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DIDATTICA, QUESTA SCONOSCIUTA
di
Cinzia Mion Ho notato con evidente
soddisfazione che le tracce delle prove scritte
per
il concorso al reclutamento dei dirigenti scolastici - appena concluse -
offrono un ragguardevole interesse alla variabile della didattica e alla
riflessione sui processi di insegnamento-apprendimento, nonché alla
differenza tra conoscenze e competenze e alla relazionalità ( tranne una
che ponendo
il
focus
delle competenze del d.s. nel potere disciplinare corre il rischio di
regalarci in Veneto una selezione di dirigenti fans di Brunetta…). E’ risaputo infatti, e
sarebbe ingenuo da parte mia oggi riscoprirlo, che esiste una
diatriba
tra chi afferma che il dirigente scolastico è chiamato a fare altro (i
benaltristi) dal lavoro dei docenti, tanto da appoggiare implicitamente
chi da tempo chiede per i dirigenti scolastici la dirigenza
amministrativa
tout-court
(cfr ANP) e chi invece difende con forza e passione l’impostazione
psicopedagogica della loro formazione di base. Questi sono i fautori
della leadership educativa che si attestano sulla considerazione che il
vero
senso
della scuola è la realizzazione del
successo formativo per tutti
(equità, inclusione, integrazione ed interazione). Ovviamente si sa bene che a queste competenze di
base se ne dovranno aggiungere altre di tipo
giuridico-amministrativo-economico e di teoria dell’organizzazione tutte
però finalizzate a migliorare le prestazioni d’aula. In altri termini deve
essere presa in considerazione come il
prodotto-risultato significativo
dell’Istituzione Scuola soprattutto la crescita personale, cognitiva,
relazionale, socio-etica di tutti i ragazzi/e del Paese, vale a dire
delle giovani generazioni che hanno nelle loro mani il futuro di questo
mondo interconnesso. Per questo motivo ho
letto con molto interesse il saggio apparso su
Edscuola di Bijoy M.Trentin, dal
titolo
La didattica in pericolo.
che mi ha trovato perfettamente d’accordo su
tutta la linea. Appare assai singolare
notare come
in molti documenti, riflessioni,
proclami, note,
elaborazioni
dei gruppi di lavoro attivati per realizzare al meglio sia l’elevamento
dell’obbligo che le recenti linee guida destinate alla scuola secondaria
di secondo grado, sia poco utilizzata la parola
didattica o venga solo sfiorata
quasi per caso o non si solleciti in modo incisivo il suo svecchiamento
se non quando si parla dei laboratori. Fanno
un po’ eccezione le linee guida per i
professionali. Ciò però riconferma la medesima tesi. Mi sorge il dubbio che
questa sia diventata una parola desueta, di cui quasi vergognarsi un po’
come se riguardasse le
bagattelle
della scuola dei piccoli. Naturalmente non per
tutti è così, gli addetti ai lavori e i dirigenti avveduti sanno bene
che ciò che passa nell’aula operativamente, sia che i docenti
siano
consapevoli oppure no, è una mediazione fra
teoria
e prassi, principio e caso, generale e particolare
in riferimento ai vari saperi, che va sotto il nome appunto di
didattica. Naturalmente questa
didattica dovrebbe essere una
gemmazione consequenziale alle
moderne teorie della psicologia dell’apprendimento scolastico, frutto di
una rielaborazione riflessiva e costante da parte delle varie
comunità di
pratica. Tutto ciò potrà però
avvenire se siamo in presenza di una particolare consapevolezza del
dirigente che riserverà buona parte delle sue energie ad approfondire le
strategie da adottare per presidiare questo aspetto della propria
professionalità. La consapevolezza non
consiste solo nel rendersi conto che sapere non significa
tout
court sapere
insegnare- se si trattasse unicamente di questo saremmo di fronte ad una
banalità - ma
significa
rivalutare pienamente questo settore della psicologia dell’apprendimento
che si interessa delle coerenti procedure metodologiche
Pertanto
andrebbe vinta
l’illusione
che il sapere possa essere solo insegnato e non invece anche
ricercato,
come dice L.Galliani nella sua bella relazione tenuta a Camerino nel
febbraio del 2007, avente per tema le nuove forme della didattica.
Della ricerca
professionale fa parte lo svecchiamento appunto della didattica che da
tradizionale e semplicemente trasmissiva dovrebbe diventare, come
affermano i teorici del socio-costruttivismo, generativa di
apprendimento, orientata verso il cosiddetto
apprendistato cognitivo, intrisa
perciò di
metacognizione e
di
valutazione formativa,
orientata
a sollecitare l’autovalutazione dello studente e l’acquisizione di
competenze. Il Dirigente Scolastico
dovrebbe farsi promotore appunto della progettazione per competenze
sapendo bene che soltanto così si potrà arrivare a coniugare il
capire
e il riuscire. In altre parole il
riferimento è alla “didattica del fare”che non significa la scissione
tra i laboratori e la lezione frontale che rimane invece sempre
connotata dalla stessa didattica che Trentin definisce
la didattica fai-da te, trasmissiva e
conservatrice. Una didattica rimasta
immobile nel tempo simile a quella subita nella propria storia di
studenti, che Mezirow chiamerebbe refrattaria ad un apprendimento
trasformativo, perché ancòrata ad antichi
schemi
di significato . La nuova didattica
dovrebbe invece essere
operativa, all’interno della quale il docente offre la sua competenza
sia che si tratti di una traduzione di latino o altre lingue sia nella
soluzione dei problemi o in qualsiasi altra competenza, mettendosi in
gioco, pensando a
voce alta,
con
la sua expertise impegnata ad esplicitare i processi mentali soggiacenti
che corrono il rischio di restare impliciti e quindi non appresi. Perché questo
linguaggio appare oggi a qualcuno quasi ostico? Forse perchè gli
operatori scolastici e soprattutto i dirigenti scolastici
si
sono negli ultimi tempi abbeverati troppo di cultura
manageriale-organizzativa, presi dall’enfasi di imbottire il Piano
dell’Offerta Formativa di patinate pagine di progetti accattivanti ed
hanno qualche volta trascurato di presidiare il lavoro d’aula, che in
fondo è invece il
cuore e
il
senso
della scuola. Il diritto alla cultura Già la scuola
secondaria di primo grado,
messa sotto la lente d’ingrandimento
dal recente rapporto a cura della Fondazione Agnelli, dovrebbe rivedere
le proprie metodologie per evitare di
dimettere mentalmente i soggetti
più deboli con la pseudoargomentazione che per alcuni di loro i docenti
non sanno più cosa fare. Non essere
più il tratto terminale dell’obbligo dovrebbe dare loro una maggiore
opportunità di ripensare il percorso, naturalmente alla luce delle
osservazioni precedenti. Tutto l’itinerario dai 3 ai 18 anni deve essere
oggetto di riflessione autentica, mettendo al centro il
soggetto che accede alla scuola, la
sua identità - compresa quella di genere - per evitare condizionamenti
dovuti a stereotipi e per far tesoro delle differenze insieme al suo
diritto alla cultura,
non più soltanto inteso come diritto allo studio. L‘elevamento dell’obbligo e le recenti Linee Guida per gli Istituti Tecnici e Professionali oggi hanno questo significato: nella società della conoscenza ognuno ha diritto di acquisire le competenze ermeneutiche che offre la cultura generale, come dice E.Cresson, per potersi orientare nella complessità e nella globalizzazione, per acquisire quel pensiero critico e riflessivo, non solo riflettente, che abilita ad avere a che fare con le differenze e le contraddizioni, per dare un senso alla propria vita, per partecipare con più consapevolezza alla vita democratica del proprio Paese ed infine per essere educato alla cittadinanza come etica pubblica. Non possiamo infatti far finta di non sapere che gli italiani, come affermano i sociologi e gli attenti osservatori delle questioni politiche e sociali, sono affetti da tempo da una malattia che viene definita amorale civica, che sembra essere la causa (o la conseguenza?) del diffuso individualismo e del rafforzarsi del noto familismo che tanto ci rimproverano gli altri paesi europei. |
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