UN PO’ DI STORIA
Correva l’anno 1994 …….
Per chi non lo ricorda fu l’allora
Ministro D’Onofrio del governo Berlusconi ad emettere nell’estate
del 1994 un D.L. sull’abolizione degli esami di riparazione. Già
allora il dibattito fu acceso e la sinistra, spiazzata da un
ministro di centro-destra per un decreto che sul piano almeno del
principio faceva parte del suo programma, dopo averne criticato il
carattere di improvvisazione, cercò di applicarlo una volta tornata
al governo con Lombardi prima e Berlinguer dopo, senza mutarne le
caratteristiche di fondo.
All’epoca uscì un libricino, al
quale concorse modestamente anche il sottoscritto (con Barbieri,
Rembado ed altri) in cui si mettevano in evidenza i rischi e le
difficoltà alle quali si sarebbe potuti andare incontro se tutta la
questione non fosse stata inquadrata all’interno della problematica
più ampia del rinnovamento della Scuola. Il titolo del libricino
(ora pressoché introvabile) infatti era proprio “La Scuola si
rinnova?” della casa editrice Philos, che sono andato a rileggermi
in questi giorni e che ho trovato di stringente attualità. (vedi
allegato)
Poi, come sempre succede,
l’argomento fu abbandonato. Le Scuole continuarono a ricevere i
fondi sulla L. 440, i corsi, che prima erano stati combattuti perché
“ingestibili”, si fecero comunque; poi venne il malaugurato accordo
OOSS/MPI di destinare i “risparmi”sui corsi non fatti al Fondo di
istituto e tutti si acconciarono alla situazione..
13 anni dopo: il D.M. 80 di Fioroni:
quando l’esperienza non interessa
Superata la fase delle critiche e
proteste a seguito della emanazione del D.M. 80 e della successiva
O.M. 92 sul “ritorno agli esami di riparazione”, come furono
interpretati non del tutto a torto, da parte non solo degli
studenti, ma anche di molti docenti, l’attenzione si è spostata
principalmente sulle procedure, sugli aspetti organizzativi e sugli
aspetti finanziari (se 300 mila Euro circa vi sembran pochi!!!!!)
Non che questi ultimi non siano importanti, in particolare quelli
“organizzativi” per i riflessi che hanno sulla qualità degli
interventi. Pochi si sono posti la questione sulla validità degli
stessi. La domanda vera avrebbe dovuto essere: ma servono davvero
questi interventi di recupero dei debiti nelle superiori? Vale la
pena spendere tanti soldi? E cosa ci ha insegnato l’esperienza
precedente? Silenzio.
Una delle poche voci “fuori dal
coro”, a parte l’ex Ministro De Mauro (con una intervista al
Corriere il giorno dopo il D.M. 80) e naturalmente gli “orfani”
della Moratti (Aprea in testa), mi è parsa quella di A. Valentino,
dirigente scolastico con un passato da sindacalista di sinistra, il
quale in un suo intervento di qualche tempo fa (“BOCCIATURE E
DEBITI NELLE SUPERIORI. FIORONI ALL'ATTACCO in
www.oggiscuola.org) afferma giustamente che il problema sta più
a monte. Più che soffermarsi a discutere se sono stati ripristinati
gli Esami di riparazione oppure no, la vera questione è soffermarsi
sui “debiti” e sul loro significato, sul perché si originano e
quando si originano (soprattutto su quest’ultimo, come dirò)
E’ sembrato a molti che con D.M 80
sia iniziata una nuova “era”, quella del rigore e della serietà: c’è
voluta una indagine statistica condotta alla fine degli ultimi Esami
di Stato perché si scoprisse quello che era noto da tempo: la
montagna di “debiti non saldati
L’introduzione della verifica prima
dell’inizio del nuovo anno con la possibilità di non passare
all’anno successivo è stata vista come la panacea e ci si è
dimenticati di ciò che si è sempre saputo a proposito degli esami
di riparazione, giustamente aboliti. Che non solo costituivano uno
scandalo per gli interessi corposi che ci stavano dietro, ma
producevano vere e proprie sanatorie di cui chi insegna da alcuni
anni ha buona memoria. Qualcuno, come Sugamele (anche lui ex
sindacalista CGIL negli anni 80, successivamente “passato” alla
Moratti) ha parlato di ritorno a Gentile, esagerando indubbiamente
per spirito polemico questo che è comunque, checché se ne dica, un
ritorno al passato. Il sottoscritto ricorda molto bene il titolone
dell’Unità nell’estate 1987: “ Mai più esami di riparazione” e la
battaglia della CGIL di allora, Trentin in testa, per eliminare lo
sconcio delle lezioni private estive, quasi mai dichiarate
fiscalmente.
A costo di scandalizzare qualcuno
dirò che le “sanatorie settembrine” di un tempo nella maggior parte
dei casi avevano pur sempre una loro giustificazione e
didatticamente parlando si può dire che non solo non fossero poi uno
scandalo, ma nella maggior parte dei casi erano logiche e razionali,
nonostante alcuni eccessi. Perché, bocciare a settembre per una
materia non “riparata”, ma anche per due insufficienze confermate,
non aveva alcun senso, se il giudizio complessivo del Consiglio di
classe era comunque “positivo”. Così recitava la norma di allora e
così ci si comportava, anche se dopo lunghe discussioni; e così
giustamente viene ripetuto oggi dopo l’O.M. 92 (vedi faq del
Ministero) Non voglio certo difendere un certo lassismo, specie
negli ultimi tempi, ma ammettiamolo, almeno noi vecchi docenti “di
lungo corso”: quanti sono usciti dal Liceo classico senza una
competenza accettabile nella traduzione dal latino o dal greco? E se
uno studente dello scientifico aveva nel corso della sua carriera
scolastica il “buco” costante in filosofia, forse veniva fermato o
indotto a cambiare scuola?
Ma soprattutto a me sembra
fondamentale una domanda, che si fa ad esempio Sugamele “È
verosimile che in una scuola dove l’alunno non sceglie nulla ma
tutto gli è imposto e che si fonda su 12-14 discipline ciascun
ragazzo sia “preparato” su tutto e nei medesimi tempi? Un
enciclopedismo che Guido Calogero riteneva utile per formare
“chierici e parrucche”.
In una scuola siffatta, ricordando Salvemini: si può rivendicare il
“diritto all’ignoranza”? Almeno in qualche materia?” O ci siamo
dimenticati i casi di Carducci, bocciato in italiano, e Einstein
“insufficiente” in matematica negli studi liceali?
Sono questi alcuni dei nodi con cui
bisognerebbe confrontarsi più che sul ripristino delle verifiche di
fine estate e invece si continua a dire che il gap degli studenti
italiani dipende ancora e sempre dal 68, a cui di solito si fanno
risalire non solo i mali della scuola, ma dell’intera società e a
cui evidentemente sono da far risalire anche i “debiti” non saldati
di oggi
Chi scrive ne è convinto fermamente
e credo di essere in buona compagnia (Valentino è tra questi):
l’operazione “recuperi” avviata da almeno dieci anni, dopo
l’abolizione degli esami di riparazione, è fallita per una serie di
ragioni e di ostacoli che andrebbero approfonditi. E non varrebbe
la pena riproporli ameno che ……. Non si ripartisse proprio da quello
che non si è voluto fare. E’ MANCATA IN SOSTANZA UNA SERIA
RIFLESSIONE CRITICA SULL’ESPERIENZA ULTRADECENNALE SUI CORSI DI
RECUPERO
Il discorso sarebbe lungo e mi si
perdonerà se parto da alcune premesse per arrivare poi alle
conclusioni (che, come) si vedrà, conclusioni non sono, ma una
proposta di “ripartenza”
DA DOVE riPARTIRE?
Il discorso a mio parere si dovrebbe
muovere su due binari
-
Fare chiarezza sui termini, evitando
equivoci e confusioni di carattere terminologico-concettuale
-
Esaminare lo stato reale della
Scuola superiore di oggi senza affidarsi a una Scuola “che non
c’è” (almeno nella gran parte dei casi) e non solo alla
Scuola superiore
.1)
Fare chiarezza sui termini
A) “DEBITI E CREDITI”
Comincerei intanto con l’uso di
parole tratte come al solito dalle esperienze aziendalistiche, come
era di moda negli anni 90.
Quando per la prima volta si
cominciarono ad usare parole come “crediti” e “debiti” scolastici,
la mia reazione, ma non solo mia, fu di un rifiuto concettuale
(passi per “crediti”, ma cosa vuol dire avere dei “debiti
formativi”? si è in genere “debitori” nei confronti di qualcuno, ma
qui non si capisce chi è il creditore!)
Ma la cosa più importante è che con
tale espressione si andava verso una “contabilizzazione” delle
carenze più che verso una “comprensione” (nel senso di indagarne
l’origine e le ragioni che stanno in profondità) delle stesse. Di
quali “carenze” (o debiti) stiamo parlando? Le carenze possono
essere di vario tipo ed è importante saperle individuare al fine di
approntare gli opportuni “interventi didattici ed educativi
integrativi” Quante scuole hanno fatto uno “screening delle cause
delle difficoltà ricorrenti negli studenti per ciascuna disciplina o
ambito disciplinare e quante hanno individuato le metodologie mirate
al tipo di difficoltà”, come propone ad esempio la collega Mezzina
(vedi i suoi stimolanti e concreti interventi su
www.edscuola.it; en passant, si vede che vive nella scuola a
differenza di quanti “parlano” di scuola nelle varie sedi
“distaccate”) ? La verità è che un serio “recupero” disciplinare
richiederebbe una analisi approfondita dei “nuclei fondanti” della
disciplina, dei fondamenti epistemologici, delle abilità specifiche
e trasversali, delle mappe concettuali e via di questo passo. Ne
tratterò brevemente dopo
B) SOSTEGNO-RECUPERO
Si prenda ancora ad esempio la
distinzione tra “recupero” e “sostegno”. :
Con un salto logico-concettuale
l’Ordinanza fra rientrare il “sostegno” nelle attività di recupero
(?). Finora si era pensato il contrario o comunque nessuno aveva
pensato a una così netta distinzione! Una distinzione marcata a tal
punto che per gli uni e per gli altri si prevedono tempistiche
diverse e obblighi diversi (obbligatori i corsi di recupero,
facoltativi quelli di sostegno). A parte l’aspetto discutibile di
voler imporre alle scuole indicazioni che dovrebbero rientrare nella
loro sfera di autonomia, si è riflettuto abbastanza sul significato
dei due termini?.
L’impressione è che obbligando le
Scuole a svolgere i corsi di recupero si sia voluto privilegiare un
aspetto solo del problema: il debito disciplinare o le
“insufficienze” che compaiono sul tabellone degli scrutini,
sorvolando sulle carenze “trasversali” o su altri elementi come se
queste non concorressero o addirittura non fossero determinanti per
le “carenze” specifiche anche delle varie discipline, portando alla
fine all’insuccesso scolastico.
La distinzione tra sostegno e
recupero compariva in effetti nel primo decreto dell’agosto 94 ma fu
poi sostituito nell’O.M.9.11.94,
n. 313,
con una espressione ben più adeguata, vale a dire “Interventi
didattici educativi integrativi (i famosi IDEI)
A me sembra che la differenza non
sia di poco conto. Tornare ai corsi di recupero distinguendoli dal
“sostegno” si vuole proprio porre l’accento sulle carenze di tipo
disciplinare, che normalmente vengono identificate con carenze di
tipo contenutistico. E si riducono nella maggior parte dei casi a
vere e proprie “ripetizioni” per i “ritardatari” o “recuperanti” o i
distratti o gli svogliati, in sostanza coloro “che non hanno voglia
di studiare” (non coloro che “non sanno studiare” che è ben altra
cosa su cui sarebbe semmai da indagare). Ma se le cose stanno così
è il “sostegno” a dover costituire la parte ordinaria e
permanente dell’offerta formativa e non i corsi di recupero, che
ne sono solo uno strumento limitato e in qualche caso inutile, come
l’esperienza ha dimostrato “Mai più corsi di recupero”: sarebbe da
dire sempre con Valentino
In effetti il fine principale da
raggiungere non è quello di colmare delle lacune o una insufficiente
preparazione in una disciplina (potrebbe essere anche questo), bensì
acquisire le conoscenze, capacità e competenze caratteristiche di un
particolare corso di studi. Come si diceva all’inizio alcune
“discipline” potrebbero essere non dico “ignorate” ma perdere gran
parte della propria importanza se non collegate a un certo tipo di
competenze tipiche di un corso di studi; certo qui si tratterebbe di
rivedere i programmi o meglio i piani di studio, come diceva De
Mauro, di introdurre la distinzione tra insegnamenti obbligatori e
altri opzionali, tra discipline “caratterizzanti” un corso di studi
su cui non si può e non si deve transigere e altre “complementari”(o
“opzionali” come si diceva fino a poco tempo fa), il tutto non
lasciato alla libera scelta dello studente o delle famiglie, come
sembrava voler proporre la Moratti con la “personalizzazione”. Il
discorso di Tiriticco sul biennio “orientante” e sulle “passerelle”
mi pare molto appropriato.
Mi si perdonerà l’autocitazione ma
quando si discusse della nuova legge sugli Esami di stato avvertii
(“Suggerimenti per il nuovo Esame di Stato in
www.edscuola,it) l’incongruenza del porre come condizione per
l’ammissione agli esami di Stato la “saldatura” di tutti i debiti,
il che mi pareva e mi pare mi pare francamente una condizione
capestro, che non potrà essere rispettata, per cui si arriverà a
delle “sanatorie” finali. Mi permettevo di citare en passant
possibili soluzioni future. Ad esempio in presenza di determinati
“debiti” (non nelle materie qualificanti il corso di studi) si
potrebbe consentire l’ammissione all’esame ma negargli l’accesso a
determinate facoltà universitarie, oppure, riportando sul diploma i
debiti non saldati sarebbe l’università a decidere di sottoporre a
prove di ingresso per coloro che hanno dei debiti ritenuti
importanti per quel corso di laurea.
2 La Scuola superiore oggi e il
problema dei “debiti”
Se la questione non sta nel recupero
dei contenuti disciplinari bensì nelle abilità sottese di tipo
disciplinare o trasversale. La domanda da porsi è: ma la Scuola
superiore, questa scuola superiore è in grado di rispondere a tali
esigenze? Non è solo una questione di programmi o di piani di
studio. Si tratta di impostare l’insegnamento in maniera affatto
diversa. Se si guardano le finalità che il Decreto si prefigge, esse
appaiono tutte condivisibili, ma mi chiedo fino a che punto essi
tengono conto della realtà delle scuole. “Responsabilizzazione
rispetto ai traguardi prefissati” “qualità del percorso
formativo in coerenza con gli obiettivi specifici previsti
per ciascun anno” oppure “Conseguire gli obiettivi formativi
stabiliti”. In quante scuole ritroviamo tutte queste
specificazioni? E anche qualora il POF fosse fatto con tutti i
crismi, se le programmazioni dei docenti contenessero tutti gli
elementi surrichiamati, che rapporto ci potrebbe essere tra i
“traguardi prefissati” e le valutazioni reali? O vogliamo chiudere
gli occhi su come si svolgono gli scrutini oggi nella maggior parte
delle Scuole e come si assegnano i voti sulle pagelle?
Il cammino da fare è indubbiamente
lungo, ma a distanza di 13 anni da D’Onofrio qualche riflessione
occorrerebbe farla. .Nella precedente O.M. del 1994 si parlava di
“Indicatori quantitativi e qualitativi per accertare eventuali
situazioni di difficoltà”, (nessuno ha mai indagato quante scuole le
abbiano davvero elaborati seriamente); ora ci si richiama a “Criteri
didattico- metodologici” da stabilire in Collegio Docenti e a tante
altre strategie da attuare sia dal punto di vista organizzativo che
didattico. Noi sappiamo come vanno queste cose nella maggior parte
delle Scuole: una commissione, o a volte il Preside, stende un
documento, lo si approva in Collegio e poi i “corsi di recupero” si
svolgono come se niente fosse, per lo più attraverso il “recupero”
dei contenuti disciplinari non appresi la mattina e magari con gli
stessi “criteri metodologici”.
E qui torna la più volte dibattuta
questione della “professionalità” degli insegnanti, della loro
preparazione iniziale e della formazione in servizio.
Quanti hanno sentito parlare di
“stili di apprendimento” e quanti li sanno individuare? Quanti nelle
superiori si sono emancipati dalla lezione frontale e dal circolo
perverso spiegazione-studio-interrogazione-voto? Quanta
“laboratorialità” si fa nelel classi, qnche nelle discipline di tipo
sperimentale? Quanto spazio viene dedicato a quello che oggi si
dfeib’nisce l’apprenditato cognitivo e che poi è poi l’insegnare ad
imparare o l’imparare ad imparare?
La logica sottesa invece sia alla
O.M. del 94 che a quella dell’anno in corso sembra preoccuparsi
essenzialmente dell’insufficiente possesso delle “conoscenze”
pregresse, che vanno colmate con corsi di recupero i cui criteri
metodologici verranno deliberati dai Collegi Docenti e dai Consigli
di classe.
Mi permetto di essere scettico a
questo punto degli esiti reali di tali operazioni e, a costo di
essere accusato di filomorattismo, dirò che le soluzioni prospettate
nella Riforma Moratti avevano un carattere di maggiore efficacia, A
PATTO CHE FOSSERO STATE CONDIVISE ED ATTUATE DAI DOCENTI. Ma si sa
venivano da un Ministro di destra e quindi non potevano essere
valide.
Eppure in fondo sono le stesse che
vengono riproposte nell’O.M. 92 anche se sotto forma di “consigli”:
si veda il comma 8 dell’art. 2 dell’O.M. 92: cose
interessantissime, ma in quante scuole si potranno attuare?
I concetti basilari mi pare che
restino sostanzialmente due: la flessibilità e la laboratorialità.
Il primo non è solo un aspetto
organizzativo: esso comprende l’individualizzazione o
personalizzazione dei percorsi, che poi era richiamato nel patto
formativo di cui al DPCM 95 la famosa Carta dei servizi, DPCM 7
giugno 1995, presto dimenticata.: il Contratto formativo
In Italia siamo bravissimi a
scrivere bei documenti, ma poi nessuno si preoccupa più di
verificare successivamente cosa è avvenuto.
Quanto alla “laboratorialità” o
meglio alle “pratiche didattiche laboratoriali, attive e
resposanbilizzanti”come dice Valentino, diciamolo francamente: essa
presuppone una vera e propria “rivoluzione” nell’insegnamento che
chissà quando potrà attuarsi: significa, ripeto ancora una volta, il
superamento della lezione frontale semplicemente trasmissiva,
significa acquisire ed attuare i principi del “costruttivismo”,
significa quello che viene chiamato l’apprendistato cognitivo e
tante altre cose ancora.
Bene, Valentino! Ma come si arriva a
questo? Ciò che non mi convince in fondo nel discorso di Valentino è
il richiamo alla autoformazione, che finora è sempre stata
volontaria e che riguarda una piccola parte dei docenti. (vedi
ultimo documento di “Proteo” sulla volontarietà: era ora che una
organizzazione legata aun certo Sindacato dicesse le cose come
stanno veramente)
Vorrei essere ottimista, ma mi
aspetto una indagine seria sulle modalità e i criteri metodologici
attuati realmente nelle scuole a seguito dell’O.M. 92: una indagine
non basata sulla autovalutativa come quelle dell’INVALSI di qualche
anni fa, da dove risultava che più della metà delle scuole
utilizzava il monte ore di flessibilità compensativa (quando mai?),
ma una verifica sul campo da parte di ispettori esterni (ma dove
sono?) Abbiamo abolito anche quelli, dopo aver cassato ogni
tentativo di meritocrazia nella Scuola.
Ora va di m oda l’Autonomia, come
negli anni 70 c’era la libertà di insegnamento. Peccato che ci si
dimentichi che entrambi i concetti, come affermava giustamente
l’Ispettore Portolano in un libricino di qualche anno fa. vanno
riferiti agli studenti (i veri destinatatri della “libertà di
insegnamento”) e non ai docenti 8come comunemente si intende o alla
Scuola. Una autonomia non finalizzata al “successo formativo” è un
guscio vuoto, è ancora una volta licenza di fare quello che si
vuole.
ANDARE ALL’ORIGINE-……..
Mi fermo qui perché vorrei
riprendere in un prossimo intervento quello che poi è il problema
dei problemi sui cui il Decreto sui “debiti” nemmeno sfiora e che
invece appare per la prima volta in una recente Direttiva vale a
dire la questione dell’ORIGINE delle carenze
Non mi stancherò mai di ripeterlo:
pensare di intervenire all’inizio della Scuola secondaria superiore,
come si fa da tanti, troppi anni, è nella maggior parte dei casi
illusorio. Ma su questo ormai anche il Ministro ha cominciato a
riflettere, a seguito anche del confronto fra i risultati di Pearls
in IV elementare e quelli OCSE, e ne è venuto fuori la Direttiva 113
sulla scuola media (che sproporzione tra i circa 300 milioni per le
superiori e i 5 della Media!).
Ne riparleremo