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DIMENSIONAMENTO
SCOLASTICO e “prodotto” della Scuola Uno degli aspetti più “strani” degli attuali
parametri per il dimensionamento
della rete scolastica è la pluralità degli stessi. La novità di
quest’anno è che la legge 111 del luglio scorso, oltre a unificare le
Scuole elementari e Medie
nei nuovi “Istituti comprensivi” (già esistenti nel 50% dei casi), fissa
nuovi parametri numerici “nazionali” rispetto a quelli precedenti. Il
fatto strano è che si avranno 3 distinti parametri: uno per i precedenti
Comprensivi (da 500 a 900 alunni, salvo la deroga per la montagna), uno
per le Scuole superiori (minimo 500, massimo 900, ma solo sulla carta,
in quanto si può arrivare e si arriva anche a 2000) e uno per i nuovi
Comprensivi (minimo 1000 senza un massimo). Quale sia la logica di tale
differenziazione non si capisce. Come se non bastasse con la legge di
stabilità 2012, approvata dal Parlamento pochi giorni fa, i parametri
per l’assegnazione di Dirigenti e DSGA alle Scuole autonome salgono da
500 a 600 (da 300 a 400 per le scuole di montagna e piccole isole). Una
babele di numeri e parametri! Così potremo continuare ad avere scuole
sottodimensionate, a cui non verranno più assegnati Dirigenti e DSGA;
con il che si rompe il nesso autonomia-dirigenza che era alla base della
L. 59/97 e del Regolamento per l’autonomia (DPR 275/99). La “reggenza”
non è più quindi un fatto straordinario, in carenza di Dirigenti “di
ruolo”, ma una categoria particolare per istituti sottodimensionati, che
conservano la loro “autonomia” ma saranno diretti da qualcuno “prestato”
alla Scuola. Sfido a trovare la logicità di tale disposizione! Ma il punto è un altro,
come ha messo bene in luce De Anna nel suo intervento “Dimensionamento e
organizzazione” (Pavonerisorse): si dovrebbe stabilire quale sia
l’ottimale dimensione di un istituto e in base a questa si dovrebbero
fissare dei limiti. Ma è possibile individuare tale ottimale
dimensionamento in astratto? Direi proprio di no! Se si guarda dal punto di vista
dell’organizzazione dei servizi amministrativi, occorre riconoscere ad
esempio che questi non possono scendere al di sotto di una certa soglia:
una segreteria funzionale ha bisogno di almeno 5/6 impiegati (oggi si va
da un minimo di 2 fino a 15 nei grandi istituti), avendo tuttavia
presente che la complessità di una Scuola non dipende dal numero di
alunni, anche se questo incide certamente. Qui il problema potrebbe
essere risolto creando delle “reti di servizio” previsti dal Regolamento
sul personale ATA, ma che stentano a diffondersi Dal punto di vista di quella che definirei la
“comunità professionale” (vale a dire il numero dei docenti) è evidente
che con un numero di insegnanti ridotto al lumicino non c’è scambio, non
c’è confronto adeguato e soprattutto non c’è ricerca; ma con comunità
professionali troppo ampie (fino a 300 docenti, come ne esistono) si
finisce perfino per non conoscersi e i Collegi docenti divengono dei
parlamentini, dove possono intervenire poche persone (i “capigruppo”). E
allora anche qui occorrerebbe fissare una soglia minima e massima, salvo
ricercare nuove modalità organizzative dal punto di vista didattico
(dipartimenti, consigli di presidenza), tra l’altro già previste nella
normativa in vigore. Se si guarda dal punto di vista della Dirigenza,
occorre definire quali sono le “funzioni da presidiare”: quella
amministrativo-gestionale, quella dei rapporti con il territorio o
quella educativo-didattica. Non si può escludere nessuna, ma allora la
dimensione dell’Istituto va riferita alle concrete possibilità di
presidiarle tutte e tre. Qui entrano in gioco non solo i parametri
numerici ma anche quelli geografici e soprattutto quelli delle “funzioni
sussidiarie” (il famoso “staff” o le figure intermedie) Dal punto di vista
geografico, come dice giustamente Valentino, altro è avere 1000 alunni
nello stesso edificio o con poche “succursali” altro è avere 15/16
plessi: una piccola Scuola non consente un rapporto “forte” con il
territorio, ma un megaistituto difficilmente consentirà al Dirigente di
occuparsi realmente della qualità dell’offerta formativa, specie in
presenza di molti plessi e di un territorio molto vasto (come in
montagna). Si veda a tal proposito quanto afferma l’ex Ministro
Berlinguer in un suo intervento sul “Il Sussidiario” di qualche giorno
fa.
[i] Un ulteriore elemento da considerare è la
necessità di investimenti in attrezzature e laboratori, che non possono
essere “frammentati” in molti Istituti, per cui diverso è il discorso
per le Scuole tecnico-professionali rispetto ai Licei o alle scuole di
base. Ultimo e non meno importante elemento che vale
soprattutto per le Scuole di base è il rapporto con il territorio: gli
istituti comprensivi ad esempio devono riferirsi a un territorio
omogeneo e non vanno costituiti accorpando realtà troppo diversificate. In sostanza la questione del dimensionamento, a
parere del sottoscritto, va riferita alla mission che si vuole dare alla
scuola. In sostanza la questione del dimensionamento non solo va
sottratta alle esigenze di carattere economico
(la spesa per le Dirigenze e le Segreterie) pur importante, ma va
inserita in un discorso più complesso Dubito, direi son certo, che tali questioni siano
presento agli operatori politici (Comuni, province e Regioni) ai quali
spetta in ultima istanza la decisione sul dimensionamento. Qui mio sento di non
condividere il taglio dell’intervento di De Anna (Pavonerisorse,
“Dimensionamento e organizzazione”). Nonostante l’interesse che De Anna
dichiara per “le esercitazioni di riflessione sulla “leadership
pedagogica”, il suo discorso si incentra principalmente sugli aspetti
organizzativi. Delle tre E del suo discorso (efficacia, efficienza,
economicità”) a me pare che quella meno considerata è proprio la prima,
vale a dire l’efficacia,. Non commetterò l’errore di considerare De Anna un
puro “efficientista” conoscendo il suo background ideale e culturale. Ma
a me sembra che alla fine la quadratura del cerchio tra efficienza ed
efficacia (lasciando da parte la economicità, da non trascurare
tuttavia) stia nel rivedere non solo il profilo di ruolo del Dirigente,
ma il compito essenziale della “istituzione scuola” e della “comunità
scuola” accanto all’”impresa-scuola”. Sottolineo le due precedenti
definizioni, per evitare di scadere nell’aziendalismo. A me pare fondamentale considerare innanzitutto
quello che lui chiama il
“prodotto” (vale a dire il “successo formativo” del soggetto in
formazione) che risponde, come annota giustamente De Anna, “ad un
diritto fondamentale di cittadinanza”. Quali sono le condizioni che
permettono di raggiungere un “prodotto” socialmente e individualmente
adeguato, se non eccellente?
Superiamo la questione puramente “stupidamente quantitativa” e
concentriamo la nostra attenzione sulle condizioni migliori per
raggiungere lo scopo. Condivido in parte le considerazioni di
Stefanel sulle virtù delle grandi scuole e sui vizi delle
microscuole: il nuovo D.S. non può più essere quello a cui eravamo
affezionati (quello per il quale chi scrive ha concorso negli anni
80). Tropea in un lucido intervento di qualche tempo
fa
(Scuolaoggi,
“Leadership educativa dei Dirigenti scolastici”)
enunciava quale potrebbe essere il “profilo di ruolo” del nuovo
Dirigente indipendentemente dalle dimensioni della Scuola[ii]
Condivido
quanto egli afferma, ma quello che mi pare manchi in una scuola con
un Dirigente di tal fatta è la questione del coordinamento
pedagogico-didattico, che, se non può competere al D.S, dovrà essere
affidato a qualcun altro (singolo o gruppo). E allora la riflessione
va estesa a quelle che chiamiamo le “figure intermedie”. E’ un
dibattito che manca da molti anni. Cerini nel lontano 2003 propose
una “road map della professione docente” (Edscuola) in cui, partendo
dall’esperienza delle “funzioni obiettivo” diventate successivamente
“strumentali” prevedeva due “filiere” per la carriera docente:
quella più impegnata sul versante organizzativo e l’altra più sul
versante pedagogico-didattico.
Bene quindi gli istituti di grandi dimensioni, a patto che si
riprenda e si “imponga” contemporaneamente una rivisitazione della
governance interna alla Scuola, a cui aggiungerei anche quella
“esterna”, vale a dire il discorso delle reti di scuole, altro
grosso problema non risolto. Finché l’autonomia verrà intesa come
“autosufficienza”, finché le reti di servizio saranno volontarie,
forse non faremo passi avanti.
PASQUALE D’AVOLIO
[i]
Chi scrive ha avuto la ventura di
dirigere scuole di modeste dimensioni (al Liceo avevo 600 alunni
e 22 classi … in 4 corridoi, un Collegio docenti di circa 60
docenti e 4 impiegati). Una dimensione “umana” che mi consentiva
di occuparmi giornalmente di questioni educative e didattiche:
Stefanel non me ne vorrà, ma io leggevo e commentavo tutti i
documenti di programmazione dei docenti e le relazioni finali,
visionavo i registri almeno tre volte l’anno, partecipavo a
quasi tutti i Consigli di classe, a tutti gli scrutini, ai
Consigli di istituto, entravo spesso nelle classi, presiedevo le
commissioni sull’handicap e nel frattempo mi impegnavo nei vari
progetti di sperimentazione e di aggiornamento.
Il colloquio con i docenti e
gli studenti era pressoché quotidiano. Poi mi toccavano le
riunioni con le RSU (non proprio facili), e il disbrigo delle
incombenze di bilancio e burocratiche (la dannata 626!)…. finché
non ho mollato. Altri tempi, altro “profilo di ruolo” come
direbbe De Anna. Mi piaceva essere in sostanza un “Dirigente
didattico”, in linea con la definizione che davo allora del
Preside “Vir bonus DOCENDI peritus” (parafrasando Catone)
[ii]
TROPEA: “E’ necessaria una figura che in questo ambiente sia in
grado di
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