Bertagna/Moratti: ovvero tra Erode
e Iva Zanicchi
di Raffaele
Iosa
ispettore tecnico del MIUR
Non si inganni il lettore: la proposta Bertagna non
è il frutto perverso di un unico pedagogista, visto che ha già lo
smacco di 5 dei colleghi della commissione dissociati da un documento
pur fatto (si diceva) insieme. Troppo reazionario e perfino rancoroso
il documento Bertagna per non pensare che, ancora nascosto, non vi sia
il "vero documento", più morbido, che il ministro lancerà
come segno dell’arte di mediazione.
Ma l’anima culturale di questo documento è molto chiara, il fatto
solo di portarlo agli Stati Generali di Foligno è una "prova di
forza", poi la mediazione cercherà di spostare il più a destra
possibile la filosofia della scuola, pur concedendo pezzettini a tutti
di consolazione (per esempio sul tempo scuola e gli organici).
Credo che il documento Bertagna sia la filosofia pedagogica vera, l’anima
profonda, di questo governo.
La natura vera del documento non è, infatti, nell’architettura
degli anni di scuola, né nei disegnini che i giornali hanno
abbondantemente sparso. Il documento nasconde una ben diversa mission:
è il primo esplicito manifesto pedagogico di una nuova destra
reazionaria, rimasta carsica e rancorosa dagli anni 60 in poi, che
riemerge approfittando di un "ritocco" ad una legge, verso
un nuovo modello pedagogico, oggi assente nel paese: la scuola come
nuova e più raffinata selezione sociale. La scuola di massa delle
selezione.
La reazionarietà è sparsa in ottanta pagine di pedagogese e
sociologese, ma spesso utilizza il linguaggio comune del cosiddetto
"buon senso" (si veda perfino il capitolo dal titolo
"Realismo"), al punto che il qualsiasi lettore comune (se ce
n’è qualcuno che arriva fino in fondo al testo) può facilmente
perdersi.
Non si inganni il lettore. Per fortuna la cultura degli insegnanti
e della società italiana verso l’educazione non è reazionaria (ma
neppure rivoluzionaria), è una cultura che Aldo Schiavone (senza
offendere le donne) chiamerebbe "materna": piacciono i
ragazzini e a tutti –anche agli handicappati- si pensa di poter dare
il massimo anche oltre il principio di realtà. Anche De Rita, nel suo
Rapporto annuale del 2001, parla di un’Italia plurale, adattativa,
amichevole, pacifica, sociale più di quanto si creda, anche nella sua
molecolarità. De Rita arriva perfino a proporre l’ "italian
way on life" al posto dei venti di guerra. Forse un’Italia più
ulivista dell’Ulivo, che ha votato a destra presa dagli spot perché
l’Ulivo faceva foglie piuttosto che olio. Certo anche un’Italia
egoista e neodarwiniana, insomma asimmetrica (sempre per citare De
Rita).
La politica lo sa bene. Spostare a destra una massa di insegnanti
di buona volontà sociale (pur con tutte le fisime impiegatizie) è
impresa difficile. I nostri insegnanti sono più figli di Don Milani
che di De Maistre. Per questo conviene passare per una sottile
operazione di restyling culturale che, appunto, riporti al
"realismo" le tante "chiacchiere" retoriche e
utopiche della sinistra pedagogica, approfittando della
"crisi" della sinistra, più chiacchierona e timida che
coraggiosamente riformista.
Si sta usando l’understatment delle cose apparentemente ovvie,
mediando poi da buona mamma di casa se qualche "discolo" (Bertagna)
ha ecceduto. Insomma: finalmente ritornare al mito di Erode (la strage
degli innocenti, la scuola come nuova selezione sociale) passando per
Iva Zanicchi. Lasciando al Costanzo Show gli stati generali come
democrazia populista (l’ha detto la televisione). E’ tutto
maledettamente semplice.
Per questo è importante leggere il documento Bertagna/Moratti
lasciando sullo sfondo l’architettura organizzativa, meno
interessante. Va fatta una discussione culturale franca e onesta, non
servono petizioni retoriche da vecchi slogan, ma dimostrare che è
fallimentare perfino per gli obiettivi che si prefigge, che aumenterà
il malessere sociale, che è una autogol per la società moderna che
tutti a parole dicono di volere.
L’equità di Erode
La frase che mi ha fatto capire molto (anche i lapsus freudiani
contano) è stata la citazione di Don Milani sotto riportata dal
capitolo "Equità". E’ lì il cuore di tutto il documento,
il manifesto pedagogico della destra. Questo cuore percorre tutto il
testo, ripreso da briciole di frasi, contestualizzato dalle proposte
operative.
da…. "Equità"….
Don Milani era solito ricordare
che nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali. Dare
di più e meglio a chi ha meno e peggio è uno dei principi generali
cui il Grl ha cercato di ispirare la proposta di riforma del sistema
educativo di istruzione e di formazione. La giustizia intesa come
equità non si promuove, infatti, con l’uniformità
distributiva, ma con la differenziazione individualizzata
degli interventi e dei servizi.
Ecco: è il sottolineato il messaggio. Prendere un autore di
sinistra (e quale sinistra!) e girarlo a destra a piacimento degli
ingenui. Insomma, ad esempio, il secondo canale duale "non
è" (alla tedesca) una scuola professionale "colta", ma
la differenziazione individualizzata di chi non è dentro all’uniformità
cognitiva dei modelli gerarchici di potere e sapere. Dunque:
esattamente l’opposto di Don Milani: ai malmessi si vuol dare una
scuola comunque ( che cortesia-compassione!), ma non "dare la
scuola a partire da loro", e neppure dare di più a chi ha di
meno perché tutti "diventino sovrani, non ingegneri o
dottori" (Lettera a una professoressa).
Macchè sovrani: qualifiche di basso profilo come manovalanza del
sistema industriale (che per la verità non chiede più da tempo
questo tipo di "professionalità"). Dunque una nuova
selezione sociale prima ancora che culturale, un nuovo Erode.
E, naturalmente, si dice di fare questo per la "vera
giustizia" (è come la giustizia giusta), l’Iva Zanicchi dell’
infatti (buttato lì come banalità del buon senso), l’affermare
che una vera giustizia si fa differenziando. E, che diamine, direbbe
Iva Zanicchi: mica tutti sono fatti per fare l’ingegnere o il
ginecologo. Ci sarà pure qualcuno che farà il pizzaiolo o lo
stradino. Sangue dal muro non se ne cava, è meglio aiutare i più
deboli (ah, è la natura: lo dicono anche i genetisti) ad avere almeno
un posto di lavoro, che far retorica sul diritto allo studio e
lasciare tanti per strada senza titolo. E, per dirindindina, un po’
di sano realismo ci vuole verso questo sinistrume. Al massimo un
"aiutino" agli sfigati, ma basta con gli estremismi
pedagogici.
Non si consideri questa teoria in sé cattiva, anche questa ha una sua
moralità, spesso è trasversale (anche gente di sinistra la pensa
così), è un errore offenderla, bisogna dimostrare invece, laicamente,
che è dannosa.
Il conservatorismo compassionevole
Questa visione neodarwiniana è un perfetto esempio di conservatorismo
compassionevole, e viene dalla destra "colta" degli
Stati Uniti: smetterla con la società delle opportunità, troppo
costosa e inefficiente. Dare a tutti coloro che hanno testa (cioè
soldi) il massimo di chanches di realizzarsi (liberismo assoluto), ma
ai tanti che fanno fatica non abbandonarli né all’insuccesso delle
scuole pubbliche di massa, né per le strade (potrebbero rubare nei
tinelli delle tante villette a schiera). No, tanto vale dare loro
"la compassione", meglio se fatta dalle chiese che dal
welfare pubblico, o dai tanti piccoli Muccioli in espansione. Dare al
"diversi" una collocazione differenziata ma una collocazione
comunque, magari forzata. Anzi, che questi poveracci ci ringrazino:
noi sì che a loro diamo qualcosa, non le chiacchiere della sinistra.
Il pensiero è robusto, fondato su molto senso comune, che anche
tanti insegnanti di sinistra potrebbero fare davanti a teste matte, ad
alunni sfigati, a ragazzine svampite.
Il conservatorismo compassionevole sta innervando le politiche sociali
del governo. Si comprende anche l’apologia del privato nelle
funzioni sociali, perfino il clericalismo delle decisioni morattiane,
ma anche l’imbarazzo della Chiesa, non tutta come monsignor Biffi o
Maggiolini. Non c’entra nulla la "privatizzazione della
scuola" nel senso, ad esempio, della Fiat che gestisce i pulmini
(con la recessione in arrivo!), ma può essere la Nike o la McDonald
che regalano magliette per farsi pubblicità (leggi No Logo di Naomi
Klein).
E’ esattamente l’opposto di "non perdere nessuno", ma
vuole invece "mettere tutti al posto che la natura, la biologia,
la società inevitabilmente mette gli umani, in una scala di
valori". Il conservatorismo compassionevole non è sciocco, è
comunque un "atto sociale", parte anzi dal senso che da
Platone in poi è insito nelle culture occidentali: gli uomini nascono
naturaliter diversi, è della Politica dare ordine.
Il conservatorismo compassionevole attacca il punto di debolezza della
sinistra pedagogica: "avete predicato tanto l’eguaglianza delle
opportunità formative e invece ai poveri non riuscite a dare neppure
un diploma".
Come se fosse colpa della sinistra una scuola lasciata ai margini dei
grandi interessi politici degli ultimi quarant’anni. Proprio qui la
tesi Moratti è insidiosa: ai "diversi" io dò un diploma,
voi neppure quello, un diploma che li farà "servi", ma
almeno con uno stipendio. Anche lei crede nella scuola, non
neghiamoglielo, una scuola che "differenzia" per censo,
intelligenza, fedi religiose, ma che c’è. Come Iva Zanicchi.
Io penso che il conservatorimo compassionevole sia, in realtà, più
che una teoria di attacco, il segno delle difficoltà delle classi
medie, quelle delle partite IVA, davanti alla sfida che le nuove
contraddizioni sociali dello sviluppo e della globalità pone alle
economie e alle società occidentali.
La vita è più difficile per tutti, la competizione è dura,
meglio salvare il nocciolo (le classi dirigenti e ricche) recintando
(differenziando) il malessere sociale ed erodendo la dialettica dei
diritti civili dentro azioni intenzionali di carità sui bisogni.
Meglio, ad esempio, aumentare di un po’ le pensioni individuali
dei vecchi poveri che migliorare i servizi sociali territoriali (ci
penseranno le cooperative di CL), così i vecchi potranno godersi in
televisione "OK il prezzo è giusto"(ah, questa Zanicchi!)
mangiando una brioche piuttosto che pane comune.
Non c’è redenzione in questa teoria, non c’è speranza, non c’è
sogno, c’è solamente paura delle società aperte, c’è
involuzione culturale ed economica che pagherà il paese tutto, anche
la middle class.
Ricordate: "Regina, il popolo chiede pane", e la risposta
"se non hanno pane, che mangino brioches".
Ecco, dunque perché "stati generali". Mi pareva che c’entrasse
qualcosa la rivoluzione francese.
Per una critica culturale alta e non retorica
Dunque, il conservatorismo compassionevole va discusso nel merito e
negli effetti pratici, non nelle retoriche. Cinque esempi che
permettono di interpretare meglio le soluzioni del documento.
Esempio uno. Interessante che Confindustria non condivida il
sistema duale di Bertagna e che un buon numero dei componenti della
Commissione si sia dichiarata non d’accordo su quel testo.
Confindustria attacca sul sistema duale morattiano, considerandolo
vecchio e inutile perché sa che oggi i lavori sono cambiati, che ogni
lavoro –anche lo stradino- ha bisogno di saperi forti, di eretonomia
degli apprendimenti (insieme si impara meglio che per classi
separate), che i lavori sono mutevoli, che non si finisce mai di
imparare. Si badi bene: l’utilitarismo di D’Amato sconfessa l’apparato
scolastico morattiano non solo perché comincia troppo presto (14
anni), ma perché è troppo differenziato (vedi che torna?).
Il timore di Confindustria è di avere certificati e diplomi di troppo
basso profilo, troppo addestrativi. Accidenti, Confindustria sembra
più Rousseau che il padrone delle ferriere di una volta.
Verrebbe da dire, per la verità, che davanti ad un governo che nei
primi mesi ha sistemato i conti dei suoi ricchi, ma sembrava ancora
"laico" sul resto, affiora un’anima reazionaria superiore
al previsto. Altro che le tre "I", qui ci sono le tre
"S": selezione, selezione, selezione.
Esempio due. Ha colpito l’apologia della scuola materna e la
storia del credito. Un maligno potrebbe dire: "per forza lì c’è
il massimo di scuole delle suore". Ma in ottanta pagine qualcosa
di buona c’è sempre. Anche Erode accarezzava i barboncini. Quindi
fa piacere sentir parlare bene della scuola dell’infanzia.
Il credito, invece, è il segno di un modello perverso. L’effetto è
chiaro. Di fatto potrà essere utilizzato o dai signorini baypassando
il primo anno di liceo, o dagli sfigati che faranno un anno di meno di
professionale per andare a lavorare prima. Nel primo e nel secondo
caso un messaggio socialmente malevolo. Dannoso per i signorini
(abituati presto a sgomitare), gravissimo per i deboli, incentivati a
studiare meno.
Questi sono i guasti di un delirio dell’individualismo puro, dell’assenza
di senso sociale della scuola.
I guasti saranno di una disarticolazione e di una differenziazione in
basso e in alto marcatissima.
Esempio tre. Clamorosa è la questione del tempo scuola e della
sua forte riduzione. Poche ore, poche maestre e uniche, il resto
facoltativo (se ce n’è bisogno), il successivo resto perfino a
pagamento. E’ l’apologia del "meno possibile uguale per
tutti", tutto il resto alla differenziazione. Accompagna questa
suggestiva nuova teoria del tempo quella di separare (differenziare:
torna!) l’istruzione dalla socialità.
Come se fosse possibile: si imparano le cose, ma si impara a vivere,
si impara insieme, si vive imparando. Questa separazione tra
istruzione e socialità è pedagogicamente inutile, perfino
scientificamente errata.
Una recente ricerca internazionale dimostra che i bambini Down
italiani hanno il 30% di quoziente intellettuale superiore ai colleghi
tedeschi e belgi (chiusi nelle classi speciali) solo perché stanno in
mezzo a tutti gli altri bambini. La socialità è apprendimento.
Conosco molto bene le scuole in ospedale. Lì, i bambini attraverso l’apprendimento
e il contesto della scuola sono anche aiutati a superare meglio i
traumi terapeutici. Ancora De Rita apprezza il nostro paese perché sa
mettere insieme "testo" e "contesto". Bertagna/Moratti
no: solo insegnare, solo selezionare.
Sappiamo che il poco tempo frega i più deboli, ecco perché il poco
tempo è selezione nei fatti. Sappiamo che se il resto del tempo è
"facoltativo" (i bisognosi con i bisognosi, gli sportivi con
gli sportivi) non aumenta le intelligenze di nessuno, aumenta solo la
disgregazione sociale. Ricordate la teoria prossimale di Vigotsky e le
sue idee sulla classe come eteronomia positiva?
Curioso, poi, è che il modello didattico del poco tempo e della
maestra unica sia l’opposto della scuola dell’autonomia e della
flessibilità. Dunque: degli iperliberisti contro l’autonomia,
statalisti di ritorno? Vuol dire che la partita è più alta:
selezionare presto è l’obiettivo di fondo (comunque l’esito che
si realizzerà), anche sacrificando l’autonomia, che per questo va
ristretta (altrimenti vanno avanti in troppi!).
E, infine, lasciare il sociale fuori della scuola (che deve solo
"insegnare") è un’offesa a tutto ciò che da anni diciamo
sull’"integrazione" tra scuola e territorio. E’ la
disintegrazione sociale, non la maggior efficienza di nuovi oratori
che sento nascere (è il modello Muccioli) per un nuovo pesante
controllo ideologico. Nell’oratorio è più facile guardare la
signora Zanicchi e sognare di indovinare il prezzo.
Esempio quattro. Non è un caso che la parola curricoli sia
sostituita da "piani di studio". Non è un caso la disistima
della didattica presente nel documento. Quello che conta per Bertagna
sono i contenuti, non quelle "sciocche" teorie sulle
competenze, soprattutto quelle trasversali.
Tornano quindi i contenuti: belli tosti, lineari, secchi, uno per uno
senza tante chiacchiere.
Chi mi conosce sa che già ai tempi di De Mauro criticavo la deriva
troppo disciplinare che i suoi programmi abortiti contenevano.
Figuratevi la ma opinione su questi: vecchia spazzatura inutile.
La questione è culturale e trasversale, non è di destra o di
sinistra.
Peccato che ormai la cultura non va più nelle chiuse corsie delle
discipline, che l’epistemologia si è frantumata in nuovi canali
inter- , trans-, multi-, ecc. Peccato che oggi si apprende moltissimo
per strada, in tv, via internet, che anzi siamo davanti all’obesità
cognitiva di ragazzi che sanno troppe cose, ma non sanno dare senso
alle cose che sanno. Serve una scuola degli essenziali, soprattutto
"delle menti" più che delle discipline, capaci di imparare
sempre anche da adulti, capace di interpretare i nuovi saperi.
Ci serve una scuola ermeneutica, del senso delle cose, che si
fa per antonomasia "insieme", con il punto di vista di
tutti, non nel chiuso di classi-batterie da polli confessionali,
intellettivi, di censo sociale.
E’ evidente, invece, che un piano di studi così fatto diminuirà la
cultura degli italiani, soprattutto la creatività, e aumenterà la
selezione. Non servirà allo sviluppo economico e tecnologico. Ma
aumenterà le domande di coloro che vorranno partecipare ai quiz di
Gerry Scotti ("ho fatto il classico. quindi penso di poter
rispondere, ha detto una signora l’altra sera in tv). E comunque c’è
sempre l’aiutino. Iva Zanicchi.
La scuola italiana non ha il problema di cosa si insegna, ma di come
si insegna. Una grande tragedia didattica che dura da un secolo.
Esempio cinque. Si capisce perché si vuol tenere separate la
scuola elementare e la scuola media. Non è per fare un piacere alla
Cisl (fregata poi sul tempo pieno e i moduli: che bel
ringraziamento!). No: il fatto è culturale e c’entra poco con la
questione della "fanciullezza" (a proposito ritorna la
famigerata parola?) e della preadolescenza. Ci vogliono
"salti" per mettere alla prova le intelligenze dei bambini,
separarli da sé presto per vedere chi resiste. Bertagna,
naturalmente, la chiama "orientamento" guidato.
Senza tornare alle nostalgie del modello lungo di Berlinguer (che
aveva lo scopo inverso: dare più tempo a tutti per crescere), bisogna
ricordare che, a proposito della recente ricerca OCSE di cui molti
hanno parlato, il paese europeo che ha gli esiti migliori in lingua e
matematica a 15 anni è la Finlandia, che ha un ciclo di base lungo da
settant’anni! Lo sappiamo tutti che la separazione medie-elementari
è dannosa ai bambini e non basta certo la chiacchiera
"diplomatica" tra maestri e professori nei due anni-ponte.
No, la filosofia implicita è chiara, ma si deve dire anche
pragmaticamente dire quelli che saranno gli esiti: aumenterà l’insuccesso
scolastico, soprattutto dei più deboli.
Ripartiamo da Barbiana?
Il documento Bertagna-Moratti è una visione del mondo e una
pragmatica della politica.
Per me le visioni del mondo sono biografiche. La storia è fatta di
storie, di tanti pezzetti individuali.
Dobbiamo contrapporre le nostre storie al pessimismo cinico che copre
le teorie Bertagna-Moratti, la loro assenza di ottimismo sull’umano.Ritiriamo
fuori le nostre storie e le nostre visioni del mondo.
Ho fatto le magistrali perchè duravano quattro anni. Mio padre faceva
il tranviere, mia madre puliva le scale. Ma eravamo felici: da mio
padre partigiano a mia madre cattolica mi veniva l’ottimismo del
futuro.
Alle magistrali il prete di religione, nel 1967, mi ha letto
"Lettera a una professoressa". Ho sentito il brivido dentro
la schiena: quel Gianni ero io! Avevo finalmente l’orgogliosa
coscienza di classe: sono un proletario! Ho sentito la rabbia violenta
dell’adolescenza: la ferita dell’ingiustizia sociale come vera
lacerazione degli umani: sarò comunista! Ho sentito il fluido magico
delle scelte della vita: sarò maestro!
E così è stato. Proletario non lo sono più, comunista anche, ma
quella visione del sogno di un progetto di vita che vuole una vera
giustizia sociale incarna le mie fatiche, i miei desideri di maestro.
Come sono ancora, come siamo in tanti, amici e colleghi che conosco.
Con i quali dobbiamo riprendere a credere.
Questa storia non è finita. Ce n’è ancora per tutti.
Sempre in primavera, ogni anno torno a Barbiana. Lì ci sono le mie
radici, le radici di molti di noi, che sono sempre quelle del 67 e
buttano ancora fuori linfa (ecco perché la primavera!).
Il 21 marzo 2002 vorrei andare a Barbiana con tanti amici.
Mi piacerebbe "ripartire da Barbiana", non
"ritornare". Non siamo reduci: siamo ancora in piena
battaglia.
L’ho già fatto nel 1994 con un centinaio di persone (primo governo
Berlusconi). Oggi vale doppio.
Ripartire da Barbiana con l’orgoglio di una visione del mondo che
diventa la pratica delle nostre azioni.
Per il bene dei nostri bambini e bambine, per il bene del paese.
Ravenna, 16 dicembre 2001 |