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L’abbiccì dell’educazione
di Margherita Marzario
Si parla tanto di educazione, ma è riduttivo
risalire alla doppia origine dal latino “educare” e “educere”
per definirla. E’ interessante, invece, far riferimento a vari testi
e teorie, anche d'ispirazione cristiana, per trarre degli spunti per la
comprensione e la definizione dell’educazione nella società d’oggi. A Anziché parlare di emergenza, sfida o
altro, sarebbe più opportuno parlare, come già alcuni fanno, di
avventura educativa, un’azione che comincia nel presente e si
proietta nel futuro e che richiede, pertanto, pazienza e speranza, che
presuppone un rischio (quel rischio educativo di cui parlava don Luigi
Giussani già nel 1977) e in cui il risultato non è garantito. Ci vuole
amorevolezza, dal metodo salesiano, che è una via di mezzo tra l’amore
e l’autorevolezza. “L’attuale contesto chiede di porsi con
serietà di fronte alla comprensione delle trasformazioni in atto e
contemporaneamente di esercitare con serietà, passione, autenticità
il proprio compito educativo, congiungendo l’intelligenza dei
cambiamenti con l’esercizio attivo dell’attenzione, della
cura, della promozione per aiutare le nuove generazioni a
diventare “autenticamente” donne e uomini di domani”[1].
L’autenticità (etimologicamente “farsi da sé”) postula quell’afflato,
quell’impegno, quello “sporcarsi le mani”, che sempre più spesso
mancano. B Bene relazionale in cui occorrerebbe
investire di più anche economicamente. Promuove il benessere:
nell’educazione non bisogna semplicemente voler bene all’altro ma
soprattutto volere il bene dell’altro. Quel benessere psicologico
considerato come fattore di protezione della relazione educativa che,
forse, è meglio espresso in altre lingue, come per esempio in francese “bien-être”
e in inglese “well-being”, dove “being” significa proprio l’essere e
l’esistenza, intesi in senso interiore. C E’ un compito (termine usato
nell’art. 31 comma 1 Costituzione a proposito della famiglia)
permanente, ossia “è un fatto costitutivo della società umana.
Senza educazione le nuove generazioni non potrebbero crescere e
contribuire a loro volta allo sviluppo umano” (Pierpaolo Triani).
E’ un compito che esige competenze e costruisce competenze
innanzitutto affettive. Infatti don Giovanni Bosco la
definiva “cosa del cuore”, perché parte dal cuore e arriva al
cuore, altrimenti non è efficace. E per essere efficace ci vuole
coraggio (dal latino “cor”, cuore) e coerenza (dal
latino “cohaerere”, essere unito) da parte di ogni educatore e tra tutti
gli educatori. Da qui i concetti di continuità genitoriale,
continuità del processo educativo e coralità educativa tra
famiglia e scuola. Affinché questo avvenga servono (proprio nel senso di
servizio) collaborazione e comunicazione, condizioni
spesso richiamate nella legislazione (per esempio art. 2 lettera g L.
170/2010 sulla dislessia). “Comunicazione” deriva da “comune” che, a sua
volta, dovrebbe derivare dal latino “cum” e “munus”, condivisione di una
funzione, di un onere. Ebbene l’educazione è un onere necessario per la
crescita personale e della comunità (parola che ha la stessa
origine etimologica di comunicazione). Inoltre “educazione vuol dire
cultura”[2],
la cultura (parola che ha la stessa origine di ascolto dal verbo latino
“colere”, coltivare, curare) è apertura alla consapevolezza.
Dalla cultura si costruisce la civiltà (dal latino “civis”,
cittadino) e da questa la cittadinanza[3].
E non il contrario, cioè partire dall’educazione alla cittadinanza;
anzi, alla luce di quanto s’è detto, è pleonastico parlare di educazione
alla cittadinanza. Piuttosto nella società multietnica si dovrebbe
parlare di con-cittadinanza. L’educazione è cura,
ma è anche “educare ad aver cura”, ossia “il compito di un educatore non
consiste tanto nel trasmettere a qualcuno determinate conoscenze
o nel fargli accettare regole di comportamento, quanto piuttosto
nel suscitare in lui o in lei questo stile di delicata attenzione, di
“tenerezza” e di responsabilità, in modo che essi siano poi
protagonisti, ognuno a modo proprio, dell’impegno che ne deriva”[4].
Le capacità ed il ruolo dell’educatore possono essere delineati
con un anglicismo polisemico, “coaching”, che significa
dall’allenare al dare ripetizioni a qualcuno. D E’ un diritto-dovere che è alle
radici della democrazia (J. Dewey). Richiede distacco
nell’amore (sull’esempio evangelico
di Maria nei confronti di Gesù), nel senso che la tendenza all’iperprotettività
(si potrebbe usare in senso spregiativo il termine economico
“protezionismo”) è bene che sia sostituita da una sorta di “intimità a
distanza”[5],
intesa come spazio dialogico che insieme separa e connette,
permettendo il processo di crescita e differenziazione del
giovane dall’adulto. Processo estremamente delicato, in cui il
genitore dev’essere in grado di valutare la giusta dose di aiuto,
incoraggiamento, vicinanza. E Mira all’essere (di cui si parla
anche nella Presentazione e nel paragrafo “Per una nuova cittadinanza”
delle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il
primo ciclo d’istruzione del Ministro P.I. Giuseppe Fioroni del 2007).
“Essere” significa identità in tutte le sue declinazioni, da quella
culturale a quella di genere. Identità, etimologicamente (dal latino
“idem”) ed ontologicamente, è la dimensione che ci rende unici ma al
tempo stesso come gli altri. Oltre all’essere, mutuando la terminologia
della filosofia tedesca, bisogna educare al “da-sein” (M. Heidegger) e
alla “da-sein kompetenz”, all’”esser-ci” e alla “competenza
dell’esser-ci”, in altre parole competenza esistenziale, l’essere
nel tempo e nell’attuale realtà in contrasto con quest’epoca di
dilagante depressione, il male del vivere. J. Bruner avrebbe detto
“trasmettere il senso dell’esistenza”, dal latino “exsistere”, levarsi
fuori, divenire, essere manifesto, in altre parole quella capacità d'espressione
di vita e di vitalità che sovente langue. F Il primo soggetto che educa e che ha
bisogno di essere rieducato è la famiglia. Una possibile strada
da percorrere per recuperare pure il ruolo della famiglia è la
filosofia (tanto che già dagli anni ’70 si parla di “philosophy for
children”), che ci aiuta a cogliere la nostra fragilità.
Fragilità riferita sia agli educatori che agli educandi, nel senso che
l’educazione risente delle fragilità degli educatori che ne devono
essere consapevoli e al tempo stesso, in questa società di onnipotenza e
di perfezionismo fisico, bisogna educare alla fragilità, perché la
consapevolezza della fragilità ci rende interiormente liberi ed uguali.
“La sensazione è che ci sia un forte rifiuto di tutto ciò che ricorda la
nostra “finitezza” come persone, mentre vale ciò che è sempre
forte, bello e sano. […] La fragilità mi avvicina all’essenza
dell’altro, che va oltre il suo stare bene o male”[6].
Da notare che la fragilità è diversa anche etimologicamente dalla
debolezza; la persona deve comprendere che è fragile, “che si rompe”, ma
non debole, “che manca”, proprio perché persona che si completa con e
nell’altro (A. Rosmini affermava che la persona è relazione
sostanziale). La fragilità come mezzo nuovo per intendere la realtà,
occasione che può contribuire a ri-creare una catena di potenze (e non
poteri), quelle che noi siamo. Potenze che non devono abbattersi a
vicenda, ma riconoscersi e sommarsi. Riconoscere, pertanto, che nella
vita oltre alle competenze occorrono le “com-potenze” (solidarietà di
contro alla solitudine). L’educazione è altresì dare fiducia e
far maturare la fiducia in se stessi. Se si riflette ci si rende conto
che sulla fiducia si basano gli atti della nostra vita da quelli
quotidiani (dall’attraversare la strada al comprare il prosciutto senza
polifosfati) a quelli giuridici (dalla fiducia testamentaria
all’affidamento dei figli in caso di separazione dei coniugi). G L’educazione è da intendersi come gioco
non nel senso di mancanza di responsabilità e di scopo, ma nel senso di
condivisione e rispetto di regole, mettersi in gioco, gioia di
fare e gratuità nel dare. Gioco, quindi, nel senso di approccio
ludico e ludiforme. Quel gioco da sempre affermato in pedagogia e che è
salito al rango giuridico già nella Dichiarazione dei diritti del
fanciullo del 1959 (art. 7 paragrafo 2). Concorre alla giustizia
sociale (art. 3 comma 2 Costituzione); è la modalità esecutiva della
giustizia minorile (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448 sul processo penale
a carico di imputati minorenni), in cui i vocaboli più ricorrenti sono
educazione e personalità essendo l’una strumentale all’altra. Tutto questo ricordando che l’educazione è il
percorso di vita stessa.
[1] Il pedagogista Pierpaolo
Triani in un’intervista di
novembre 2010.
[2] Si legga l’interessante
articolo “Educazione e maleducazione” di Giandomenico Mucci su
La Civiltà Cattolica n. 3846 del 18 settembre 2010 pp.
468-474.
[3] Così anche nel Rapporto
Faure dell’Unesco sulle strategie dell’educazione del 1972.
[4] Il coraggio di educare
di G. Savagnone e A. Briguglia, Editrice Elledici, Torino,
2009, p. 14.
[5] Un decalogo per i
genitori italiani. Crescere capitani coraggiosi, a cura di
Alessandro Rosina e Elisabetta Ruspini, Milano, ed. Vita e
Pensiero, 2009.
[6] Così Raffaele K.
Salinari, medico, docente universitario, saggista.
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