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Formazione e istruzione: una circolarità da riscoprire di Giuseppe Bertagna
Siamo la sesta economia del mondo, ma per reddito lordo pro capite corretto in base al potere d’acquisto scivoliamo, nel triennio 1999-2001, al ventottesimo posto. Dal 1995 al 2001, la nostra quota nel commercio mondiale è diminuita di un quinto. La produzione industriale, questa volta tra il 1995 e il 2002, è salita del 25% in Usa, del 18% in Francia, del 17% in Germania e solo del 4% da noi. In media, la nostra produzione industriale è aumentata appena di un terzo rispetto a quella della Ue. In Italia ci sono molte piccole e medie imprese: il 95% con meno di 20 occupati. Lì si concentra il 60% degli addetti totali, il 38,8% dei dipendenti, il 42,6% del fatturato e il 43% del valore aggiunto. Ma la dimensione media delle imprese diminuisce a vista d’occhio anno dopo anno; le grandi sono poche, e quelle poche sono per di più in via di smantellamento (per tutte cfr. Fiat). Resistono solo due aziende grandi (Eni ed Enel), ma perché drogate dal perdurante monopolio sostanziale e, in realtà, ancora alimentate dal denaro pubblico. Nei settori dell’alta tecnologia, inoltre, siamo inconsistenti. Il tasso di occupazione della popolazione attiva è tra i più bassi d’Europa. Il nostro estero è la Romania, o la Turchia, non certo la Francia o la Germania. Non occorre aggiungere altro per capire perché l’ultima decade del XX secolo sia stata la peggiore, in fatto di sviluppo economico, degli ultimi 150 anni, dall’unità d’Italia in avanti. L’Italia in lento, ma costante regresso economico?
L’importanza del «capitale umano e sociale» Ce lo hanno ricordato Aristotele, Adamo Smith, Simone Weil, per limitarci solo a tre grandi della storia del nostro pensiero occidentale: il declino economico è anche sempre un declino etico, sociale e culturale. E vale evidentemente l’inverso: maggiore eticità personale e pubblica, buona integrazione sociale e cultura ed educazione per tutti creano più sviluppo economico della disponibilità di tecnologie avanzate, di capitali finanziari, di ricchezze minerarie ecc. La Banca Mondiale, per esempio, ha esaminato la ricchezza pro capite di varie regioni del mondo, scomponendo il contributo di alcuni fattori quali il capitale umano, il capitale fisico e varie risorse naturali, ed è giunta alla inequivocabile conclusione che oggi nei paesi industriali il contributo del «capitale umano» e del «capitale sociale» alla produzione di ricchezza varia dal 60% all'80% ed è quindi di gran lunga il più importante tra tutti gli altri. L'esperienza empirica dimostra, del resto, che gli investimenti nell'istruzione e nella formazione producono chiari benefici, sia sui soggetti singoli (in Italia, il titolo di studio posseduto influisce in modo particolarmente rilevante sulle opportunità di lavoro dei soggetti; a 40 anni, ad esempio, un laureato guadagna in media circa dieci milioni all’anno in più rispetto ad un diplomato, il doppio rispetto a un individuo con la licenza media e il triplo di quanto percepisce chi non è andato altre la licenza elementare), sia sulla competitività delle imprese sia, soprattutto, sulla qualità della vita personale e sociale in generale: le prospettive di occupazione migliorano, i livelli di reddito aumentano e si riducono le disuguaglianze sociali; migliorano e diventano più efficienti i sistemi sanitari; si rafforza la sicurezza ambientale; migliora l'assistenza agli anziani e ai malati; si riducono i disagi per le fasce più deboli della popolazione; scende la criminalità e si limita il fenomeno della dipendenza dalla droga. Il capitale umano, quindi, incide sul maggiore o minore senso civico di una nazione, sugli interessi culturali, sulla diffusione della lettura, sulle buone maniere.
Il «caso» italiano Se i dati riassunti all’inizio sono veri, come in realtà sono, la conclusione è scontata: l’Italia è in crisi economica perché ha carenza qualitativa di «capitale umano». In altri termini, di istruzione e di formazione. Il giudizio può apparire paradossale. Sul piano dell’istruzione e della formazione, infatti, negli ultimi trent’anni del secolo abbiamo fatto passi da gigante. Ancora negli anni sessanta, non tutta la fascia d’età 11-14 anni era interessata alla licenza media. Oggi la situazione è ben diversa: possiamo vantare una scuola secondaria e un’università di massa come pochi Paesi al mondo (l’Ocse, ad esempio, ci informa che nessun Paese ha tenti diciannovenni come noi in università!). Traguardi senza dubbio storici. Due fenomeni convergenti che hanno finito per rafforzarsi negativamente a vicenda, tuttavia, costringono a rileggere in maniera molto più distaccata questo apparente, orgoglioso compiacimento.
L’errore del tutto scuola. Il primo fenomeno è quello della riduzione scolasticistica di ogni forma di istruzione e di formazione. Obbligo «scolastico», scuola secondaria di II grado, università: è parso che solo con il modello «scolastico» (campanella, orari di lezione giornalieri che si ripetono uguali per 200 giorni, lezione frontali sistematiche, apprendimento di conoscenze valide in sé ma sentite estranee al senso personale di ciascuno, rapporto gerarchico e formale tra docente e allievo) si potesse promuovere la cultura e l’educazione dei giovani cittadini italiani, la loro maturazione come uomini, cittadini e lavoratori. Da qui, la progressiva e sistematica svalutazione dell’istruzione e della formazione professionale; la concezione ospedaliera e residuale dell’obbligo formativo, destinato soltanto ai falliti della scuola, letteralmente ai drop out, a chi cade fuori, è espulso, dalla scuola (obbligo formativo peraltro introdotto con grave ritardo nel nostro ordinamento: con la legge 144/99); l’inesistenza di un percorso formativo in alternanza scuola lavoro e di una formazione professionale superiore parallela agli studi universitari, tutti ambiti nei quali le campanelle sono, per forza di cose, sostituite dai ritmi di lavoro imposti dai compiti e dai progetti da eseguire; gli orari diventano istantanei, flessibili e mai predeterminati una volta per tutte; le lezioni sono per lo più inserite nelle dinamiche dell’azione riflessiva condotta nei laboratori; l’apprendimento avviene su problemi e bisogni che scaturiscono dall’esperienza e dal conferimento di senso personale; il rapporto docente allievo, anche quando si configura nelle forme del «mastro» e dell’«apprendista», è più vicino alla «comunità di apprendimento» che al tradizionale paradigma «dell’imbuto di Norimberga». Il risultato di questa riduzione scolasticistica del modello formativo, nonché del mancato impegno per riconoscere pari dignità al percorso formativo professionale, è che 34 giovani su 100, dopo ben 11,5 anni, in media, di presenza nelle aule scolastiche, a causa delle ripetenze, giungono a 18 anni senza aver ottenuto nemmeno una Qualifica professionale; che solo 65 giovani su 100 si diplomano e solo 20 si laureano; che il 15% dei giovani italiani tra i 15 e i 19 anni e il 30% di quelli di 20-24 anni non sono coinvolti in nessuna attività di istruzione o formazione professionale né sono inseriti nel mondo del lavoro (percentuali due volte più alte rispetto alle medie dell'Unione Europea); che il nostro apprendistato è lillipuziano: 50000 giovani tra i 15 e i 18 anni, contro i 350.000 della Francia e il numero ancora maggiore della Germania.
Quantità vs. qualità. Il secondo fenomeno che ridimensione il compiacimento per la raggiunta secondaria e università di massa è quello che ha visto l’estensione quantitativa dell’istruzione andare purtroppo di pari passo con una sua depressione qualitativa. Non è solo, o tanto, questioni di graduatorie stilate dalle Indagini Tims-Iea o dalla Pisa Ocse sulle competenze alfabetiche e scientifico-matematiche dei nostri studenti di 9 e 15 anni, graduatorie che ci vedono sempre sotto le media. È legittimo, infatti, nutrire qualche dubbio sull’affidabilità di questi strumenti di indagine comparativa. Nemmeno è questione di indignarsi oltre misura perché, secondo indagini Ocse Cede, il 27% dei nostri laureati ha gravissime carenze di literacy e di numeracy: sono, insomma, analfabeti in senso contemporaneo (cioè sanno leggere e scrivere, ma fanno fatica a capire il senso autentico di un brano, oppure ad argomentare). Anche a non attribuire a queste indagini più peso di quello che hanno, infatti, resta che, usando le metodologie di calcolo adottate dall'Ocse, che attualizzano i redditi che ogni persona è in grado di generare nel corso della sua vita lavorativa in base alle competenze reali acquisite durante il suo percorso educativo e formativo, si arriva a determinare che all'atto di entrare nel mondo del lavoro ogni italiano contribuisce in media al capitale umano del nostro Paese per circa 940 mila Euro, un valore inferiore del 20-25% rispetto a quello che porta con sé un giovane inglese o tedesco che ha completato il ciclo di studi e inferiore del 40% rispetto ad un giovane diplomato o laureato americano. È dunque il caso di domandarsi se sia positiva, ai fini dell’aumento del «capitale umano» e del conseguente «capitale sociale» di cui abbiamo bisogno, la strategia che, negli ultimi trent’anni, ha portato a scolarizzare ogni possibile dimensione formativa di dignità e se, invece, non sia opportuno, finalmente, anche avvalorare la dimensione culturale ed educativa della formazione professionale e del lavoro, come ha decisamente intrapreso la riforma Moratti, respingendo l’esclusività dell’equazione tra scuola e qualità della formazione umana.
Per la nuova «cultura del lavoro» La «formazione professionale», finora, è stata considerata dal punto di vista del lavoro e non della persona. Con la «formazione professionale» si impara un mestiere, ci si adatta alle dinamiche economiche del mercato, ma non si cresce in cultura e non ci si educa come persone. Questa concezione, tuttavia, non è più presentabile, oggi. Il lavoro contemporaneo, per così dire postfordista, (ma era anche la convinzione di Adamo Smith che Ricardo, purtroppo, abbandonò, insegnando a Marx, Lenin, Gramsci e ai vari Tayloro e Ford il contrario), se si vuole che sia svolto come si deve, non può essere soltanto esecuzione atomizzata e semplicistica; piuttosto, deve essere sempre più ricco di conoscenze scientifiche, di cultura e di intelligenza del soggetto, e soddisfacente in rapporto a se stessi e agli altri, quindi sempre più lontano dagli stereotipi dell’addestramento e delle istruzioni per l’uso. Se così, perché la «formazione professionale» dovrebbe continuare ad essere soltanto uno strumento delle politiche attive del lavoro invece, come è e deve essere, una straordinaria, perché motivante, occasione di promozione dell’educazione e della cultura di ciascuno attraverso il lavoro? D’altra parte, è proprio educando al meglio ogni persona, in questo caso attraverso il lavoro e la professione, che si accumula quel «capitale umano e sociale» di cui abbiamo urgente bisogno. Si potrebbe obiettare che anche il lavoro della società postindustriale e postfordista è alienato e che, perciò, non essendo affatto quell’«attività libera e consapevole» (per restare al linguaggio dei Manoscritti di Marx) che costituisce «il primo bisogno della vita» umana, più che di liberazione, come dovrebbe essere ogni autentico processo educativo, potrebbe risultare soltanto un più sottile strumento di asservimento, e quindi un’esperienza fortemente diseducativa da evitare o comunque da svolgere per il minimo di tempo indispensabile. Per dirla con Simone Weil, tuttavia, che aveva già ben compreso queste dinamiche quasi un secolo fa, un lavoro ridotto a merce, subìto dai soggetti che lo esercitano, necessitato, il cui scopo non sia intrinseco all'azione concreta di chi lo svolge, ma sia invece imposto dall’esterno soltanto da chi lo paga[1], e che non si esprima mai nell'«opera», ma si limiti alla produzione ripetitiva e quasi automatica di gesti, non solo, scrive, «trasforma l'uomo in un'orrenda mostruosità», ma si rivela anche del tutto antieconomico, controproducente per le persone stesse che lo vogliono comandare ai soggetti[2]. Nella società postindustriale e postfordista, sarebbe quindi interesse economico degli stessi «capitalisti» che, miopi, potrebbero temere il lavoro libero e consapevole mirare, invece, a renderlo davvero tale. Per questo dovrebbe essere giunto il momento non soltanto di contrastare lo sfruttamento del marxiano plusvalore con le tradizionali strategie sindacali del novecento (aumenti salariali e contemporanea compressione dei tempi di lavoro per distribuirlo sul più alto numero di persone possibile), ma di tentare, più in radice, perlomeno di affrontare, se non di risolvere, la contraddizione primaria del lavoro stesso: quella dell'estraniazione all’uomo che lo esercita. Continuare, in questo senso, a separare in maniera strutturale tempo oggettivo del lavoro (alienato, estraniato, non educativo) e tempo personale della vita umana (autentica, consapevole di sé, educativa), e a considerare il primo servile e necessario, il secondo libero ed spontaneo; il primo umanamente entropico, il secondo umanamente neghentropico; il primo con valore strumentale, il secondo finale; il primo che si svolge in fabbrica, o, se si passa alle strutture formative, nella formazione professionale, nell’apprendistato, il secondo che si svolge nella scuola, nell’istruzione liceale, negli spazi della cultura personale significa rassegnarsi all’estraniazione professionale come ad una condizione programmatica ed insuperabile della condizione umana. Bisogna, quindi, cercare una strategia che autorizzi il superamento di queste successioni/separazioni che, alla fine, diventano incompatibilità qualitative. Strategia che sembra riconoscersi nel proposito della piena reintegrazione delle caratterizzazioni umanistiche del lavoro e, in particolare, sul piano strettamente economico, nell'impiego diretto e protagonistico della razionalità tecnica di ciascuno nell’apprendimento e nell'esercizio di qualsiasi prestazione professionale (il recupero del gesto marxiano dell’architetto). Restituire, in altri termini, l'opera a chi agisce per produrla e coinvolgerlo non solo nella determinazione delle procedure necessarie per realizzarla ma anche nei fini a cui essa deve obbedire, tra cui, senza dubbio, un posto di rilievo devono assumere quelli economico-sociali. «Per quanto riguarda la tecnica, occorrerebbe studiarla in modo approfondito nella sua storia, nel suo stato attuale, nelle sue possibilità di sviluppo e questo da un punto di vista assolutamente nuovo che non sarebbe più quello della sua funzionalità al rendimento, ma quello del rapporto del lavoratore con il suo lavoro»[3]. Cambiare, in conclusione, qualità e direzione del lavoro, non soltanto contenerne gli effetti iniqui determinati dal suo esercizio sotto le eventuali specie esclusive del profitto. Quindi, «non si tratta di liberarsi dal lavoro, che è pretendere di uscire dalla condizione umana, ma di liberare il lavoro, cioè farne un atto di libertà e di essa promotore»[4]. In altri termini, cercare di concepire e praticare il lavoro non come utilità, ma come compito; non come mezzo, ma come fine, che è poi dire realizzazione di sé[5].
La circolarità di istruzione e di formazione. Se si analizza il tema dei rapporti tra istruzione (liceale e tecnica) e istruzione/formazione professionale mettendosi dalla parte delle considerazioni appena accennate, sembra naturale concludere, dunque, che istruzione e formazione non possano più apparire strade separate e, a maggior ragione, gerarchicamente dipendenti e successive l’una dall’altra. Il sapere e il fare diventano due facce inscindibili della medesima medaglia. La teoria del prima l’istruzione, per più tempo possibile (fino a 18..23 anni!), perché appagante e liberante, e dopo la formazione professionale, il più tardi possibile, perché a rischio di alienazione ed estraniazione, non regge più. L’istruzione è infatti sempre più necessaria per la formazione professionale. Né esiste formazione professionale, anche ai lavori più umili, che non esiga istruzione, e di buona qualità. I due percorsi, più che vettori stadiali o, peggio, alternativi, sono modalità diverse di apprendimento e di sviluppo della stessa umanità che ha le infinite figure delle specificità e dell’unicità di ciascuno. L’una e l’altra, a modo proprio, sono occasioni di autenticazione delle vocazioni personali e delle capacità intellettuali, estetiche, tecniche, motorie, sociali, morali e religiose di ciascuno. L’una e l’altra figure dell’educazione. La dinamica è ologrammatica: la parte nel tutto, il tutto nella parte. Non trova più alcuna giustificazione pedagogica e umanistica, perciò, il sospetto nei confronti della parola «professionale», e della parola «lavoro» a cui essa rimanda. Il pudore ad impiegarla come risorsa educativa al pari dello «studio scolastico» può essere solo il segno di una mancata maturazione culturale, oltre che di una errata diagnosi di sociologia del lavoro avanzato contemporaneo. Ciò anche se ci trovassimo con una scuola che, con il proprio modello organizzativo e culturale, risultato, però, purtroppo, del tutto fantasioso, visti i dati che abbiamo, fosse davvero in grado di non perdere nessuno. La scelta tra istruzione (liceale) e formazione (professionale) perde, quindi, la sua drammaticità alternativa ed assume piuttosto le vesti di un continuo adeguamento agli stili personali di apprendimento e ai personali progetti di vita che ciascuno ha il diritto di veder sostenuti.
Il quadro costituzionale. Un aiuto notevole alla diffusione di queste temerarie (per la vulgata sia marxista, sia da capitalismo ricardiano e fordista) consapevolezze è venuto dall’approvazione del Titolo V della Costituzione e, soprattutto, dal disegno di legge delega n. 1306 del Ministro Moratti che ha, per la prima volta, tentato di applicarlo nella riforma del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione. L’art. 117 riformato, infatti, ha inserito l’istruzione (liceale e tecnica), l’istruzione professionale e la formazione professionale in un nuovo quadro istituzionale. Le Regioni hanno la legislazione esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. Ciò significa che, in tempi più o meno rapidi, dovrà essere regionale, accanto all’attuale formazione professionale (che interessa il 5,5% degli studenti oltre i 15 anni), anche l’attuale istruzione professionale statale (che coinvolge il 20% degli studenti a partire dai 14 anni) e quella parte di istruzione tecnica statale (39% sul totale degli studenti dai 14 ai 19anni) che rilascia diplomi ad alta terminalità professionale (circa il 50% degli istituti tecnici esistenti). Le Regioni, inoltre, hanno la legislazione concorrente con lo Stato nella gestione e nell’organizzazione concreta, regolamentare, della rimanente istruzione statale, ovvero delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori liceali. Sarebbe paradossale che il costituente avesse disposto queste innovazioni per spostare dal servizio alla persona e alla sua educazione al servizio al lavoro e all’occupazione la vecchia istruzione professionale statale e quella parte di istruzione tecnica statale con caratteri immediatamente professionali. E ancora di più, con il richiamo alla legislazione concorrente, che avesse voluto procedere ad una dislocazione analoga perfino con l’istruzione liceale, togliendole il suo tradizionale spessore umanistico per convertirla ai valori mercantili della tecnocrazia economica. È più rispettoso immaginare che il costituente sia stato invece animato dall’intendimento opposto: valorizzare il carattere educativo della formazione professionale e, con essa, dell’istruzione professionale, tecnica e liceale, creando le condizioni istituzionali, oltre che culturali e pedagogiche, per una loro osmosi e radicandole tutte, maggiormente, come è peraltro ragionevole, nel territorio, a servizio della crescita della persona. La scommessa, appunto, della riforma Moratti che troppi relitti del vecchio sindacalismo, dell’ideologia marxsessantottina e della cultura fordista e prefordista si ostinano a respingere. Roma 14 dicembre
[1] Riflessioni illuminanti in proposito si ritrovano in S. Weil, Réflexions sur les causes de la liberté e de l'oppression sociale (1934), in Oeuvres complètes. Ecrits historiques et politiques, t. II, vol. II, Gallimard, Paris 1985, p. 108 e in La condition ouvrière, Gallimard, Paris 1951, pp. 256 e ss; 272 e ss. [2] Cfr. S. Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l'oppression sociale (1934), in Oeuvres complètes. Ecrits historiques et politiques, Gallimard, Paris 1985, tomo II, L'expérience ouvrière et l'adieu à la révolution, p. 118. [3] Cfr. S. WEIL, Réflexions sur les causes de la liberté ... cit., p. 108; cfr. anche La condition ouvrière... cit., pp. 256-257, 272. [4] M.F Sciacca, L’ora di Cristo, Marzorati, Milano 19732, pp.232 e s. [5] Cfr. A. Utz, Etica economica, Union Editorial, Madrid 1998. |
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