nell'ambito spesso delle iniziative cofinanziate dall'Unione Europea.
    Il recente accordo per il lavoro sottoscritto dal Governo il 24 settembre 1996 con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro ha creato le condizioni per un sistemico sviluppo delle iniziative di integrazione del sistema scolastico e produttivo e di quello regionale.
    Ferma restando infatti la competenza delle Regioni ad individuare i requisiti perché un percorso formativo possa comportare il rilascio di una vera e propria qualifica professionale, il Comitato dei Ministri per le politiche della formazione istituito con DPCM del 18 novembre 1996, potrà offrire la sede per il protagonismo nel segmento formativo del post-secondario di nuovi soggetti istituzionali e prima fra tutti, della scuola, che specialmente attraverso l'istruzione professionale ha accumulato esperienze e capacità meritevoli di essere valorizzate.
    Solo attivando percorsi alternativi agli studi universitari potrà, tra l'altro arginarsi il fenomeno delle eccessive iscrizioni all'università, determinato proprio dalla mancanza di opzioni diverse. E solo attraverso tali percorsi si potrà in gran parte recuperare tutta la dispersione formativa conseguenza degli insuccessi universitari.
    Occorre peraltro che i nuovi canali di istruzione post-secondaria siano calibrati sulle richieste effettive del mercato, italiano ed europeo, evitando di ingenerare ulteriori illusioni, e impegnandosi perché essi mantengano livelli culturali e formativi adeguati. Perché ciò possa realizzarsi essi dovrebbero innanzitutto perdere le caratteristiche più propriamente scolastiche e le rigidità dell'insegnamento derivanti dalla programmazione ministeriale. Le esigenze della formazione hanno infatti caratteristiche di evoluzione così rapida che un sistema centralizzato non può farvi fronte.
    I due problemi fondamentali sono, pertanto, la programmazione dell'offerta (da definire in ambito regionale, ma in un quadro che tenga d'occhio tutto il mercato italiano ed europeo) e il controllo sulla qualità dell'offerta stessa (che dovrà essere congiuntamente esercitato dalle Regioni e dallo Stato).
    Riprendendo brevemente le considerazioni già espresse su cultura e professione, occorre anche che ai percorsi alternativi agli studi universitari sia attribuito un valore (credito) spendibile per l'ingresso nel canale degli studi universitari e che essi siano costruiti modularmente, per segmenti autonomi e compiuti, ciascuno dei quali definisca un livello di preparazione, abilità e competenze.

    4. Il sistema della formazione professionale

    Il sistema della formazione complessiva, comprensivo delle opportunità offerte dal sistema scolastico e dal sistema della formazione professionale, deve divenire uno strumento attivo della politica del lavoro attraverso il quale attenuare gli effetti della disoccupazione causata dalla obsolescenza delle conoscenze e per mezzo del quale fare emergere l'enorme quantità di lavoro sommerso che ancora esiste in Italia.
    Occorre peraltro superare la concezione, finora dominante (come già è accaduto in altri paesi, quali la Germania, nei quali la formazione professionale iniziale si realizza nella scuola), che la formazione professionale sia una scelta riservata agli espulsi dal sistema scolastico, ai disadattati, a coloro che trovano difficile inserimento nel mondo del lavoro; solo in Italia il concetto di formazione professionale è stato posto strumentalmente in alternativa a quello scolastico.
    Questa immagine unilaterale e assai riduttiva della formazione professionale era già da più di un secolo in contrasto con la creazione di istituti di formazione professionale a livello secondario e terziario ed è ora in netto contrasto con la realtà stessa delle politiche di formazione dell'Unione europea e di tutti i suoi stati membri: si parla di formazione professionale iniziale per i giovani e dei suoi nessi con la scuola, di formazione di livello intermedio e superiore (cioè post-diploma e post-laurea o parallela ai livelli di istruzione universitaria), di riqualificazione professionale per i mutamenti che intervengono nella vita lavorativa, di formazione manageriale, di formazione come ammortizzatore sociale della disoccupazione e, in generale, di formazione continua. L'Italia è rimasto il paese dell'Unione europea che meno investe risorse proprie e meno provvede in materia di formazione professionale, ed è noto che le ingenti risorse comunitarie messe a disposizione del nostro paese per la formazione (8 regioni su 20 rientrano nel primo obiettivo della riforma dei Fondi strutturali dell'U.E) sono utilizzate nel nostro paese in misura ancora ridotta.
    Ciò dipende da molti fattori, tra i quali la mancata riforma della scuola secondaria superiore, la mancata definizione da parte dello Stato delle qualifiche che debbono essere rilasciate dalle regioni e avere validità sul territorio nazionale, la mancata individuazione di un equilibrio tra formazione di base e formazione professionale. Da tutto ciò deriva un oggettivo sottodimensionamento, quantitativo e qualitativo, dell'offerta di formazione professionale: poco più del 23% dell'intera scolarità post-obbligo (sommando tra loro istruzione professionale di Stato e formazione professionale) quando in altri Paesi europei tale quota supera il 50% della scolarità.
    Il ragionamento appena fatto sull'istruzione superiore vale dunque anche per l'offerta post-obbligo del cui sviluppo l'Accordo sul lavoro del 24 settembre 1996 ha posto le premesse, prevedendone il potenziamento anche attraverso nuovi rapporti da definire tra istruzione e formazione professionale; un maggiore ruolo programmatorio e di supporto delle Regioni, la riforma dell'apprendistato e dei contratti di formazione e lavoro con la valorizzazione del peso e del significato della formazione. Vi si prevede inoltre un'offerta articolata a tempo pieno e a tempo parziale, in alternanza tra formazione e lavoro; un rapporto efficace e produttivo tra sistema scolastico e sistema della formazione professionale sia nella realizzazione dell'obbligo scolastico, sia come arricchimento, integrazione, specializzazione nel corso dei trienni della scuola secondaria superiore.
    Costruire questa offerta -che rappresenterebbe un fattore di forte novità per la realtà e la tradizione scolastica e formativa del nostro paese- costituisce una oggettiva necessità che dovrà vedere impegnati il Governo, le Regioni, le parti sociali, le istituzioni formative pubbliche e private.
    Il settore della formazione professionale, colmando un vuoto che è probabilmente l'aspetto che più ci differenzia dalla realtà e dall'esperienza degli altri paesi europei, è destinato a svolgere nei prossimi anni un ruolo strategico, nella integrazione con il sistema dell'istruzione.

    5. Insegnanti e formatori di fronte al mutamento:problemi e formazione.

    Una complessiva ristrutturazione degli ordinamenti scolastici e l'avvio di un sistema di formazione professionale integrato comportano inevitabilmente una piena valorizzazione del personale della scuola e della formazione.
    In tale quadro è necessario far tesoro della diversità delle esperienze professionali accumulate e formate nel corso delle carriere per la ricollocazione di tutto il personale nel sistema, anche attraverso l'istituzione di nuove figure finalizzate a garantire la qualità del suo funzionamento e della sua organizzazione integrata. E' inoltre indispensabile affermare nel concreto il diritto/dovere di una formazione iniziale e in servizio per il personale della scuola e della formazione.
    Il primo criterio guida per la soluzione di tali problemi è quello della valorizzazione delle professionalità esistenti. Al personale della scuola e della formazione va riconosciuto di essere stato -in attesa di un riordino del sistema auspicato con sempre maggiore intensità- motori e attore di ipotesi sperimentali e di preziose innovazioni, pur nelle difficoltà causate dai vincoli dell'attuale funzionamento. Molti dei risultati conseguiti "sul campo" nella prospettiva del mutamento debbono essere valorizzati e gli insegnanti e i formatori, che sono i primi naturali esperti della materia debbono essere protagonisti del dibattito che oggi si apre, dando la loro fattiva collaborazione per ottimizzare la proposta di riordino del sistema.
    Il secondo criterio guida è quello di considerare i problemi non in termini di vincoli, ma di risorse. La diversità delle esperienze, le attuali professionalità, la sperimentazione di nuove figure operanti nel sistema costituiscono infatti un patrimononio irrinuncialbile per individuare le modalità di ricollocazione degli insegnanti e dei formatori nei nuovi cicli e nei nuovi percorsi, che richiedono professionalità e competenze composite e divesificate.
    Come si è già detto, inoltre, in un sistema così riformato diventa di vitale importanza poter disporre di figure di sistema che svolgano funzioni di tutoraggio, di aiuto e di sostegno, di organizzazione, progettazione, programmazione, al fine di realizzare un sistema di orientamento concreto, di garantire a tutti pari opportunità di successo formativo, di prevenire e compensare le difficoltà di apprendimento, di progettare i percorsi integrati.
    Vi sono perciò ampi spazi per la riflessione e per l'elaborazione di proposte che, lungi dal penalizzarle o ridurle, riorganizzino e potenzino le attuali risorse professionali.
    Il terzo criterio guida deve essere quello di dare una riposta al problema della formazione degli insegnanti e dei formatori. Il problema della formazione iniziale degli insegnanti è sostanzialmente già avviato a soluzione e nel giro di pochi anni dalle università dovrebbero cominciare ad uscire i primi laureati e specializzati per l'insegnamento. Nel frattempo sarebbe opportuno mettere mano ad una riforma del reclutamento che, superando l'attuale sistema fondato sulle classi di abilitazione e di concorso, si orienti verso forme di accertamento riferite ad ampie aree disciplinari e che siano incentrate sia sul sapere disciplinare sia sulle capacità didattiche. In tale ottica potrebbero essere recuperate e valorizzate esperienze professionali maturate anche in contesti extra scolastici.
    E, in ogni caso, sarebbe bene riflettere se sia possibile prevedere, per lo meno per alcune materie, un tipo di accesso all'insegnamento diverso dal reclutamento stabile. La carenza più vistosa del sistema formativo italiano riguarda, però, i formatori della formazione professionale in senso stretto.
    La soluzione probabilmente va rinvenuta non tanto nell'individuazione di un curricolo accademico più o meno rinnovato, ma nel riconoscimento, nella convalida e nell'abilitazione alla professione sulla base anche dell'esperienza acquisita, della varietà della formazione avuta e così via.
    In nessun altro campo come in questo è importante un mutamento di approccio che permetta alle università non solo di essere i luoghi in cui si impartiscono conoscenze e competenze, ma anche luoghi in cui si riconoscono e si accreditano le conoscenze e le competenze acquisite da adulti che dimostrino capacità adatte al mestiere per cui chiedono l'abilitazione.
    L'innovazione formalmente più vicina ad una risposta alle esigenze di formazione dei formatori in questo campo è la recente istituzione dei corsi di laurea in scienza dell'educazione e delle Facoltà di Scienze della formazione, definizione, quest'ultima, fra le più innovative che si riscontrino in campo europeo.
    La formazione degli insegnanti e dei formatori non può peraltro esaurirsi nel solo percorso iniziale universitario, ma deve prevdere -sia nella fase di transizione sia a regime- tempi e momenti di aggiornamento e formazione in servizio, senza escludere un'ipotesi di periodi sabbatici e di stage nei sistemi formativi europei, finalizzati alle nuove funzioni richieste dal sistema, siano esse di insegnamento o di ruoli di sistema.

    6. Itinerario e tempi di attuazione

    Le considerazioni fin qui espresse comportano, come logica conclusione, un complessivo intervento riformatore che realizzi, in tempi compatibili con l'obiettiva urgenza di modernizzazione: -un modello di governo del sistema fondato sul decentramento, sull'autonomia delle istituzioni scolastiche, sulla sinergia tra i vari soggetti istituzionali, formativi, sociali, sulla responsabilizzazione dei vari soggetti e su un efficace rapporto fra istruzione, formazione, territorio.
    -un riordino complessivo dei cicli scolastici;
    -una revisione dei programmi che, pur mantenendo indicazioni di percorso, ne accentui le caratteristiche di indicatori di obiettivi e di standard;
    -la realizzazione di percorsi di istruzione post-secondaria;
    -una forte interconnessione tra le politiche di sviluppo e quelle dell'istruzione, della formazione, della ricerca.
    La prima parte di tale intervento, conosciuta da tutti come "autonomia scolastica" è stata già delineata in un disegno di legge, già approvato dal Senato e attualmente all'esame della Camera dei deputati, che in questi giorni dovrebbe completarne la seconda lettura.
    In essa si delinea una prospettiva di forte decentramento in favore di istituzioni scolastiche autonome, che gradualmente aquisteranno anche autonomia didattica e organizzativa e capacità reali di collegamento col territorio e con le altre agenzie formative.
    E' questo il presupposto ineludibile per il passaggio ad un sistema che responsabilizzi fortemente i protagonisti dell'istruzione, liberandoli al contempo dei molti vincoli burocratici dei quali patiscono la pesantezza.
    La realizzazione degli altri obiettivi sopra delineati richiede interventi articolati che potranno sostanziarsi in atti di natura amministrativa e/o legislativa, a cui dare corso in tempi differenziati ma rapidi, nel rispetto, comunque, del progetto complessivo che sopra si è delineato.
    Proprio la rilevanza delle finalità da perseguire impone di porre la massima cura nella fase attuativa cercando di conciliare, nel miglior modo possibile, due esigenze parimenti importanti: la necessaria gradualità che consenta di monitorare le innovazioni introdotte e l'urgenza di dare al Paese le riforme in modo che le giovani generazioni possano immediatamente avvantaggiarsene.
    Questa linea operativa, che partendo dal metodo processuale potrà avvalersi degli strumenti di flessibilità previsti dall'ordinamento vigente, consentirà di avviare subito le innovazioni degli ordinamenti e di apportare in itinere gli aggiustamenti eventualmente necessari.
    Sulla proposta illustrata in questo documento vi è, comunque, il dichiarato intento di aprire un ampio dibattito, al quale chiamare a partecipare tutte le forze sociali, politiche ed economiche del Paese, al fine di acquisire validi contributi, sulla base dei quali mettere a punto il progetto definitivo ed il connesso programma di attuazione, sia in sede legislativa che amministrativa.
    A tal fine, si può sin d'adesso precisare che se una parte della materia oggetto di innovazione è chiaramente riservata alla normazione primaria, ve n'è un'altra, di non minor rilevanza, che può essere disciplinata con norme regolamentari. In proposito è opportuno ricordare che lo strumento regolamentare è dato dall'art. 205 del T.U. dell'istruzione, approvato con il D.Leg.vo n. 297 del 16 aprile 1994, che consente di determinare le materie d'insegnamento, con il relativo quadro orario, e l'articolazione in indirizzi e sezioni dei corsi di studio, mediante l'adozione di un decreto del Ministro della pubblica istruzione di concerto con il Ministro del Tesoro; consente, altresì, di determinare i contenuti delle singole discipline, mediante decreto del Ministro della pubblica istruzione.
    Tale duplice possibilità di intervento legislativo ed amministrativo permette di articolare i tempi di attuazione in fasi diverse, al fine di pervenire rapidamente alla conclusione del processo riformatore.
    Pertanto, una volta che sulla base del dibattito saranno emerse le linee fondamentali del disegno di riforma, si potranno avviare immediatamente ad attuazione quelle parti del progetto che richiedono interventi di natura amministrativa, di specifica competenza dell'Esecutivo, in stretto rapporto con il Parlamento, che nel frattempo avrà iniziato l'esame del provvedimento.
    In sostanza, si potrà immediatamente procedere alla revisione dei programmi d'insegnamento di tutti gli ordini e gradi di scuola, al fine di realizzare l'auspicato ammodernamento degli stessi e la loro elaborazione in termini più rispondenti alle esigenze di apprendimento dei giovani.
    In questo quadro sarà data priorità agli ordinamenti del biennio e del triennio della scuola secondaria superiore, da definire in maniera coerente con il progetto riformatore complessivo, pur nel rispetto delle attuali tipologie scolastiche.
    L'approvazione da parte del Parlamento della legge di riforma potrà dare inizio alla seconda fase attuativa che si articolerà in due momenti di maggiore rilevanza.
    Il primo riguarda l'innalzamento dell'obbligo scolastico, che potrà avere immediata attuazione già nell'anno scolastico successivo a quello in corso al momento della entrata in vigore della legge di riforma.
    Ciò grazie all'anticipato riordino del biennio della scuola secondaria superiore in via regolamentare.
    Il secondo riguarda l'attuazione dei nuovi cicli formativi. Se la proposta fin qui illustrata trovasse il consenso del mondo della cultura e del Parlamento i nuovi cicli potranno essere attivati nel tempo massimo di tre anni, mediante interventi mirati da operare contestualmente nei punti di snodo dell'attuale ordinamento scolastico.
    La cadenza degli interventi potrà riguardare l'adeguamento dei programmi d'insegnamento delle classi relativi agli anni scolastici sotto indicati, nel seguente modo (vedi tavola 3 allegata):

    A) nel primo anno di attuazione della legge di riforma:
    - ultimo anno della scuola materna (che diviene il 1° anno della scuola di base)
    - 3° anno della scuola elementare (3° del ciclo primario)
    - 1° anno della scuola media (5° del ciclo primario)
    - 1° anno della scuola secondaria superiore (2° del ciclo secondario) (già adeguata in via amministrativa)
    - 3° anno della scuola secondaria superiore (4° del ciclo secondario) (già adeguata in via amministrativa)

    B) nel secondo anno di attuazione della legge di riforma:
    - 1° anno della scuola elementare (1° del ciclo primario)
    - 4° anno della scuola elementare (4° del ciclo primario)
    - 2° anno della scuola media (6° del ciclo primario)
    - 2° anno della scuola secondaria superiore (3° del ciclo secondario)
    - 4° anno della scuola secondaria superiore (5° del ciclo secondario)

    C) nel terzo anno di attuazione della legge di riforma:
    - 2° anno della scuola elementare (2° del ciclo primario)
    - soppressione del 5° anno della scuola elementare
    - in sostituzione del 3° anno della scuola media, istituzione del 1° anno del ciclo secondario
    - 5° anno della scuola secondaria superiore (6° del ciclo secondario) (già adeguata in via amministrativa).
    In breve, se la legge di riforma venisse emanata prima dell'inizio dell'anno scolastico 1998/99, il nuovo ordinamento potrebbe essere completato entro l'anno scolastico 2000/2001, proprio all'inizio del nuovo millennio.




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    Volendo rendere comprensibile lo schema relativo alla fase attuativa della riforma, ecco alcuni esempi delle situazioni concrete in cui potranno trovarsi gli studenti che frequenteranno le scuole italiane nell'anno 1998/99, anno che si presume possa essere quello iniziale di attuazione della riforma.

    - Il bambino, che compirà 5 anni di età nell'anno 1998, sarà tenuto a frequentare il terzo anno della scuola d'infanzia secondo il nuovo ordinamento, come inizio dell'obbligo scolastico; conseguentemente, frequenterà le classi successive, così come previste dal nuovo ordinamento, completando l'obbligo scolastico all'età di 15 anni e il corso del ciclo secondario a 18 anni (un anno prima rispetto ai 19 anni attualmente previsti).

    - Il bambino, che compirà 6 anni sempre nel medesimo anno 1998, non sarà invece interessato dalla riforma per due anni (1998/99 e 1999/2000), durante i quali frequenterà la prima e la seconda classe della attuale scuola elementare. Al terzo anno, però, sarà ammesso a frequentare la terza classe del ciclo primario secondo il nuovo ordinamento e da l proseguirà negli studi riformati completando il ciclo secondario all'età di 18 anni.

    - Al bambino che compirà 7 anni sempre nell'anno 1998 (e ovviamente si trovi in regola con gli anni di studio precedenti) toccherà la stessa sorte di quello di 6 anni, ma solo per il 1998/99, anno in cui frequenterà la seconda classe della attuale scuola elementare; infatti, a partire dall'anno 1999/2000 frequenterà la terza classe del ciclo primario secondo il nuovo ordinamento e anche lui proseguirà negli studi riformati, completando il ciclo secondario all'età di 18 anni.

    - Il bambino che compirà, invece, 8 anni, sarà immediatamente interessato dal nuovo ordinamento in quanto frequenterà nello stesso anno 1998/99 il terzo anno del ciclo primario secondo il nuovo ordinamento; anche per questo bambino il completamento del ciclo secondario avverrà all'età di 18 anni.

    - Diversa sarà la situazione per i bambini che sempre nell'anno 1998 compiranno 9 e 10 anni, perché frequenteranno le classi della attuale scuola elementare rispettivamente per due anni (quarta e quinta classe nel 1998/99 e nel 1999/2000) e per un anno (quinta classe nel 1998/99), per poi passare al quinto anno del ciclo primario, il primo nell'anno 2000/2001, ed il secondo nell'anno 1999/2000. Per questi ultimi bambini e per i ragazzi di età più avanzata il completamento del ciclo secondario avverrà all'età di 19 anni.

    - Proseguendo nelle semplificazioni, il ragazzo che compirà 11 anni nell'anno 1998, sarà ammesso immediatamente a frequentare il quinto anno del ciclo primario e proseguirà negli studi riformati con la frequenza del sesto anno del ciclo primario e poi nel 2000/2001 del ciclo secondario a partire dal primo anno.

    - Non sarà così, invece, per i ragazzi di 12 e 13 anni, che frequenteranno le classi della attuale scuola media, completando i relativi studi con l'esame di licenza media. Il ragazzo di 12 anni frequenterà la seconda nel 1998/99 e la terza nel 1999/2000, e poi, superati gli esami, passerà nel ciclo secondario, dove sarà ammesso al secondo anno (ci in quanto il primo anno del ciclo secondario, che subentrerà alla terza media soppressa, avverrà a partire dal 2000/2001 e riguarderà gli studenti che avranno completato il ciclo primario). Il ragazzo di 13 anni frequenterà la terza media nell'anno 1998/99 e poi, superati gli esami, passerà direttamente al secondo anno del ciclo secondario.

    A questo punto appare semplice proseguire nell'esemplificazione, perché gli studenti che nel 1998 compiranno 14 anni ed avranno titolo ad iscriversi in una scuola secondaria superiore per aver conseguito la licenza media, frequenteranno il secondo anno del ciclo secondario secondo il nuovo ordinamento.