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Alcune note (im)pertinenti
intorno
al codice disciplinare dei dirigenti scolastici di Cinzia Mion Capii che l’aria era cambiata già nel 2003… Mi trovavo ad una riunione
provinciale dell’ A.N.DI.S
(Associazione Nazionale Dirigenti
Scolastici) a Treviso ed avevo appena avanzato la proposta di lettura
critica delle “Indicazioni Nazionali per i piani di studio
personalizzati”, attinenti alla riforma Moratti, di cui circolavano già
le bozze, in attesa dell’approvazione del decreto n° 59/2004,
che
avrebbe definitivamente e ufficialmente varato la riforma suddetta. Godevo
di stima e prestigio all’interno
dell’Associazione e mi stupii che la mia proposta fosse caduta
nel
vuoto, nonostante avessi nel corso dell’assemblea ottenuto condivisione
alla esposizione della mia analisi. Mi raggiunsero all’uscita due
brave colleghe che con aria che si riserva alle notizie confidenziali mi
sussurrarono: - Lo
sai che ora noi rischiamo il trasferimento
d’ufficio se non ci dimostriamo
in linea
con l’Amministrazione…? Inutile dire che rimasi basita e che forse sto ancora
pensando alla risposta da dare. Ricordo soltanto che pensai né
più né meno quello che ero abituata a
pensare quando mi trovavo di fronte a decisioni difficili
che
potevano farmi prevedere un danno – sia sul piano personale che su
quello professionale - ma che dall’altro piatto della bilancia mi
facevano prendere in considerazione un
carico da novanta, vale a dire
la mia libertà di pensiero e di espressione,
nonché la coerenza e il coraggio del
passaggio all’azione che ho sempre tenuti in
grande considerazione fin da quando ero bambina.
In parole povere ho pensato: ma se io fossi trasferita d’ufficio sarei
in grado di sopportarlo? E subito dopo: come potrei usare in favore del
mio impegno politico di cittadinanza tale sanzione inflittami per aver
non solo espresso il mio pensiero,
tutelato dalla Costituzione (art. 21) ma, a
parer mio,
anche nell’interesse dell’Istituzione Scuola e dei
soggetti di cui questa deve farsi carico? Il principio infatti che aveva
sempre retto il mio lavoro a scuola era cercare di garantire
il più possibile il
diritto
all’apprendimento per tutti, principio
sancito anche dal Regolamento dell’Autonomia delle scuole,
che parla di successo formativo per tutti, ma
che io avevo sposato dal mio primo giorno di lavoro come docente,
sostenuta e illuminata dal Movimento di Cooperazione Educativa. Questo dialogo interno mi ha sempre confortato anche quando il prezzo da pagare, in termini di costo emotivo, è stato alto come quando ho sfidato un notabile di Conegliano (marito di una docente e padre di una alunna) che mi ha denunciato alla Procura della Repubblica perché avevo convinto il Consiglio di Circolo a votare un orario scolastico, nel lontano 1987, in cui le attività integrative venivano collocate di mattina - al fine di valorizzare le risorse assegnatemi ed evitare una dispersione facoltativa pomeridiana - rendendole perciò di fatto obbligatorie e quindi un arricchimento per tutti. Naturalmente però al pomeriggio era obbligatorio un rientro pomeridiano curricolare, rientro che prima della riforma aveva disturbato qualcuno. (ed ora?!!!) Erano altri tempi in cui la passione per una scuola di
qualità era in cima alla graduatoria dei valori. Il procuratore diede ragione a
me perché la legge parlava di orario
aggiuntivo non di mattina o pomeriggio. Ai giorni nostri Il 15 novembre 2009 è entrata in vigore la riforma
Brunetta, varata allo scopo di aumentare e la produttività del lavoro
pubblico e l’efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione
: intenzione ammirevole e condivisibile. Il 21 ottobre di quest’anno
però il Codice Brunetta è stato recepito
in toto
dal Ministro Gelmini che, nel sito del
Ministero dell’Istruzione, ha pubblicato “Il
codice disciplinare” per i dirigenti scolastici, contenuto nel contratto
di lavoro dei dirigenti scolastici per il quadriennio 2006/2009. Il giro di vite nei confronti
dei dirigenti scolastici che mi interessa qui sottolineare e che ha
suscitato un qualche vespaio (ma non come mi aspettavo) è quello che
riguarda le dichiarazioni pubbliche e le interviste, come
si evince dall’articolo 11, comma 2, del Codice di comportamento dei
dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni che recita “Il
dipendente si astiene da dichiarazioni
pubbliche
che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione”
anche se lo stesso articolo però garantisce a tutti i dipendenti il
diritto di
“esprimere valutazioni e diffondere informazioni a
tutela dei diritti sindacali e dei cittadini”
E
poi aggiunge :”Il
dipendente tiene informato il dirigente dell’ufficio dei propri rapporti
con gli organi di stampa.” Fin qui il codice Brunetta
riferito a tutti i pubblici dipendenti ma, secondo me, il fatto un po’
increscioso su cui desidero attirare l’attenzione
è quello per cui, senza fare nessuna
riflessione sulla specificità della scuola, l’articolo
suddetto è stato assunto e tradotto
tout-court
dal Ministro Gelmini direttamente nel
cosiddetto Codice Disciplinare: codice che individua le sanzioni per
chi, tra gli operatori scolastici, si trova a trasgredire con
determinati comportamenti le norme indicate. Infatti
vengono
sciorinate le
diverse sanzioni tra le quali si trovano, all’articolo 16, la
sospensione
dal servizio, con privazione della retribuzione
da un minimo di tre giorni fino ad un
massimo di sei mesi (!), sanzione che si applica nei diversi casi tra
cui al punto
c) “per
manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’amministrazione salvo che
siano espressione della libertà di pensiero…” Problemi Il
primo problema che sorge può essere
definito attraverso una domanda essenziale: quale percorso ha seguito il
Ministro,
o i suoi consiglieri,
per assimilare d’acchito Con questi atti “le scuole non
sono più intese solo come il terminale ultimo di processi decisi
altrove, ma divengono in qualche modo soggetti abilitati a governare una
parte di questi processi“(vedi V.Campione , relazione tenuta nel 2008
alla
fondazione Agnelli) In questo scenario il punto
centrale del processo è la riorganizzazione del rapporto tra centro e
periferia,
con la difficoltà di misurarsi con cambi di
governo, controffensive della burocrazia ministeriale e difficoltà ad
implementare nelle scuole reali la vera cultura dell’autonomia che
poggia su una corresponsabilità circolare e non più verticistica. Alla luce allora dell’autonomia così concepita ognuno oggi, nella scuola e nella comunità di appartenenza, deve darsi da fare per costruire un sostanzioso capitale sociale, ossia delle relazioni fiduciarie tra scuola, famiglia, Enti Locali e forze socio-culturali che sviluppi condivisione e riflessività, al fine di realizzare insieme la migliore scuola possibile per le giovani generazioni di quel territorio.
Riflessività,
non semplice
esecutività
od obbedienza. Il
secondo
problema è conseguente al primo: la
dirigenza scolastica non è una semplice dirigenza amministrativa,
tanto è vero che per potervi accedere non è
sufficiente una laurea giuridica ed un
concorso ma,
oltre naturalmente alla laurea - meglio se
attinente ad un percorso di approfondimento psicopedagogico – serve,
prima di accedere al concorso,
un curriculum specifico di esperienza
scolastica di ruolo,
per
almeno 5 anni. Il concorso, attraverso il
quale vengono selezionati i futuri dirigenti scolastici, verte sulla
valutazione indispensabile di un buon livello di cultura generale, di
cultura giuridica ed organizzativa e di quella specifica che attiene
alle cosiddette scienze dell’educazione tra cui la psicologia
dell’apprendimento. Senza dubbio è questo infatti il contenuto
specifico delle professionalità che
vengono impiegate nella scuola, istituzione
deputata
alla educazione, istruzione e formazione delle giovani generazioni,
costituite da
soggetti in evoluzione
non da clienti, come ancora qualcuno asserisce, ingenerando un equivoco
che porta all’assimilazione della scuola alle altre amministrazioni che
erogano servizi di vario genere. Tutti sanno inoltre, argomento
non senza rilevanza logica, che la dirigenza scolastica
non è assimilabile alla dirigenza amministrativa
anche per diversità di riconoscimento economico… Forse è per questo che qualche
collega, invece di essere orgoglioso di questa dirigenza specifica che
gli offre delle
lenti peculiari per leggere le
problematiche della scuola e per attivare delle soluzioni congruenti ed
adeguate alla sua
governance,
vagheggia, argomentando elucubrazioni giuridiche, l’assimilazione
appunto delle due dirigenze per
cui, per esempio, un dirigente delle poste potrebbe essere
intercambiabile con uno scolastico e viceversa! Tutti dovremmo renderci conto
delle differenze delle decisioni che vengono assunte, del livello di
discrezionalità che un dirigente
scolastico deve saper gestire,
a seconda dei soggetti che ha davanti,
siano essi docenti od alunni o genitori.
Tutti dovremmo essere consapevoli del livello di preparazione complessa
e specifica di cui sono intrisi gli atti per cui ogni azione emanata
nell’esercizio delle proprie funzioni
acquista valore se frutto di alcune riflessività
che attengono al bene della scuola e degli allievi. Tutto nella scuola è
finalizzato al miglioramento ed all’organizzazione dei contesti sociali
più efficaci per facilitare l’apprendimento e la formazione, a partire
dagli spazi e dai tempi, per cui l’aderenza alle direttive deve essere
filtrata, accompagnata, piegata alle situazioni. Per mia esperienza non esiste
oggi nella scuola semplice
esecutività,
o comunque non dovrebbe esistere.. La complessità infatti
dell’organizzazione scolastica e la presenza appunto di soggetti che
hanno sempre più bisogno di ascolto e comprensione, di attenzione
curante, non solo di applicazione di circolari,
deve incrociare la figura di un dirigente
che si faccia attraversare dai dubbi, dai dilemmi,
dai conflitti di valore e che dimostri
perciò di essere un professionista
riflessivo, non un semplice impiegato
obbediente oppure un tecnico, esperto di leggi e di cavilli, e
preoccupato solo di applicarli
alla
lettera per non incorrere in sanzioni o
dispiacere
al direttore regionale o al ministro di turno. Sempre infatti nelle
pieghe delle norme si nascondono delle opportunità che si possono
sviluppare, senza con ciò violare le norme
stesse, ma che bisogna saper scovare. Questo avviene però solo sulla
spinta
del desiderio di rendere l’organizzazione più
adeguata all’apprendimento ed
alla creazione di una relazione interpersonale più significativa tra
tutti gli operatori,
ma soprattutto tra docenti ad alunni. Spesso
sono le strutture non verbali di spazi e tempi, che parlano
autenticamente più di tanti POF patinati, che rivelano scelte
di
operatività
o di
frontalità,
che danno più informazioni sulla qualità
dell’offerta formativa. Anche le aule parlano
di
cura,
o
non-curanza, con
cui vengono tenuti in considerazione, oppure resi squallidi e disadorni, i
luoghi del vivere scolastico,
che dovrebbero offrire tracce contenenti
il
senso del lavoro dei ragazzi che lì
vivono o (sopravvivono) ed imparano. Il
terzo
problema è distinguere il confine tra
manifestazioni ingiuriose ed espressione della libertà di pensiero. Il
fatto è che i vertici dell’amministrazione, nella fattispecie i
ministri, non sempre sono individuati tra coloro che hanno competenze
nelle problematiche scolastiche per cui può diventare ineludibile, da
parte di chi invece vive nella scuola e la governa da tempo, accorgersi
che determinate emanazioni, siano direttive, circolari o decreti, male
si attagliano alla realtà scolastica ed all’idea di scuola che la nostra
Costituzione delinea.
Dilemmi Allora sorgono i dilemmi. Per
esempio, oggigiorno,
è
ingiurioso dire che
il
Ministro Gelmini confonde il
merito
con la
selezione?
Spiegando che
il vero merito consiste nella fatica di rendere di qualità la scuola di
tutti? Troppo facile scremare le
eccellenze… Ed ancora : - che la sua riforma sta affossando la scuola
pubblica? - che la valutazione sommativa,
scandita dai voti numerici su scala decimale,
ha cacciato indietro la scuola agli anni
antecedenti la riforma della scuola media unica e,
naturalmente, ha
cancellato Oppure
tutte
queste affermazioni sono espressioni della libertà di pensiero in quanto
argomentabili e dimostrabili? Il problema più evidente però,
e personalmente lo dico con grande rammarico,
è
che il mondo della scuola oggi è abitato spesso da
qualcuno più
realista del re. Intendo dire che spesso
colleghi ed insegnanti, prima ancora che determinati regolamenti fossero
approvati, si sono fiondati ad applicarli senza fare nessuna riflessione
ed ipotesi sulle possibili conseguenze, per cui,
non dico di disattendere la loro applicazione, ma
penso che sarebbe stato opportuno cercare almeno di vedere come
piegare
il contenuto della norma in modo da non farlo confliggere con l’idea di
scuola portata
avanti dai Collegi dei docenti ed esaltata
dai diversi POF. Faccio riferimento ad un’idea di scuola aperta e
democratica, innovativa ed operativa, che sempre,
fino alla fine degli anni 90, è stata la nostra
stella polare. L’aspetto più incoraggiante è stato quello che i diversi
governi anticipavano con le loro leggi le riflessioni sulla innovazione
scolastica - e non solo (!) - e quindi ci orientavano e ci stimolavano a
migliorare indirizzando la formazione in servizio. Non come ora che si
legittimano i conservatorismi, o peggio gli arretramenti,
chiamandoli riforme, inducendone
l’applicazione attraverso la sottomissione al potere esecutivo, in altri
termini al potere politico di turno, come si
sta cercando di fare con la giustizia. Ora sta toccando alla
scuola attraverso un
neocentralismo inusitato ed autoritario. Sento a tale proposito troppo silenzio, anche
provenire dalle scuole. Temo che sia già successo qualcosa di irreparabile. Le civil servant Proviamo però a non liquidare
la questione in modo troppo frettoloso. Allora chiediamoci in che cosa
consiste essere oggi un “civil
servant” anche quando non si condivide
ciò che la propria amministrazione
sta facendo. Io penso,
proprio perché noi stiamo offrendo un servizio al cittadino,
nel senso nobile del termine, che dovremmo
metterci in gioco spiegando nelle diverse sedi: riviste, stampa
specializzata, siti internet, audizioni
ufficiali che vengono organizzate e che non mancano,
il nostro punto di vista.
Ho detto che dovremmo spiegare, sottolineare
i nostri rilievi, non sottrarci per pigrizia o sfiducia,
farlo in modo
garbato ma
schietto, senza servilismi ed
infingimenti,
con tutto lo spessore delle nostre
argomentazioni che hanno imparato a bilanciare l’interesse
dell’amministrazione con quello di tutti gli studenti e con il dettato
della Costituzione. Soltanto nei confronti della
Costituzione infatti io scomoderei il termine
fedeltà, non
di sicuro nei confronti dell’Amministrazione, che cambia indirizzo al
mutare del ministro, verso il quale direi di parlare di
lealtà.
Ma la lealtà consiste anche
nel mettere in guardia prima che l’altro possa sbagliare, è per questo
che nel Codice Etico dei Dirigenti Scolastici
abbiamo
scritto
all’articolo 6 del titolo 2 “Il dirigente
scolastico svolge la propria attività con l’impegno necessario al
raggiungimento dei risultati attesi;
fornisce,
nell’ambito della propria autonomia professionale, corretti
e trasparenti elementi all’Amministrazione
Regionale e Centrale, anche per evidenziare eventuali carenze e
inadeguatezze che a suo avviso potrebbero compromettere la qualità del
servizio scolastico.” Il vero dramma, che il deficit
di etica pubblica continua a legittimare, è che chi sta dalla parte del
potere
fa finta di ascoltare,
perché tutto è già deciso: ciò che conta è
sbandierare che ha
sentito tutte le
associazioni per poi
lasciare tutto immutato. Cittadini o sudditi? Ma chi è quel collega o
docente che ha la vocazione ad essere
più realista del re? Forse si può rispondere
così: innanzitutto chi si è sempre riconosciuto nel progetto della
scuola elitaria ed ha sempre morso il freno di fronte alle varie
proposte per una pedagogia popolare, da Freinet in poi. Poi chi è pusillanime ed ha paura della sua ombra e
pensa che l’unica strada senza incognite o rischi è quella di eseguire
gli ordini senza fiatare. Alla fine poi si tratta di
imparare “Cittadinanza e Costituzione” non solo dal punto di vista delle
conoscenze ma anche delle
competenze,
in altre parole si tratta di imparare ad assumere l’impegno e la fatica
di pensare per essere veramente
cittadini e prendere le distanze dalla
seduzione comoda della sudditanza che suggerisce scorciatoie. Qui mi sorregge Montanelli
con la sua celebre frase: ”La
servitù,
in molti casi,
non è una violenza dei padroni,
ma una tentazione dei servi” |
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