Educazione e
politica*
di Gabriele Boselli
1. La piadina con la
nutella
Guardavo il mondo,
nell’Agosto del 2003 mentre i telegiornali, liquidata la questione
delle morti degli anziani poveri attribuendo la colpa solo al caldo
(nel prossimo inverno solo al freddo), dibattevano un grave problema
politico: se la piadina fosse di destra o di sinistra. Politici e
politologi di sinistra, per non apparire arroccati su posizioni
vecchie e superate dai tempi, la ascrivevano sulle loro posizioni,
quelli di destra, più aperti alla vita materiale dopo il congresso di
Fiuggi, gridavano al tentativo della sinistra di appropriarsi di cosa
loro. I centristi sostenevano che la piada è di sinistra se farcita
con erbe, prosciutto crudo o stracchino, di destra se piena di Nutella
o prosciutto cotto. Nessuno contestava la farcitura con mortadella,
troppo chiaramente connotata.
Nell’ estate
successive il dibattito politico non ha avuto particolari colpi d’ala.
D’Alema prima e Rutelli e Fassino ci hanno rassicurato: un eventuale,
improbabile governo di sinistra non cambierà le riforme della destra,
i nostri soldati continueranno a combattere in Iraq, a meno che anche
i marines si ritirino, possibilmente non fuggendo sull’elicottero dal
tetto dell’ambasciata. Quel che è grave è che c’è pochissima ironia;
non è un gioco, è politica quale può esercitarsi nell’Italia
nonpensante dei primi anni 2000. Lo stato della democrazia, lo Stato,
la liquidazione del patrimonio nazionale (v le denunce di Italia
nostra), il crollo della raccolta fiscale sono non-problemi. La
distruzione dell’ambiente naturale è attribuita principalmente a
mentecatti che si divertono innocentemente ad accendere fuochi.
Eppure la gente
tace, schiatta tranquillamente nelle fabbriche, s’intorda sulle
autostrade, si arrostisce sulle spiagge, s’intontisce nelle
discoteche, s’imbecillisce alla televisione, legge rotocalchi, quasi
totalmente in preda alla narcosi del sistema informativo globale; è
indifferente alla depredazione e al depotenziamento dello Stato e alla
demolizione della giustizia..
Fine della politica? No, sua progrssiva irrilevanza e, come pratica
attiva e disinteressata, pressochè totale sospensione. Si guarda il
“teatrino” programmato in TV e tanto basta.
In vista di una sua
lontanissima ripresa leggo e ripropongo con qualche variazione al
lettore (le cose non sono cambiate molto) alcune pagine scritte un
paio di anni fa in occasione di un importante convegno internazionale
di Encyclopaideia, tenutosi all’università di Bologna, su pedagogia e
politica. Prima o poi, la città si sveglierà e ci sarà bisogno anche
di strumenti teorici.
2. Donde muovere lo
sguardo
Il punto da cui
muove la vista dà buona parte della forma al paesaggio osservato.
Nell’intestazione del capitolo il termine educazione precede
politica non certo per una pretesa di supremazia ma solo per
indicare nel primo sito, empirico e scientifico, il posto onde si
indirizza lo sguardo verso un altro luogo, quello della politica.
Sorge subito un problema: sino a poco tempo fa la politica non era un
luogo, era il luogo, l’ambito di tutti gli ambiti, il punto da
cui venivano stabiliti i valori di ogni valore, il luogo della
decisione su criteri/crateri del potere. F.Nietzsche (letto in Al
di là del bene e del male Mursia, 81) poteva scrivere che “
i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano
"così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l’"a
che scopo" degli uomini”. Con tutto il suo pensiero “negativo”
Nietsche nutriva comunque un’idea alta di politica, vi vedeva il
luogo di individuazione e rafforzamento degli assi teleologici di una
cultura.
Oggi il “dove” e
“l’a che scopo” degli uomini, il “così deve essere” in altre parole
l’intenzionalità politica vengono negli USA come in Russia, come da
noi e negli stati africani, stabiliti in vista di obiettivi cortissimi
e coincidenti strettamente con quelli dei gruppi al potere. Nelle
società dove la comunicazione politica è più semplice il potere parla
con le armi e ideologie rozze (culto esplicito del Capo etc) e usa
istituzioni chiuse (dai manicomi ai campi di concentramento alle
deportazioni); dove questa è più evoluta la pedagogia di massa dei
potenti passa attraverso i mezzi di comunicazione direttamente o
indirettamente controllati. Nel primo come nel secondo caso, specie
dopo la sterilizzazione dei partiti e l’indebolimento degli assetti
costituzionali, un’attività politica sorretta da un pensiero e nel
contempo efficace è pressochè scomparsa. Dove c’è pensiero non vi è
possibilità materiale di traduzione in atti e dove questa esiste non
c’è pensiero.
Mentre
la politica dichiarata tale e onesta vale e conta sempre meno e si
diffonde una ideologia del disprezzo dei partiti in favore del Partito
unico di chi ha le leve della “società del controllo”, le scienze
della politica sono rimaste, in genere, a un’idea del potere politico
come primario, come potere supremo; non hanno acquisito il senso della
sua sopravvenuta secondarietà al sistema degli interessi economici
mondiali, autoreferenzialmente governato dalla finanza. La scienza
della politica –al pari di ogni altro sapere- può oggi essere
inquadrata nel sistema informativo globale come ancilla
economiae, subdisciplina concernente le strategie più efficaci
e convenienti per acquisire e conservare il controllo di strumenti
tradizionali di determinazione (i poteri dello Stato) che possano
utilmente integrare quelli industriali e finanziari. Acquisito il
diretto controllo dello Stato o assicuratoselo attraverso fidati
“intermediari”, la pratica politica viene ad aver come scopo il
mascherare la frizione reale degli interessi semplicemente
governando il conflitto tra la retorica dominante irradiata dai grandi
media e quelle ormai residuali prodotte nei tradizionali luoghi di
formazione del pensiero come scuole, università, partiti, chiese.
Ma noi che veniamo
dai libri cerchiamo la verità e questa è in primo luogo a-letheia, non
far dimenticare, dis-velamento. Vediamo dunque di togliere alcuni dei
veli sovrapposti al pensare contemporaneo di massa e che rendono
difficile costruirsi una rappresentazione del mondo diretta alle cose
stesse, almeno nei limiti in cui queste possono disvelarsi al soggetto
in quanto presenza politica attiva e/o passiva.
3. Etiche e
istituzioni funzionali a…..
Nessuna istituzione,
in qualsiasi campo, è mai stata per sè e in sè. Almeno in linea
teorica hanno tutte un luogo, un senso, una gamma di fini. Ma la gamma
dei fini deve coincidere con quella dichiarata e in democrazia deve
essere condivisa. Se il politico “professional” non può essere del
tutto indifferente alle ragioni della Politica (il sapere e il
pro-gettarsi della Città), il mondo dell'economia, almeno nella sua
parte di più larga intelligenza, intende l'etica come necessaria
strategia di un mascheramento "politicamente corretto" dei propri
obiettivi e delle proprie strategie. Una parte ancor minore mantiene
intenzioni etiche autentiche ma seppellite sotto metri di obbligate
pratiche amorali e di ideologia conseguente. L'economia "reale", come
quella finanziaria e quella più manifestamente criminale, genera con
il tempo epistemologie egemoni, deontologie di difesa del moralmente
indifendibile, convinzione di dover ottenere un adeguamento del
politico alle (proprie) esigenze economiche. Allo stesso modo si
pretenderà che la scuola con i suoi saperi e tutte le istituzioni
siano principalmente finalizzate al (privato) interesse economico. Si
sente infatti con sempre maggior rumore predicare che lo Stato -e non
solo quello "sociale"- va ridotto e forse superato perché non sarebbe
più strumento abbastanza efficace dell'economia.
Tutto
questo -comprensibile come espressione di interessi di parte- non può
evidentemente proporsi come fondazione di un quadro eticamente
accettabile dei rapporti tra economia e politica, come tra politica e
pedagogia.
4. La politica o
quel che ne rimane
Il nostro è dunque
tempo di preoccupati interrogativi. La politica pura (conoscenza e
progettualità fondazionalmente disinteressate) non è morta ma l’
attività politica nella forma più alta della tradizione occidentale,
quella repubblicana, è forse sospesa a tempo inderminato? Sarà
limitata al contesto accademico o in aree di dibattito politico
sostanzialmente irrilevanti come zona di ridisegno degli eventi?
Le logiche
deterministiche di condizionamento ideologico (ideologia nel senso
evidenziato dalla critica marxiana) dei tycoons tardomoderni agiscono
prepotentemente –al di fuori di qualche stato d’Europa- in tutto il
mondo e ovunque, a iniziare dal campo del diritto, (convegno NCM Forlì
2003), va estinguendosi il pensiero del soggetto pubblico
e affermandosi quello privato. Vi è ancora spazio per un pensiero
a trascendentalità illimitata, universale della democrazia
pensante o solo per quello della plutocrazia;
ovvero, quanto futuro ha un pensiero non-propagandistico
e al servizio della cosa pubblica?
Certo, il nostro
ragionare alla estrema periferia della politica non è sereno; è
scritto da un punto di coscienza politicamente infelice. Una via
d’uscita potrebbe essere quella, intellettuale, della
parentesizzazione, oppure quella, pratica, di realizzare la virtù
dell'astinenza (l'astinenza dei virtuosi nelle epoche di corruzione
profonda) o quella Pedagogica, di coltivare l'Utopia. Il che
naturalmente non vuol dire astenersi dal mondo ma solo
dall'esposizione alle più intense, devastanti radiazioni della
macchina del consenso; per coltivare con pochi eletti amici, per tempi
migliori, forme di pensiero critico e creativo di conoscenza e di
ethos.
Tuttavia,
mentre i filosofi (comprendendo in questa categoria, come all’inizio
del sapere occidentale, ogni soggetto di ricerca disinteressata)
discutono in libertà, dominano saperi di mascheramento
asimmetricamente normativi, ovvero ingiusti, e produttivi di risultati
economici conseguiti ad altissimi costi umani e ambientali. La
ricerca e l'insegnamento di qualsiasi sapere -dalla politica alla
fisica- sono ormai promossi all'interno del sintagma finanziario e
dunque dell'etica utilitarista, delle metodologie di tipo
programmatorio (obiettivi etc) e dei sistemi valutativi oggettivanti.
Scompare dall’orizzonte della visibilità l’idea di senso, mentre tutta
l’intenzionalità personale e collettiva è risucchiata dagli obiettivi,
o sensi nani, che del senso sono la caricatura.. Mentre la
rendicontazione è accuratissima in riferimento a obiettivi di ordine
economico (salvo casi Enron- Arthur/Andersen o Parmalat) non si
rende conto di nulla rispetto ai grandi valori dell’umanità, ai costi
spirituali delle trasformazioni economiche. Ne sono
manifestazione in ambito scolastico il trionfo della competenza sulla
conoscenza, del criterio di utilità sulla purezza (gratuità), del
risultato sul principio, della didattica del dio Mercato sulla paideìa
della tradizione ebraico-cristiana.
L’approccio
minimalista comporterebbe la rinuncia a trasformare tutto il mondo, la
speranza nella (propria e di chi altri voglia salvarsi) salvezza. E
niente altro. Ma che tristezza, per noi soggetti politici e pedagogici
consapevoli , pensare dalla collina della scienza alla città ove
infuria la peste mediatica e miliardi di ex-cittadini incretiniscono e
s’insudditano alla luce azzurrina di tubi catodici o schermi LCD!
5. Profili
epistemologici
L'eclissi della
scienza politica (nonché della teologia, dell'etica e della pedagogia)
nel firmamento dei saperi dura ormai da mezzo secolo, avendo avuto
inizio con l’ideologia della tecnica e il conseguente oscurarsi alla
coscienza collettiva del sole perenne della filosofia e in particolare
del pensiero idealistico e fenomenologico. L’oscuramento della visione
come possibilità originaria di ideazione –grazie (per Loro) alla
proiezione contemporanea di spot ingannevoli- è il punto che penso di
dover prendere a inizio di un nuovo cammino.
L’apparentemente
irresistibile trionfo del non-pensiero nel mondo contemporaneo non può
essere un buon motivo per smettere di pensare dunque di prestare
attenzione ai fenomeni per ideare un quadro teorico che, tratte
motivazioni nel campo dell’esperienza, strappi il velo delle
apparenze, le superi criticamente. Faccia ri-vivere il mondo della
vita politica e pedagogica per delineare una teoria rigorosa e,
magari, capace di aiutare a produrre un mondo diverso.
Si tratta dunque in
primo luogo di disincantarsi, dis-trarsi dalla grigia favola mediatica.
Non per cadere in un altro oblio del pensiero ma per creare un
pensiero che crei un nuovo mondo, e di compiere questo atto
fuori ma anche dentro l’universo telematico. Tra tutti gli universi
che l’immaginazione del soggetto trascendentale (l’insieme degli
uomini) ci offre, quello politico è il meno “frenato” da elementi
oggettivi: qualsiasi tesi può suonare come verità adamantina. Se la
tesi secondo cui gli asini volano fosse di ordine politico e
mediaticamente ben sostenuta, troverebbe milioni di sostenitori. Hanno
trovato adesioni plebiscitarie anche tesi non più strampalate ma più
pericolose come ieri la superiorità della razza ariana o la dittatura
del proletariato, come oggi la supremazia anche etica (Novak) del
Mercato. Il governo dei processi comunicativi che producono
immaginazione collettiva produce “realtà” subdolamente
incontrovertibili, mondi resi veri dal fatto di essere massicciamente
evocati. Finchè pensiamo come ci addestrano le cose non possono
cambiare, nulla di nuovo può nascere se un nuovo e autonomo pensiero
non nasce. Occorre un’idea davvero originante perchè un nuovo mondo si
produca sulla scena degli eventi. E occorrono una scienza della
politica e della pedagogia non integrate nel sintagma del non-pensiero
di successo e che producano utopie essenziali (generative) dunque con
qualche possibilità di divenire evento.
È teoria
autentica ciò che validamente ci invita a far esodo dalle ristrettezze
del presente, ci spinge andare oltre, verso la sosta ove fra molti
anni collimeranno le attuali caotiche direzioni di senso.
E’ una impresa
difficile ma occorre tentare. Né la politica né la pedagogia possono
concedersi il lusso del pessimismo. Fosse anche solo pessimismo della
ragione: sarebbe involontaria complicità nella costruzione del peggio.
Quel che ci aspettiamo in qualche misura accade sempre.
6. Guardare oltre
la contingenza
Politica e pedagogia
non possono dunque essere solo scienze della contingenza (Luhman) ma
anche dell’intero campo dell’esperienza umana; siano saperi che la
analizzano e poi ne fuoriescono per creare eu-topia, nuovi, più
umani e felici scenari di vita. Uno dei modi per evitare che il
pensiero si banalizzi è quello di assicurargli un costante supporto
dalla tradizone: questa è l’eredità di miliardi alla n.sima potenza di
atti di pensiero e di non pensiero che si sono confrontati tra loro e
con gli eventi delle epoche in cui si sono evoluti. Sono il prezioso
esito di innumerevoli esistenze, un patrimonio da conservare (1)
(1).Ebbene,
nell’età del non-pensiero non si trova più un conservatore neanche a
pagarlo a peso d’oro. Sono diventati tutti innovatori e riformisti:
quelli “di sinistra” per antica abitudine ma ora –da quando han capito
che almeno per un paio di decenni il futuro è tutto loro- anche
quelli di destra. Che possono farci la scuola e l’università, luoghi
istituzionalmente deputati alla conservazione come al cambiamento del
sapere?
Noi nella scuola
ricordiamo che ogni sapere è tale se è frammento di luce e, pur in
dialogo con il mondo, guarda oltre ed è memoria di passi antichi, di
antichi spostamenti da…a all’incontro con l’accidentale e
l’essenziale della cultura e del proprio essere. E’ sedimentazione di
infiniti riverberi del passato come di atti intenzionali, di
disposizioni all’oltre-sé; parimenti, ogni sentiero (curriculum)
seriamente progettato è esito di migliaia di attraversamenti avvenuti
anche sulla stessa linea del territorio.
La scuola -tutta-
è luogo di orientamento attraverso i saperi, ossia attraverso i
testamenti intellettuali dell'umanità come é stata sino ad ora
rappresentata. Da sempre il sapere viene dall’incontro tra la
disponibilità ad apprendere di un soggetto e le offerte di conoscenza
dell’ ambiente in cui questi si forma. La conoscenza e l’educazione
ideali sono quelle in cui le due componenti sono equilibrate, in cui
l’ambiente ha rispetto dell’individuo, delle istituzioni e delle loro
storie, non ne totalizza la visione delle cose.
Sappiamo sempre del
mondo e di noi per ciò che ci viene detto; ma oggi fuori dalla scuola
e –ma non sempre- dalla famiglia, i giovani sono indotti, a un sapere
che abita sempre meno in interiore homine e sempre più nell’interfacciamento
costante alle reti di comunicazione. Ormai il valore socialmente
riconosciuto di un sapere non è nella qualità e nella generatività dei
suoi asserti ma nella pressione temporanea che i suoi apparati
diffusivi esercitano o direttamente sulle masse o su target
strategicamente scelti per la loro capacità replicativa.
Per fortuna il
valore della conoscenza non coincide con quello del suo riconoscimento
momentaneo: può esser riconosciuto dopo secoli o anche mai ma quelle
idee che sanno lanciare ponti con gli eventi avranno comunque corso,
magari senza che il loro autore sia più riconosciuto. Inoltre, le idee
più alte sono nulla se non rivivono nella coscienza di un soggetto che
le pensi non replicandole ma ri-costruendole. L’idea si produce
in mondo e il soggetto ne può essere l’autore e il testimone:
non c’è coscienza autentica senza un soggetto liberamente attivo; non
c’è spazio per il pensiero autentico (personale, critico, creativo),
né relazione trascendentale, quando uno dei soggetti è schiacciato
sotto il peso della cultura fabbricata per le masse, quando –ad
esempio- l’atmosfera intellettuale è attestata sul “pensiero corto”
, un modo di pensare, di agire, di vivere che ha “ridimensionato i
propri orizzonti”.
7. Nuove/antiche
fondazioni per non perdersi
La scuola è da
sempre il luogo della conoscenza, ovvero dell’essenziale, di un sapere
alto e disinteressato, teso a costruire le fondazioni di un autentico
pensare o a cercar di edificare addirittura le fondazioni. Dopo le
lezioni di Nietzsche, la cultura alta, ipercomplessa e plurale del
nostro tempo vive una piena e largamente, anche se non
universalmente, riconosciuta crisi delle istanze veritative e di
certezza; il nostro è –nell’alta cultura- il tempo della "crisi
dei fondamenti" . Non c’è più una base statica e immodificabile su
cui fondare l’edificio del sapere. Ma oggi quel che si chiede alla
scuola con particolare insistenza è di essere una vera e propria
fabbrica di competenze. La competenza come surrogato della conoscenza
da distrubuire alle masse.
Forse nella
richiesta, che le élites del potere inducono nelle masse, di
competenza c’è un (per loro) fondato timore di incontrollabilità e
improduttività di una troppo larga condivisione delle conoscenze. Le
competenze non preoccupano e possono anzi essere strumentalizzabili,
le conoscenze alterano (rendono altre da quel che sono) le visioni del
mondo e gli equilibri del potere-
Non é senza motivo
che gli ultimi programmi della Facoltà di scienze della formazione ma
anche di altre facoltà prevedano corsi di studi finalizzati a una
immediata e diretta spendibilità del titolo di studio in mestieri ben
precisi, prima ancora che il giovane abbia avuto almeno il tempo di
formarsi nelle discipline scientificamente costituite: par quasi che
il fine dello studio universitario non sia più invitare al convito
della conoscenza ma fabbricare competenze vendibili. L'università non
è più il luogo universale (volto al tutto) e disinteressato ove gli
studenti insieme ai maestri perseguono la conoscenza, non persegue più
l'universale ma un (illusorio) particulare. Peraltro, le università
comuni allestiscano pure catene di montaggio della competenza per i
figli del popolo; esclusive e costose università formeranno invece
allo studio della conoscenza -ovvero quella che, come sanno Lorsignori,
davvero conta- i rampolli che lavoreranno negli strati alti dell’élite
(Di Maio,LUISS).
Ma la pedagogia è da
millenni organo di un sapere pensante e vocazionalmente universale;
non può tradire la sua missione. Non può continuare in una cultura del
fondamento senza fondazioni, divenuta non più adeguatramente
interpretativa dello spirito essenziale dell’alta cultura, la sola che
può esserle di riferimento. "Essenziale" non è affatto sinonimo di
“minimo" (spesso i due termini sono considerati tali), concetto
quest’ultimo interno a una cultura del fondamento, della necessità,
della determinazione. Bisogna dunque -riscrivere i programmi
scolastici e universitari con occhio volto non alla spendibilità del
titolo sul mercato delle persone ma alla formazione umana e
scientifica di base (2).
(2) Io sono uscito dall’Istituto magistrale di Forlimpopoli prima e
dall’Università di Urbino poi, trent’anni or sono, senza la minima
idea di come operare tecnicamente nella scuola (qualcuno dice che tale
sono rimasto) ma con la percezione che il mio pensiero, nei limiti
dell’età, fosse in grado di relazionarsi (e di esprimere validamente)
con lo stato della cultura e le scienze dell’educazione. Mi sentivo
non oggetto ma parte del sapere, non mi limitavo a studiare ed
applicare ma dialogavo, discutevo anche a distanza di secoli con i
grandi autori che leggevo e di cui avevo appena sentito dissertare.
Ricordo le discusioni con preside Rovinazzi su Gentile, con Gianfranco
Morra sul sacro, con Carmelo Lacorte su Kant, con Pasquale Salvucci e
un giovane Domenico Losurdo su Marx, con Italo Mancini su Heidegger e
Gadamer, con Nando Filograsso su Dewey. Erano allora le scuole e
l’università di uno studio non finalizzato all’esame, di un pensiero
pensante, non amministrante o esecutivo; pensiero delle domande
radicali, dialettico, paradossale, di una totalità senza violenza, che
vedeva trame unitarie entro la contraddittorietà dei fenomeni,
integrante e trasgressivo, liberante il l’anima dalle sue tendenze
all’inerzia.
Non so se il non aver appreso competenze direttamente utilizzabili mi
abbia poi nuociuto molto nella vita. Ma certo non sarei stato io se
fin dagli anni giovanili non avessi incontrato la conoscenza nelle sue
forme più pure.
Qualche anno fa son tornato da ispettore a Forlimpopoli e da
professore a Urbino. Il non-pensiero era minaccioso, ma non ancora
vincente; le parole dei miei maestri suonavano ancora, le pagine che
io avevo letto erano ancora al posto d’onore. Non so per quanto tempo
ancora, ma confido per molto, forse per sempre.
8. Tratti che i
nuovi saperi potrebbero assumere, se le cose dovessero andare per il
meglio
I saperi volti non
al successo ma alla verità, all'essenza sono saperi di lungo respiro;
portano a pensare le cose non solo come sono oggi ma come sono state e
probabilmente muteranno, indipendentemente dal loro utilizzo
immediato e prossimo venturo. I saperi essenziali –saperi di
libertà- costruiscono la città futura, valorizzano le diversità e le
differenze, quelli minimi o "irrinunciabili" danno a tutti qualcosa
che é estraneo a ciascuno.
E’ opportuno per
chi è a vari livelli coinvolto nella vicenda della scuola fermarsi
ogni tanto e riflettere sui saperi che si sono sedimentati nei testi e
su quelli che ancora attendono di entrare nella dimensione della
scrittura o dell'immagine riconosciuta. L’evidente e conclamato
cambiamento dello scenario globale impone da un lato alla scuola e
all'università di resistere alle ruspe della cultura fabbricata per le
masse e di conservare il tesoro millenario della cultura alta;
dall'altro richiede d’indicare le direzioni di senso davvero
importanti, altrimenti si finisce per credere che l’unico percorso
valido sia quello che attraversa casa, fabbrica e supermercato.
Anche quando le
dinamiche dell’istruzione saranno modellate più dalla struttura della
domanda modellata dalla pubbblicità diretta e indiretta che
dall’offerta, noi dovremo rispondere anche a domande non sentite. Il
maestro non è chi si limita a compiacere, è anche chi dis-piace, porta
l’allievo a mettere in crisi la struttura della propria domanda.
Dobbiamo resistere
alla pressione dell’insensatezza, conservare la memoria ma non solo;
anche pensare, costruire, creare e non agitarci; anche se tutti ci
fanno fretta, anche se tutto ci porta ad un agire economicistico senza
fondazioni e senza autentico senso. "Pensare nonostante"
e "pensare in vista di": aspetti di chi insegna i
saperi che devono permanere come quelli che si vanno disegnando oltre
l'orizzonte del tempo.
Penso che dobbiamo
promuovere nei prossimi anni una conoscenza non tassonomica ma che
venga dalla vita e dalla cultura e sia volta all’essenziale: dunque
pluralistica, interpretativa, regionale (lavoriamo al curricolo
locale), aperta sul possibile, indeterministica, aprente, slargante,
sollevante.
La cultura in cui
offrire essenziali spazi di forma alle nuove generazioni potrebbe
recuperare lalmeno due idee husserliane: l’idea di mondo della vita e
quella -presente soprattutto nella Crisi delle scienze europee
- di saperi non separati dalla concretezza del soggetto conoscente,
dai suoi tempi e dai suoi luoghi, saperi che -parlando a lui- dicano
di lui. Un sapere (H.Arendt) plurale come sono plurali gli esistenti.
Un sapere articolato attraverfso curricula, non espressivo delle
ontologie universali imposte dal mercato mondiale delle idee di
successo ma prodotto gratuitamente, interrogando nella propria lingua
e con incursioni nelle lingue aliene non il tutto ma ogni cosa
e saldamente poggiando i piedi sulla terra natia (M.Heidegger).
9. Primato dello
Stato come garante della libertà
Il Potere, che non è
lo Stato e anzi da sempre lo sfrutta, proclama da una decina di anni
di avvertirlo come una palla al piede, un orpello-fardello
dell’Ottocento che dovrebbe dissolversi in una organizzazione più
funzionale all’economia.
Non è evidentemente
il mio avviso: indebolire lo Stato significa togliere ai più ogni
difesa dagli animali predatori. Significa rinunciare a idee di
giustizia e di libertà per tutti. Oltre le contingenze, dobbiamo
invece sperare in una transizione di forma dello Stato -anche
nelle sue varie articolazioni territoriali- da sistema d'istituzioni
pre-costituite ai soggetti individuali e collettivi, tendenzialmente
autoreferenziali e preregolate da norme fisse a vivida
costellazione di servizi continuamente riprogettati in funzione
dei soggetti fruitori. Il passaggio non dovrebbe comunque voler dire
rinuncia delle strutture della Repubblica ad una propria
intenzionalità etico-pedagogica e al dovere di offrire a operatori
scolastici e alunni una plurale gamma d'opzioni in tal campo.
Il mutamento della
forma/sostanza dello Stato comporta una ulteriore evoluzione della sua
soggettualità: da Stato (scuole) "di tutti" a Stato
(scuole) che sia anche "di ciascuno" assolva alla funzione di
catalizzatore non unilateralmente selettivo del sapere. Platone e
Gentile insegnano che lo Stato guida alla conoscenza, io aggiungo che
il Mercato -che si muove oggi anche sotto il falso nome di “società
della conoscenza”- invece è interessato quasi solo alla competenza. I
politologi parlano ormai di uno "stato globale senza Stato", della
sostituzione di quest'ultimo con una serie di regioni economiche
organizzate non dalla Legge e dalla Scienza ma unicamente da rapporti
di forza economici. In questo contesto, la scuola di Stato che guida
al conoscere non ha evidentemente più senso, o meglio ne ha proprio
perchè la situazione è questa.
Io sono convinto
che, come non vi è Stato senza scuola di Stato e una pluralità di
scuole anche a gestione privata ove si insegni il senso dello Stato,
lo Stato è prima di tutto un evento culturale e pedagogico o,
per dirla con Hegel, forma oggettiva dello Spirito. Spirito
che è a rischio estinzione a causa di quell’immenso virus che è la
lingua-mondo angloinformatica, la lingua dell’Impero, entità nemica
di ogni sovranità nazionale e di ogni conoscenza non meramente
strumentale. La sopravvivenza del pensiero richiede allora un luogo
di educazione disinteressato e pluralista, dunque anche statale, ove
tutte le culture possano con-vivere e i saperi di ampio respiro
progredire. Va realisticamente riconosciuto che nella prevalente
cultura massmediologica e nella relativa appendice ufficiale prevale
l’immagine strumentalistica, baconiana dei saperi come competenza.
Pare che il “pensiero corto”, edizione per le masse del “pensiero
unico” debba proprio averla vinta. Ma chissà.
La scuola di Stato
(scritto dunque con la maiuscola, in quanto stato dello Spirito;
nessuno si adiri tanto sono espressioni di pura utopia) e le scuole
che operano nello Stato non devono comunque perdere di vista il fine
verso cui tendere, altrimenti gli spazi relazionali e i saperi
rischiano di essere strumento di frantumazione ulteriore dell'uomo. Se
l' attenzione è rivolta ad un soggetto intero che vive ed
esperisce in un ambiente culturale, allora l'intero del soggetto va
collegato all'intero della cultura. Certo la cultura è tutt'altro che
unitaria; proprio per questo vanno ricercate trame, non solo
analitiche, nè meramente specialistiche, che sappiano connettere i
saperi tra loro nell' "antico" linguaggio dei libri e nella versione
liberale della tradizione idealistica.
(3) Occorre pensare anche la Riforma morattiana come assunzione
(non ricevimento dall'alto) di una forma nuova: fuori dalla
lettera dei testi normativi, nella realtà dovrà essere pensata e
progettata dalla scuola stessa, chiamata a dar prova di capacità
autoprogettuale. I futuri indirizzi del centro dovrebbero solo non
ostacolare la scuola nel cambiare secondo lo spirito della Cultura
(non del 'pensiero unico' dell'economia), come sinora ha saputo fare
in quel prezioso luogo d'interpretazione e progetto che é stata, è, e
deve rimanere la scuola dell’infanzia
Ogni autentico
sapere è sapere della libertà, è pensiero critico e creativo; è
lasciar essere i soggetti e le cose; se non c’è apertura essenziale
(originale) l’altro-dall’io non esiste se non come mero oggetto, è
inesistenza dissimulata, epifania del nulla, competenza del niente (il
mondo senza il soggetto). Ma anche il soggetto “dominatore” è un
cavaliere inesistente, è signore di fantasmi o di creature distrutte.
Libertà
intellettuale è poter esser parte della conoscenza umana,
non lavorare come competenti tecnici del suo confezionamento e
distribuzione o come consumatori dedicare la vita a ingurgitare quel
che passa il Mercato. Libera è quella scuola che porta i giovani a
portare al mondo imprevedibili configurazioni che senza di loro non
sarebbero.
10. Conoscenza e
competenza. Ulteriori focalizzazioni
E' missione (non “mission”,
un'americanata) della scuola porgere cenni per affrontare il futuro,
indicare le direzioni di senso davvero importanti senza l’abbandono
di parole e consuetudini millenarie e la loro sostituzione con altre
più coerenti con gli assi valoriali dell’epoca, Questo in un processo
di ricambio velocissimo della cultura di massa e purtroppo portato a
privilegiare il visibile sull’invisibile, il prossimo sul lontano,
l’utile sul gratuito, i risultati sui princìpi.
E’ interessante
notare che i più diffusi dizionari filosofici (“Dizionario delle
idee”,Gallarate-sansoni,1977 e l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia,
1981), e i più noti dizionari psicologici (Galiberti, UTET, 1992 e il
Dizionario di psicologia, ed.Paoline, 1981) non trattino
specificamente il termine competenza, mentre riservano molto spazio al
termine conoscenza. Se studiosi loro omologhi li riscrivessero oggi,
forse accadrebbe il contrario. Secondo me non del tutto a torto: al
nostro tempo non interessa l’elaborazione di pensiero ma,
pragmaticamente, l’utile che può venire dal possesso di quadri
disciplinari. La conoscenza é fondazionale ma interrogante, critica,
creativa dunque potenzialmente fastidiosa per coloro che detengono il
controllo della situazione; la competenza è invece un effetto
secondario ma innocuo sui rapporti di potere e potenzialmente utile.
Conoscere è aver interiorizzato l’essenziale delle cose abitare
intelligentemente i fenomeni dunque riguarda pratiche riservate ai
signori. La competenza –nell’interpretazione più diffusa- è saper in
qualche modo ottenere risultati vendibili sul mercato dunque
differenzialmente valorizzabili o cancellabili da chi lo controlla.
Siamo contrari a
riservare la conoscenza ai signori del mondo. Conoscere è per noi
acquisire uno spazio di inerenza all’essere, partecipare di ciò senza
di cui l’essere non è più tale, ciò che è necessario affinché l’essere
viva. Significa abitare la terra natìa, la casa in cui si sta, la
lingua in cui si risiede; ma anche essere aperti a ciò che schiude al
trascendimento dallo stato, apre alla pienezza di un senso
intenzionale. Il termine conoscenza si oppone intrinsecamente a ciò
che non appartiene al soggetto dell’essere a ciò che aliena, che
demolisce il proprio abitare fisicamente e culturalmente la terra, ciò
che blocca il distendersi intenzionale del soggetto o
–pedagogicamente- ne canalizza gli itinerari di autoeducazione
Conoscere é l’heideggeriano “sbocciare da se stesso”. E’
conoscenza essenziale quel sapere che avvicina il soggetto all”argomento
fino al rendersi presente di quel che è remoto, quel che porta
all’apparire, al manifestarsi dell’ignoto entro l’ambito di ciò che è
noto.
Conoscere è far
agire il sapere che apre, lascia che gli enti e gli eventi cognitivi
accadano senza irretirli in tassonomie,è creare reti non vincolanti di
conoscenza.
Conoscere è
approssimarsi all’identità profonda (trascendentale) di soggetto
oggetto, far cogliere al primo un’identità originalmente ignota a lui
stesso e che non può scoprire senza attraversare la foresta della
cultura, senza aver passato i campi dell’esperienza scientifica
e poetica del mondo. La conoscenza non è solo dell’evidenza;
nasce anzi –insegna Socrate- dal superamento dell’evidenza, da uno
sforzo, che nasce dal profondo, di guardare alto e largo; e lontano,
e gratuitamente.
Da Platone a Kant, a
Husserl, ad Heidegger, a Gentile la conoscenza è dell’essenziale,
dei princìpi, di ciò che, dentro la parola e fuori dalla chiacchiera,
riduce il superfluo delle parvenze e apre il soggetto a rappresentarsi
originalmente (ma anche adeguatamente) il mondo. La scuola può/deve
offrire un orizzonte storico per l’intelligenza dell’essere: offrire
dunque conoscenze e saperi (costellazioni di conoscenza)
essenziali in quanto lasciano essere anziché trasmettere statuti
di ciò che la cultura dà per essente. Se la conoscenza non è
dell’essenziale,n del gratuito o –direbbe Pomi- dell’inedito- è
chiacchiera, ideologia liberista e dunque illiberale del Mercato,
introduzione al culto del Nulla.
Edith Stein ci ha
indicato come la conoscenza non sia mai uno sterile, industriale
prodotto automatico di operazioni tecniche ma qualcosa di
imprevedibile, di vivo, di fecondo, di generativo di sapere ulteriore.
Direi che laddove la competenza risiede nella cultura dell “utile”,
l’essenziale abiti in quella della “fondazione”; dove la competenza é
“saputa” la conoscenza è, con Gentile, sapere in atto.
Conclusione
Con il suo cavallo
nominato senatore, Caligola insegna che il vero potere è quello che si
impone non attraverso il rispetto dell’etica e il far agire la ragione
ma riesce a dominare avendo forza sufficiente a sovvertirle.
Io (noi uomini di
volontà buona) vorrei che la politica fosse il riprendersi di uno
Stato con la maiuscola, alternativo al mero dominio della forza
economica, eticamente motivato e che la scuola fosse , con Gramsci,
luogo di formazione dello Stato a venire.