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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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L’abbiccì dell’educazione

 

di Margherita Marzario

 Abstract: L’Autrice propone un breve glossario etimologico ed epistemologico di ciò che dovrebbe significare l’educazione.

 

Si parla tanto di educazione, ma è riduttivo risalire alla doppia origine dal latino “educare” e “educere” per definirla. E’ interessante, invece, far riferimento a vari testi e teorie, anche d'ispirazione cristiana, per trarre degli spunti per la comprensione e la definizione dell’educazione nella società d’oggi.

 

A Anziché parlare di emergenza, sfida o altro, sarebbe più opportuno parlare, come già alcuni fanno, di avventura educativa, un’azione che comincia nel presente e si proietta nel futuro e che richiede, pertanto, pazienza e speranza, che presuppone un rischio (quel rischio educativo di cui parlava don Luigi Giussani già nel 1977) e in cui il risultato non è garantito. Ci vuole amorevolezza, dal metodo salesiano, che è una via di mezzo tra l’amore e l’autorevolezza. “L’attuale contesto chiede di porsi con serietà di fronte alla comprensione delle trasformazioni in atto e contemporaneamente di esercitare con serietà, passione, autenticità il proprio compito educativo, congiungendo l’intelligenza dei cambiamenti con l’esercizio attivo dell’attenzione, della cura, della promozione per aiutare le nuove generazioni a diventare “autenticamente” donne e uomini di domani”[1]. L’autenticità (etimologicamente “farsi da sé”) postula quell’afflato, quell’impegno, quello “sporcarsi le mani”, che sempre più spesso mancano.

 

B Bene relazionale in cui occorrerebbe investire di più anche economicamente. Promuove il benessere: nell’educazione non bisogna semplicemente voler bene all’altro ma soprattutto volere il bene dell’altro. Quel benessere psicologico considerato come fattore di protezione della relazione educativa che, forse, è meglio espresso in altre lingue, come per esempio in francese “bien-être” e in inglese “well-being”, dove “being” significa proprio l’essere e l’esistenza, intesi in senso interiore.

 

C E’ un compito (termine usato nell’art. 31 comma 1 Costituzione a proposito della famiglia) permanente, ossia “è un fatto costitutivo della società umana. Senza educazione le nuove generazioni non potrebbero crescere e contribuire a loro volta allo sviluppo umano” (Pierpaolo Triani). E’ un compito che esige competenze e costruisce competenze innanzitutto affettive. Infatti don Giovanni Bosco la definiva “cosa del cuore”, perché parte dal cuore e arriva al cuore, altrimenti non è efficace. E per essere efficace ci vuole coraggio (dal latino “cor”, cuore) e coerenza (dal latino “cohaerere”, essere unito) da parte di ogni educatore e tra tutti gli educatori. Da qui i concetti di continuità genitoriale, continuità del processo educativo e coralità educativa tra famiglia e scuola. Affinché questo avvenga servono (proprio nel senso di servizio) collaborazione e comunicazione, condizioni spesso richiamate nella legislazione (per esempio art. 2 lettera g L. 170/2010 sulla dislessia). “Comunicazione” deriva da “comune” che, a sua volta, dovrebbe derivare dal latino “cum” e “munus”, condivisione di una funzione, di un onere. Ebbene l’educazione è un onere necessario per la crescita personale e della comunità (parola che ha la stessa origine etimologica di comunicazione). Inoltre “educazione vuol dire cultura[2], la cultura (parola che ha la stessa origine di ascolto dal verbo latino “colere”, coltivare, curare) è apertura alla consapevolezza. Dalla cultura si costruisce la civiltà (dal latino “civis”, cittadino) e da questa la cittadinanza[3]. E non il contrario, cioè partire dall’educazione alla cittadinanza; anzi, alla luce di quanto s’è detto, è pleonastico parlare di educazione alla cittadinanza. Piuttosto nella società multietnica si dovrebbe parlare di con-cittadinanza. L’educazione è cura, ma è anche “educare ad aver cura”, ossia “il compito di un educatore non consiste tanto nel trasmettere a qualcuno determinate conoscenze o nel fargli accettare regole di comportamento, quanto piuttosto nel suscitare in lui o in lei questo stile di delicata attenzione, di “tenerezza” e di responsabilità, in modo che essi siano poi protagonisti, ognuno a modo proprio, dell’impegno che ne deriva”[4]. Le capacità ed il ruolo dell’educatore possono essere delineati con un anglicismo polisemico, “coaching”, che significa dall’allenare al dare ripetizioni a qualcuno.

 

D E’ un diritto-dovere che è alle radici della democrazia (J. Dewey). Richiede distacco nell’amore (sull’esempio evangelico di Maria nei confronti di Gesù), nel senso che la tendenza all’iperprotettività (si potrebbe usare in senso spregiativo il termine economico “protezionismo”) è bene che sia sostituita da una sorta di “intimità a distanza[5], intesa come spazio dialogico che insieme separa e connette, permettendo il processo di crescita e differenziazione del giovane dall’adulto. Processo estremamente delicato, in cui il genitore dev’essere in grado di valutare la giusta dose di aiuto, incoraggiamento, vicinanza.

 

E Mira all’essere (di cui si parla anche nella Presentazione e nel paragrafo “Per una nuova cittadinanza” delle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione del Ministro P.I. Giuseppe Fioroni del 2007). “Essere” significa identità in tutte le sue declinazioni, da quella culturale a quella di genere. Identità, etimologicamente (dal latino “idem”) ed ontologicamente, è la dimensione che ci rende unici ma al tempo stesso come gli altri. Oltre all’essere, mutuando la terminologia della filosofia tedesca, bisogna educare al “da-sein” (M. Heidegger) e alla “da-sein kompetenz”, all’”esser-ci” e alla “competenza dell’esser-ci”, in altre parole competenza esistenziale, l’essere nel tempo e nell’attuale realtà in contrasto con quest’epoca di dilagante depressione, il male del vivere. J. Bruner avrebbe detto “trasmettere il senso dell’esistenza”, dal latino “exsistere”, levarsi fuori, divenire, essere manifesto, in altre parole quella capacità d'espressione di vita e di vitalità che sovente langue.

 

F Il primo soggetto che educa e che ha bisogno di essere rieducato è la famiglia. Una possibile strada da percorrere per recuperare pure il ruolo della famiglia è la filosofia (tanto che già dagli anni ’70 si parla di “philosophy for children”), che ci aiuta a cogliere la nostra fragilità. Fragilità riferita sia agli educatori che agli educandi, nel senso che l’educazione risente delle fragilità degli educatori che ne devono essere consapevoli e al tempo stesso, in questa società di onnipotenza e di perfezionismo fisico, bisogna educare alla fragilità, perché la consapevolezza della fragilità ci rende interiormente liberi ed uguali. “La sensazione è che ci sia un forte rifiuto di tutto ciò che ricorda la nostra “finitezza” come persone, mentre vale ciò che è sempre forte, bello e sano. […] La fragilità mi avvicina all’essenza dell’altro, che va oltre il suo stare bene o male”[6]. Da notare che la fragilità è diversa anche etimologicamente dalla debolezza; la persona deve comprendere che è fragile, “che si rompe”, ma non debole, “che manca”, proprio perché persona che si completa con e nell’altro (A. Rosmini affermava che la persona è relazione sostanziale). La fragilità come mezzo nuovo per intendere la realtà, occasione che può contribuire a ri-creare una catena di potenze (e non poteri), quelle che noi siamo. Potenze che non devono abbattersi a vicenda, ma riconoscersi e sommarsi. Riconoscere, pertanto, che nella vita oltre alle competenze occorrono le “com-potenze” (solidarietà di contro alla solitudine). L’educazione è altresì dare fiducia e far maturare la fiducia in se stessi. Se si riflette ci si rende conto che sulla fiducia si basano gli atti della nostra vita da quelli quotidiani (dall’attraversare la strada al comprare il prosciutto senza polifosfati) a quelli giuridici (dalla fiducia testamentaria all’affidamento dei figli in caso di separazione dei coniugi).

 

G L’educazione è da intendersi come gioco non nel senso di mancanza di responsabilità e di scopo, ma nel senso di condivisione e rispetto di regole, mettersi in gioco, gioia di fare e gratuità nel dare. Gioco, quindi, nel senso di approccio ludico e ludiforme. Quel gioco da sempre affermato in pedagogia e che è salito al rango giuridico già nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 (art. 7 paragrafo 2). Concorre alla giustizia sociale (art. 3 comma 2 Costituzione); è la modalità esecutiva della giustizia minorile (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448 sul processo penale a carico di imputati minorenni), in cui i vocaboli più ricorrenti sono educazione e personalità essendo l’una strumentale all’altra.

 

Tutto questo ricordando che l’educazione è il percorso di vita stessa.



[1] Il pedagogista Pierpaolo Triani in un’intervista di novembre 2010.

[2] Si legga l’interessante articolo “Educazione e maleducazione” di Giandomenico Mucci su La Civiltà Cattolica n. 3846 del 18 settembre 2010 pp. 468-474.

[3] Così anche nel Rapporto Faure dell’Unesco sulle strategie dell’educazione del 1972.

[4] Il coraggio di educare di G. Savagnone e A. Briguglia, Editrice Elledici, Torino, 2009, p. 14.

[5] Un decalogo per i genitori italiani. Crescere capitani coraggiosi, a cura di Alessandro Rosina e Elisabetta Ruspini, Milano, ed. Vita e Pensiero, 2009.

[6] Così Raffaele K. Salinari, medico, docente universitario, saggista.

 


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