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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

SENTENZA N.350

 

ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA  IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

-          Riccardo          CHIEPPA                 Presidente

-          Gustavo           ZAGREBELSKY                   

-          Valerio ONIDA                      

-          Carlo   MEZZANOTTE                    

-          Fernanda         CONTRI                    

-          Guido   NEPPI MODONA                

-          Piero Alberto   CAPOTOSTI             

-          Annibale          MARINI                    

-          Franco BILE               "

-          Giovanni Maria            FLICK                                   

-          Francesco        AMIRANTE                          

-          Ugo     DE SIERVO                                      

-          Romano      VACCARELLA             

-          Paolo           MADDALENA             

-          Alfio     FINOCCHIARO

                      

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza del 23 dicembre 2002 dal Tribunale di sorveglianza di Bari sull’istanza proposta da Scirocco Severina, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2003.

            Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 1° ottobre 2003 il Giudice relatore Fernanda Contri.

 

 

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di sorveglianza di Bari, con ordinanza emessa il 23 dicembre 2002, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la concessione del beneficio della detenzione domiciliare nei confronti della condannata che sia madre di un figlio invalido al 100%, con lei convivente.

Il Tribunale rimettente espone di dover decidere in ordine all’istanza di detenzione domiciliare proposta da una condannata che deve espiare una pena detentiva residua inferiore a quattro anni di reclusione, per reati non compresi nell’elenco di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Come riferisce il giudice a quo, l’istante, avendo un figlio portatore di handicap, riconosciuto invalido civile al 100% in quanto paralizzato agli arti inferiori, invoca l’applicazione estensiva dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a) della predetta legge, che consente la detenzione domiciliare alla madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente.

Il giudice a quo, ritenendo che la citata disposizione non possa estendersi al caso di specie, in quanto si tratta di una norma che introduce una eccezione rispetto alla regola generale della espiazione della pena detentiva in carcere, afferma di condividere le censure di illegittimità costituzionale prospettate dal difensore della istante.

In particolare, ad avviso del rimettente, la norma contrasterebbe con il principio di eguaglianza e di ragionevolezza per la previsione di un trattamento difforme in ordine a situazioni familiari analoghe e del tutto equiparabili fra loro, quali sono quelle della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia almeno sul piano fisico, e della madre di un figlio disabile e totalmente incapace di provvedere da solo anche alle più elementari esigenze, il quale, ancorché maggiorenne, ha maggiore necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci.

Osserva il Tribunale che il legislatore ha previsto la possibilità di concedere il beneficio della detenzione domiciliare alla madre di prole di età inferiore a dieci anni, con lei convivente, senza porre la condizione del decesso dell’altro genitore o della assoluta impossibilità di assistenza alla prole da parte di questo, come invece è stabilito nella lettera b) del medesimo comma 1, dell’art. 47-ter. Pertanto, il ricongiungimento familiare tra la madre ed il figlio minore di anni dieci è favorito indipendentemente dalla presenza di altri familiari idonei a dare assistenza alla prole per due possibili finalità: la prima potrebbe essere quella di garantire la presenza costante della madre per assicurare il regolare sviluppo psico-fisico del bambino. In tal caso, secondo il rimettente, sarebbe ragionevole la scelta del legislatore di escludere dalla previsione normativa l’ipotesi della condannata madre di un figlio ultradecenne totalmente e permanentemente invalido, perché oltre il limite dei dieci anni, discrezionalmente fissato dal legislatore nella norma in esame, non vi sarebbe più necessità della presenza della madre, dovendosi considerare già compiuto lo sviluppo psico-fisico.

La seconda finalità potrebbe invece essere quella di assicurare puramente e semplicemente il ricongiungimento tra madre e figlio incapace; in questo caso la norma realizzerebbe in modo ingiustificato e irragionevole un trattamento peggiore nei confronti della condannata madre di figli conviventi che, pur essendo di età superiore al limite dei dieci anni, siano affetti da handicap invalidanti.

Secondo il rimettente, questa seconda lettura della norma, oltre ad essere preferibile, risulterebbe in linea con le recenti riforme dell’ordinamento penitenziario, tese a valorizzare il ricongiungimento familiare attraverso diversi istituti introdotti dalla legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), che sono applicabili anche al padre detenuto, quando la madre sia deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre; in particolare, quando non ricorrono le condizioni previste dall’art. 47-ter, può essere concessa la detenzione domiciliare speciale, ai sensi dell’art. 47-quinquies, se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli di età non superiore a dieci anni, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza di questi; ed è altresì prevista dall’art. 21-bis la possibilità dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci.  

La norma impugnata, conclude il rimettente, sarebbe quindi in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto non prevede la concessione del beneficio della detenzione domiciliare nei confronti della condannata madre di figlio portatore di handicap invalidante al 100%, che necessiti della costante presenza della madre, prevedendola invece nell’analoga situazione della madre di prole di età inferiore ad anni dieci.

2. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Ad avviso della difesa erariale, la disposizione impugnata, i cui presupposti non sono mutati con la riforma dell’ordinamento penitenziario, è posta ad esclusiva tutela dei minori degli anni dieci, ma non in funzione di un mero ricongiungimento tra madre e figlio a fini assistenziali, bensì per assicurare al minore una presenza genitoriale, preferibilmente materna, e consentirgli una crescita il più possibile normale.

La norma sarebbe quindi conforme ai principi di protezione dell’infanzia, sanciti dall’art. 31 della Costituzione, come ha già riconosciuto la stessa Corte costituzionale, pronunciandosi proprio sulla stessa norma con la sentenza n. 215 del 1990.

Le situazioni poste a confronto dal Tribunale rimettente sarebbero perciò diverse e non richiederebbero una identità di disciplina, consentendo al legislatore un margine di intervento discrezionale che non può essere ritenuto irragionevole.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di sorveglianza di Bari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la possibilità della concessione del beneficio della detenzione domiciliare nei confronti della condannata madre di figlio, con lei convivente, portatore di handicap invalidante al 100%, pur consentendo tale misura nel caso di madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente.

Ad avviso del rimettente la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, violando quindi il principio di eguaglianza e di ragionevolezza, con la previsione di un trattamento difforme per situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e totalmente incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, pur se maggiorenne, ha più necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci.

2. - La questione è fondata.

2.1 - La detenzione domiciliare, contraddistinta all’origine da finalità prevalentemente umanitarie ed assistenziali, ha visto, attraverso i successivi interventi del legislatore, ampliare notevolmente il proprio ambito di applicazione e costituisce ora una modalità di esecuzione prevista per una pluralità di ipotesi, fra loro eterogenee e, in parte, sganciate dalle condizioni soggettive del condannato.

L’art. 47-ter è stato inserito nell’ordinamento penitenziario dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Nel testo originario la disposizione prevedeva, per alcune categorie di detenuti in regime di espiazione ordinaria della pena in carcere, tra le quali quella della madre di prole convivente di età inferiore a tre anni, la possibilità di eseguire nella forma della detenzione presso il loro domicilio le pene della reclusione non superiore a due anni - anche se costituenti parte residua di una maggior pena - e dell’arresto.

Il legislatore ha, a più riprese, modificato i presupposti, oggettivi e soggettivi, che consentono di essere ammessi al beneficio, aumentando, tra l’altro, il limite di età della prole della madre detenuta prima a cinque anni (decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, «Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sulla espulsione dei cittadini stranieri»), e quindi a dieci anni (legge 27 maggio 1998, n. 165, «Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni») e prevedendo la possibilità di concedere la detenzione domiciliare anche al padre detenuto qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli (art. 47-ter, comma 1, lettera b) dell’ordinamento penitenziario), in attuazione della sentenza di questa Corte n. 215 del 1990. 

2.2 - La detenzione domiciliare, inserita tra le misure alternative alla detenzione di cui al Titolo I, Capo VI dell’ordinamento penitenziario, realizza ormai, come affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 165 del 1996, una modalità meno afflittiva di esecuzione della pena. L’istituto – come questa Corte ha ritenuto nella sentenza n. 422 del 1999, successiva all’ampia riforma realizzata con la legge n. 165 del 1998 – ha assunto quindi aspetti più vicini e congrui alla ordinaria finalità rieducativa e di reinserimento sociale della pena, non essendo più limitato alla protezione dei “soggetti deboli” prima previsti come destinatari esclusivi della misura, ed essendo applicabile in tutti i casi di condanna a pena non superiore a due anni (anche se residuo di maggior pena), purché idoneo ad evitare il pericolo di recidiva. Conseguentemente la Corte, nella sentenza da ultimo citata, ha ritenuto che la stessa detenzione domiciliare concessa “d’ufficio” al condannato che ne abbia titolo non soltanto non è in contrasto, ma piuttosto realizza lo scopo rieducativo di cui all’art. 27 Cost. Nello stesso senso, la successiva ordinanza n. 532 del 2002 ha nuovamente affermato che la detenzione domiciliare è una “misura alternativa che presuppone l’esecuzione della pena” e che essa assume connotazioni del tutto peculiari, “avuto riguardo ai profili polifunzionali che la caratterizzano”.

Per quanto riguarda, in particolare, la condizione della detenuta madre di prole di minore età, un ulteriore rilevante ampliamento delle possibilità di accesso alla misura è stato previsto dalla recente legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori).

2.3 - L’evoluzione normativa dell’istituto della detenzione domiciliare concedibile alla madre di prole minore è dunque connotata dalla tendenza verso una sempre maggiore estensione delle condizioni che consentono tale misura, essendo chiaro l’intento del legislatore di tutelare il rapporto tra la madre (e, nei casi previsti, il padre) ed i figli, pur nella situazione di esecuzione della pena detentiva. In particolare, come questa Corte ha affermato con la sentenza n. 422 del 1999, la detenzione domiciliare risulta “volta ad assecondare il passaggio graduale allo stato di libertà pieno mediante un istituto che sviluppa la ripresa dei rapporti familiari ed intersoggettivi”, rapporti che appaiono tanto più meritevoli di tutela quando riguardino le relazioni tra i genitori e la prole.

Anche per la madre di figli minori, come per tutti i soggetti che possono essere ammessi alla detenzione domiciliare, è peraltro escluso dalla legge un rigido automatismo nella concessione della misura, dovendo sussistere le condizioni rappresentate dal non essere intervenuta condanna per alcuno dei delitti indicati dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ed essendo previste ipotesi di revoca del beneficio per il venir meno delle condizioni stabilite dalla legge (art. 47-ter, comma 7), o per il sopravvenire di fatti ostativi quali comportamenti incompatibili (art. 47-ter, comma 6) e la condanna per il delitto di evasione (art. 47-ter, comma 8), oltre a specifici divieti che ostano alla sua concessione (art. 58-quater).

3. - Allo stato, dunque, il presupposto soggettivo per accedere alla misura della detenzione domiciliare è che si tratti di madre (o, nei casi previsti, di padre) di prole di età inferiore ai dieci anni, mentre quello oggettivo è dato dalla circostanza che la pena, o il residuo di pena, da scontare sia di quattro anni.

Nella evoluzione normativa, ad un allargamento del presupposto oggettivo, reso gradualmente più ampio sino al suo raddoppio (il limite di pena, o di residuo di pena, inizialmente fissato in due anni è stato innalzato dapprima a tre e poi a quattro anni), ha corrisposto anche una estensione di quello relativo all’età della prole, che originariamente fissato in tre anni è stato elevato dapprima a cinque e poi a dieci anni, secondo una tendenza alimentata da spirito di favore verso le esigenze di sviluppo e formazione del bambino il cui soddisfacimento potrebbe essere gravemente pregiudicato dall’assenza della figura genitoriale.

3.1 - Proprio al fine di favorire il pieno sviluppo della personalità del figlio, la norma censurata prevede perciò la possibilità di una esecuzione della pena che avvenga nella forma della detenzione domiciliare, limitandola però all’ipotesi del genitore del minore di età inferiore ad anni dieci.

Non è stata presa in considerazione la condizione del figlio gravemente invalido, rispetto alla quale il riferimento all’età non può assumere un rilievo dirimente, in considerazione delle particolari esigenze di tutela psico-fisica il cui soddisfacimento si rivela strumentale nel processo rivolto a favorire lo sviluppo della personalità del soggetto. La salute psico-fisica di questo può essere infatti, e notevolmente, pregiudicata dall’assenza della madre, detenuta in carcere, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore.

In questa prospettiva, la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore condannato, convivente con un figlio totalmente handicappato, appare funzionale all’impegno della Repubblica, sancito nel  secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità.

3.2 - Sul punto viene quindi in rilievo l’esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, presa in particolare considerazione dal legislatore sin dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che ha predisposto strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro, in attuazione del principio, espresso anche da questa Corte nella sentenza n. 215 del 1987, secondo il quale la socializzazione in tutte le sue modalità esplicative è un fondamentale fattore di sviluppo della personalità ed un idoneo strumento di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (v. anche sentenze n. 167 del 1999, n. 226 del 2001 e n. 467 del 2002).

Il particolare ruolo della famiglia nella socializzazione del soggetto debole - che nel caso in esame viene in rilievo sotto il profilo della tutela del disabile  - è del resto già stato considerato dal legislatore in relazione alle stesse modalità di esecuzione delle pene detentive che, dalle originarie misure di rinvio dell’esecuzione di cui agli artt. 146 e 147 del codice penale, aventi prevalenti finalità umanitarie, è passato all’attuale disciplina degli artt. 47-ter e 47-quinquies dell’ordinamento penitenziario, seguendo l’evoluzione  normativa sopra indicata.

Alla luce delle considerazioni che precedono la norma censurata è in contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto prevede un sistema rigido che preclude al giudice, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, di valutare l’esistenza delle condizioni necessarie per un’effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre condannata nei confronti del figlio portatore di handicap accertato come totalmente invalidante. Ciò determina un trattamento difforme rispetto a situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci.

 PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 novembre 2003.

F.to:

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2003.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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