Scuola: pericolo di riforma o riforme in pericolo?
di Franco Raimondo Barbabella
Dirigente del Liceo Majorana di Orvieto
Il 9 maggio scorso, sul processo di riforma del sistema scolastico e universitario, si contavano, fra quelli approvati a partire dal 1997 e quelli in via di approvazione, ben 73 provvedimenti normativi di primo e secondo livello raggruppati in 24 argomenti. Il numero, ovviamente, da allora è ulteriormente cresciuto.
Il programma quinquennale del Governo sull'attuazione progressiva della legge di riordino dei cicli di istruzione, approvato e rimesso alle Camere il 3 novembre u.s., si inserisce in questo groviglio, cosicché non il cittadino inesperto, ma anche lo studioso più attento, difficilmente ormai è in grado di orientarsi con sicurezza.
Personalmente mi sono convinto che nemmeno i numerosi consulenti ministeriali abbiano più ben chiaro il quadro complessivo, dico proprio dal punto di vista tecnico, cioè della coerenza logica ed operativa del processo di riforma, aspetto determinante della sua fattibilità ed efficacia. Sul piano politico, si ha poi la netta impressione che il merito della riforma non interessi più di tanto: il Governo ha varato un documento che lascia nel vago punti essenziali, quasi che nell'area della maggioranza ci si preoccupi ormai di mandare avanti le riforme purchessia; l'opposizione, per suo verso, ha assunto una posizione di rifiuto totale e pregiudiziale, quasi che da questa parte si voglia solo bloccare le riforme ad ogni costo. Brutta faccenda.
E pensare che quattro anni fa, quando concretamente ebbe inizio il percorso di riforma, le speranze furono tante e diffuse: sembrava aprirsi finalmente la stagione dello svecchiamento e dell'allineamento all'Europa, sembrava che anche in Italia, dopo decenni di discussioni e tentativi falliti, i giovani alla fine avrebbero potuto disporre di un sistema formativo moderno, competitivo, rispondente ai bisogni di un Paese profondamente cambiato. Seppure se ne intravedessero solo i contorni, il percorso sembrava infatti sufficientemente lineare e basato su punti solidi: l'autonomia, il decentramento, la riorganizzazione del ministero, i nuovi organi collegiali, la dirigenza ai capi di istituto, la valorizzazione della professionalità docente, il passaggio del personale ATA agli enti locali, le nuove norme sulla contabilità, il nuovo esame di stato, l'obbligo scolastico e formativo, ecc. ecc.
Poi sono venuti i provvedimenti concreti: la razionalizzazione, che spesso più irrazionale è difficile immaginare; il nuovo contratto dei docenti, che ha fatto flop non certo solo per il concorsone; la dirigenza ai capi di istituto, con tutte le responsabilità ma, ad oggi, senza contratto e senza un soldo; il passaggio del personale ATA agli enti locali, parimenti senza certezze contrattuali; la trasformazione dei responsabili amministrativi in direttori dei servizi generali e amministrativi, naturalmente con un cambiamento solo di facciata; il trasferimento di competenze importanti alle regioni e agli enti locali, senza però che questi fossero minimamente preparati e attrezzati e, sempre naturalmente, senza un soldo in più. E poi si sono accumulati gravi ritardi in settori vitali: nel riordino del Ministero della Pubblica Istruzione, con i Provveditorati che scompaiono il prossimo 31 dicembre e con le Sovrintendenze regionali non ancora organizzate per assumerne le funzioni; nel riordino degli organi collegiali, della cui riforma non si sa più nulla, quando è evidente per chiunque che essa avrebbe dovuto essere almeno contestuale all'avvio dell'autonomia; nella riforma della contabilità, egualmente volatilizzata, quando tutti sanno, o dovrebbero sapere, che essa è un altro tassello indispensabile per una gestione razionale del bilancio degli istituti autonomi. Si potrebbe ancora continuare a lungo.
Di fatto, la situazione è questa: si lancia un programma ambizioso e complesso di attuazione della riforma dei cicli, quando i molti pezzi di riforma già messi in cantiere non solo non sono consolidati, ma sono appena avviati, per di più senza un coerente tentativo di armonizzazione fra loro e rispetto alle condizioni reali della scuola. Così non potrebbe funzionare nemmeno una riforma parziale, figuriamoci una riforma che vuol essere globale, di sistema, della stessa portata di quella varata da Giovanni Gentile nel 1923!
Purtroppo però c'è anche altro, ed è qualcosa che è difficile definire con aggettivi calzanti: si pensa di fare tale tipo di riforma a costo zero, anzi magari con qualche risparmio, e senza avere il consenso del personale, cioè di chi concretamente tali riforme dovrebbe attuare, e, beninteso, con convinzione e determinazione. Credo che, anche scavando nelle pieghe della storia, difficilmente si può trovare qualcosa di più miope!
Non sono fra coloro che vogliono buttare a mare quanto di buono, intelligente, lungimirante, c'era e c'è in tutti questi pezzi di riforma del nostro sistema scolastico, e naturalmente anche nel progetto di riordino dei cicli: l'autonomia è irrinunciabile, come il decentramento e il legame con il territorio, come la responsabilizzazione delle regioni e degli enti locali, come il superamento della ripetitività dei programmi e dei salti tra ordini di studi, come l'abbattimento delle barriere fra competenze teoriche e abilità pratiche, come lo sfoltimento degli indirizzi del ciclo secondario. E poi ci sono le questioni di fondo, su cui non si può non concordare: se si vuol essere Paese europeo, bisogna darsi una scuola europea; se si vuol essere competitivi sul piano della qualità, il primo sistema che deve avere questa caratteristica è proprio il sistema scolastico; se non si vuole perdere contatto con la ricerca e il lavoro, bisogna essere permeabili ai saperi moderni, le lingue, l'informatica, la matematica, le scienze e le tecnologie. E, infine, c'è l'argomento principe: una società di massa a struttura avanzata, complessa, articolata e fluida, non può avvalersi di un sistema formativo pensato per una società fondamentalmente agricola e gerarchica come era quello gentiliano.
Dunque, una riforma generale era necessaria, ed i singoli provvedimenti contengono chiari elementi di questa necessità storica. Non discutono di questo nemmeno gli intellettuali più critici, quelli che sollevano consistenti dubbi di merito, come ad es. Massimo Cacciari, che si domanda se al ciclo primario di sette anni ed a quello secondario di cinque non sarebbero stati preferibili due di cinque per la formazione di base ed uno secondario di tre con indirizzi fortemente caratterizzati, accompagnati non dall'abbreviazione del percorso da 13 a 12 anni, ma dall'anticipo del periodo scolare a cinque anni, in modo da poter uscire verso il lavoro o l'università comunque a 18 anni.
Il punto però è che mancano sia una visione complessiva sia un'azione coerente, ben programmata e fondata sul consenso convinto e degli operatori e delle forze culturali e sociali. E' esattamente il contrario della grande riforma di Giovanni Gentile, che, questo pure è stato ricordato, si fondò sulla lucida armonizzazione di tre pilastri: riordino dei cicli, programmi solidi e chiaramente finalizzati, esaltazione del ruolo dei docenti e dei presidi. Oggi si vorrebbe far partire la costruzione della nuova casa disponendo di un solo pilastro, quello della riforma dei cicli, senza sapere, al momento in cui si se ne elabora il programma di attuazione, a quali contenuti essa sarà ancorata e senza aver dato alcun credibile segnale di voler riconoscere e rilanciare il ruolo determinante del personale.
Perciò, il clima che si è creato nelle scuole è ormai tale che ci si domanda un po’ tutti: crollerà questo edificio reso così zoppo e traballante da un mix micidiale di astratta ingegneria pedagogica, di insipienza politica, programmatica e gestionale, e di resistenza sorda dei mille burocrati annidati in ogni angolo?
Probabilmente non siamo ancora al pericolo di crollo, ma a quello, peraltro non meno grave, del procedere in modo stentato, approssimativo e contraddittorio, ci siamo davvero. E questa percezione produce un'atmosfera pesante e confusa, con l'effetto di scoraggiare di più proprio coloro che di più hanno investito sulla possibilità di una riforma che permettesse finalmente di lavorare in modo qualificato e produttivo.
Si può ancora sperare di invertire la rotta? Sinceramente ne dubito, visto il panorama, per di più con lo scontro elettorale già cominciato. Tuttavia, un momento di verifica ancora c'è per tutti coloro che sono preoccupati non a chiacchiere del possibile fallimento del primo serio tentativo di ammodernare il nostro sistema scolastico, ed è ciò che si vorrà e/o si saprà fare nei 45 giorni che sono a disposizione delle Camere per l'esame del programma operativo del Governo, naturalmente nel e fuori dal Parlamento.
Questo vale anche a livello territoriale, dove da subito ci si dovrebbe preoccupare di recuperare il tempo perduto, prendendo finalmente coscienza della portata delle riforme ed attrezzandosi per gestirle in un'ottica di innovazione di sistema, credendoci, ed eventualmente spingendo per dare una sterzata alle perverse logiche che stanno minando le fondamenta stesse del processo di riforma. D'altronde in tutti i territori, anche quelli messi un po’ meglio, nonostante le paciose analisi del documento programmatico, i problemi non mancheranno: problemi di edilizia scolastica, di razionalizzazione dei trasporti, di servizi di mensa, di potenziamento delle dotazioni tecnologiche, di impianto di nuovi indirizzi, di coordinamento fra gli enti, di integrazione con le dinamiche del lavoro. Tutta roba che non si improvvisa.
Mi aspetterei, ad esempio, che in una regione come quella in cui opero, l'Umbria, si cogliesse questa occasione per lanciare un grande dibattito e per dare avvio ad uno sforzo programmatico eccezionale. In fondo, se non tutto dipende da noi, non è vero che tutto dipende dagli altri, se non altro in termini di proposta e di iniziativa. Potremmo almeno dire di aver cercato di fare fino in fondo la nostra parte.