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Per un recupero della cultura di Giuseppe Bertagna
Non c’è nulla di più ambiguo e pericoloso della facile chiarezza, diceva Hegel. L’ammonimento è pertinente al tema che si discute, il quale, dopo il Titolo V e il disegno di legge delega 1306 che ne è conseguito, ha assunto forme e dimensioni del tutto inedite rispetto alla tradizione interpretativa a cui siamo stati abituati. In particolare, va detto che per cogliere le differenze specifiche tra Licei e Istituti dell’istruzione e della formazione professionale e per decidere, da un lato, il numero degli indirizzi dei Licei e, dall’altro, natura, tipologia e durata degli Istituti dell’istruzione e della formazione professionale, nonché i criteri e le condizioni dei reciproci passaggi per gli studenti, occorre accostare la questione da lontano e proprio a partire dal versante dell’istruzione e della formazione professionale che assume la funzione di vera e propria architrave del processo riformatore.
Il punto di partenza e di arrivo La natura delle cose si conosce solo alla fine (Aristotele); «vago e nebuloso è l’inizio di tutte le cose, ma non la fine» (K. Gibran). Se applichiamo questi precetti euristici al tema dell’istruzione e formazione professionale, vediamo che il punto di partenza, il co. 1 dell’art. 117 della Costituzione del 1948, dopo un percorso lungo e tortuoso, si è inverato nel nuovo co. 3 dell’art. 117 riformato dalla legge costituzionale 18 ottobre, n. 3. Questo percorso è stato scandito dall’affermazione di due fondamentali paradigmi interpretativi. Il secondo, recente, quello confluito nel nuovo art. 117 e nel disegno di legge delega 1306, se raccoglie il meglio delle ispirazioni e delle preoccupazioni presenti nel primo, con l’intenzione di completarle e superarle in maniera significativa, si presenta, tuttavia, a livello operativo e, soprattutto, ordinamentale, ancora ad un livello incoativo. Da qui anche l’importanza di curarlo nei dettagli, di coinvolgerlo al più presto in lavori di sperimentazione come quelli concordati con la Lombardia e il Trentino e di attribuirgli la priorità assoluta non solo nell’avvio, ma soprattutto nell’implementazione della riforma. Il successo della riforma dipende, infatti, dal consenso sociale che questo nuovo paradigma costituzionale, ordinamentale e culturale sull’istruzione e formazione professionale dei prossimi decenni riuscirà a raccogliere nel Paese e dal prestigio che esso riuscirà a guadagnarsi in rapporto ai Licei. D’altra parte, se il primo paradigma interpretativo è durato una cinquantina d’anni non si può pretendere che il nuovo nasca già armato come Pallade nel cervello di Zeus. Insieme ad una forte e coordinata iniziativa istituzionale dello Stato e delle Regioni nel creare le condizioni organizzative per concretizzarlo, ha bisogno dei tempi, e della pazienza, che ogni cambiamento di amplissime dimensioni come questo esige.
Nascita ed estenuazione del primo paradigma interpretativo L’esordio del paradigma. «L’istruzione artigiana e professionale» assegnata dalla Costituzione del 1948 in legislazione esclusiva alle Regioni venne intesa dalla legge 29 aprile 1949, n. 264 come un ambito da inserire nelle norme sul collocamento e sul lavoro. Questa lettura fu confermata da alcune leggi successive di modifica della 264/49 e da una fitta produzione di circolari ministeriali. «L’istruzione artigiana e professionale», insomma, fra l’altro sull’onda di una consolidata tradizione ultracentenaria, come problema del lavoro, non dell’educazione della persona; competenza dei vari Ministeri (dell’Industria, dei Trasporti, della Sanità ecc.), ma non dell’Istruzione. Inoltre, il suo strutturarsi sul modello domandista: tante qualifiche professionali standard cercava il mercato del lavoro quante qualifiche professionali standard doveva produrre l’«istruzione artigiana e professionale». Questa non poteva rivendicare autonomia educativa e culturale, e sviluppare gli interessi e le capacità di ciascuno tramite l’incontro con i problemi di ogni arte e mestiere, ma doveva piuttosto essere al servizio delle esigenze del mercato: interessi e capacità individuali si dovevano autoselezionare per adattarsi alle tipologie delle arti e dei mestieri disponibili. Accanto all’«istruzione artigiana e professionale», tuttavia, veniva nel frattempo affermandosi anche ciò che sarebbe poi diventata l’istruzione professionale statale. La vivacissima dinamica economia del dopoguerra (si ebbe un tasso di sviluppo mai raggiunto nella nostra storia e tuttora ineguagliato al mondo!) richiedeva prestazioni professionali sempre più ricche di una cultura superiore a quella tradizionalmente elementare e postelementare. Il leggere, lo scrivere e il far di conto necessario, ricordava già Adamo Smith ne La ricchezza delle nazioni (1776), per produrre spilli, si doveva rinvigorire non poco per corrispondere alle modalità produttive tipiche della nuova società industriale. Forzando una norma del 1939 (art. 9 del Rdl 21 settembre 1938, convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 139) che consentiva di istituire nell’ambito dell’istruzione tecnica «scuole aventi finalità ed ordinamento speciale», perciò, crebbe, negli anni cinquanta del secolo scorso, l’istruzione professionale prima bi- e poi triennale. Mantenendo i segni della propria origine, essa fu concepita come sottosistema dell’istruzione tecnica e destinata sia agli allievi che non potevano permettersi di intraprendere gli studi tecnici quinquennali a causa delle loro condizioni economiche familiari sia agli allievi scolasticamente più deboli che non sarebbero mai riusciti a proseguire i più impegnativi studi tecnici, ma che avevano comunque bisogno di una formazione culturale più solida di quella reperibile nelle tradizionali scuole di arti e mestieri. Dalla combinazione di queste prospettive, a cavallo della riforma della scuola media del 1962, si consolidò a livello di politica, ideologia e pedagogia della scuola la convinzione di una tripla dipendenza di tutto ciò che aveva a che fare con il termine «professionale». Si consolidò a tal punto da diventare quasi un luogo comune, un modo di pensare da non mettere nemmeno in discussione. La prima dipendenza era quella che l’«istruzione artigiana e professionale» regionale scontava nei confronti della formazione scolastica statale in generale. La formazione scolastica statale, anche dell’istruzione tecnica, era, infatti, al servizio della persona e, tramite la specificità dell’incontro intellettuale con le conoscenze disciplinari, del suo sviluppo integrale. L’«istruzione artigiana e professionale» regionale era, invece, al servizio dell’azienda e del lavoro: chiamata ad adattare le prestazioni della persona a quelle richieste dalle esigenze della produzione; quindi a considerare la persona più come uno strumento che come un fine; per questo meno nobile della precedente, e rispetto ad essa ‘minore’. La seconda dipendenza era quella che essa subiva non solo nelle vesti di «istruzione artigiana e professionale» regionale in senso stretto rispetto alla formazione scolastica statale in generale, ma anche in quelle più aggiornate di «istruzione professionale statale» rispetto agli altri tipi di istruzione secondaria statale. Mentre, infatti, l’istruzione liceale e pure tecnica erano, in sostanza, destinate ai costituzionali «capaci e meritevoli» (art. 34, co. 2), l’istruzione professionale statale, pur essendo più prestigiosa dell’«istruzione artigiana e professionale» regionale, era comunque rivolta ad un’utenza di studenti ritenuti meno «capaci e meritevoli» dei coetanei del Liceo o degli Istituti Tecnici. In questa prospettiva, si sanciva la subordinazione dell’istruzione professionale statale all’istruzione tecnica e a maggior ragione liceale e si confermava la sua funzione pedagogicamente ospedaliera: luogo di recupero e cura dei giovani scolasticamente già svantaggiati nella scuola media oppure espulsi (‘dispersi’) nei primi anni dei Licei e degli Istituti Tecnici. Questa duplice dipendenza spiegava anche la terza, solo in apparenza riducibile ad una questione di successione cronologica, ma in realtà molto più ricca di risvolti ideologici. Proprio perché era palese ad ogni persona onesta e di buon senso («l’uomo prudente», «lo spettatore esterno» di Smith) l’irriguardosità etica, l’iniquità sociale e l’insostenibilità pedagogica di una formazione disposta non per l’uomo, ma per il mercato del lavoro e di un’istruzione professionale programmaticamente ‘minore’ rispetto all’istruzione liceale e tecnica, era necessario, da un lato, ritardare il più possibile l’incontro con un’esperienza addestrativa in fondo così «alienante» e «antiumanistica» e, dall’altro lato, rimuovere per quanto possibile, per la sua imbarazzante ‘minorità’, la natura «professionale» dell’istruzione statale nata proprio per essere professionale, assimilandola invece sempre più all’istruzione tecnica e liceale. Da qui, la scelta, sia di prolungare sempre di più il tempo della formazione scolastica generale, sia, progressivamente, dal 1969 in avanti, di licealizzare l’istruzione professionale; e, di conseguenza, l’accreditamento della teoria dei due tempi: prima, anche sul semplice piano cronologico, si va a scuola e si incontra l’istruzione come mezzo per lo sviluppo integrale della personalità; e poi, quanto più poi possibile, si può innestare sulla formazione generale scolastica «la formazione artigiana e professionale» di tipo specialistico che adopera la persona come mezzo per l’esercizio del lavoro; prima si devono acquisire conoscenze generali solide e poi, solo poi, si può pensare ad impadronirsi di una professione, proprio come se si trattasse di due fasi tra loro incomunicanti, se non addirittura incompatibili. Il consolidamento del paradigma. La nascita delle Regioni a statuto ordinario con le prime votazioni del 7 giugno 1970 (legge 10 febbraio 1953, n. 62, 17 febbraio 1968, n. 108, 16 maggio 1970, n. 281) fu occasione per sviluppare e sistematizzare le caratteristiche dell’«istruzione artigiana e professionale» regionale prima menzionate. Questa operazione di risistemazione dei percorsi formativi volti all’esercizio delle professioni meno nobili e pregiate, ma rese anche sempre più bisognose di iniezioni di cultura e di scienza dalle stesse esigenze dell’organizzazione produttiva, fu compiuta in due mosse tra loro complementari. La prima portò a reinterpretare l’espressione costituzionale «istruzione artigiana e professionale» di competenza delle Regioni nel senso della «formazione professionale». Si mossero in questa direzione il Dpr 15 gennaio 1972, n. 10, il Dpr 24 luglio 1977, n. 616 e, soprattutto, l’intera legge 21 dicembre 1978, n. 845 («Legge quadro in materia di formazione professionale»). Si amplificò sia la natura strumentale della «formazione professionale» non ai fini della persona e delle sue esigenze educative, ma a quelli del lavoro da svolgere, sia la concezione di tipo domandista della «formazione professionale». Come ribadì l’art. 1 co. 2 della legge 845/78, infatti, la «formazione professionale è strumento della politica attiva del lavoro», «si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico». La seconda portò a differenziare in maniera via via più netta l’istruzione professionale statale dalla formazione professionale regionale, mantenendo, tuttavia, fermo il principio per cui essa, nella sostanza, sebbene aprisse, dopo i provvedimenti del 1969 (istituzione del biennio dopo il triennio di Qualifica), come i Licei e gli Istituti Tecnici, all’università, restava pur sempre la parente povera dell’istruzione tecnica e l’infermeria della scuola media o della secondaria liceale e tecnica. Una sentenza della Corte costituzionale (la n. 89 del 1977) sanzionò questo impianto, affermando tra l’altro: «occorre, invero, considerare la portata della materia in argomento, avendo riguardo al concetto di istruzione professionale quale presente al legislatore all'atto del trasferimento alle Regioni delle funzioni relative, in adempimento del precetto costituzionale. Il nucleo essenziale di tale concetto emerge, con sufficiente chiarezza, dal dibattito sviluppatosi in sede dottrinale e nelle varie occasioni di progettazioni normative. In sostanza, deve ritenersi che l'istruzione in parola superi l'ambito del concetto comunemente accolto in precedenza, in quanto ora si caratterizza per la diretta finalizzazione all'acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l'immediato esercizio di attività tecnico-pratiche, anche se non riconducibili ai concetti tradizionali di arti e mestieri. E sotto tale profilo si distingue dalla istruzione in senso lato, attinente all'ordinamento scolastico e, tranne le limitate e transitorie competenze regionali ex art. 4 d.P.R. 1972, n. 10, di competenza statale; la quale, pur se impartisce conoscenze tecniche utili per l'esercizio di una o più professioni, ha come scopo la complessiva formazione della personalità. Tale, dunque, essendo la portata della materia ‘istruzione professionale’ di competenza regionale, è evidente come non possa considerarsi ad essa estranea la regolamentazione dei corsi ex lege 1971, n. 426; i quali, appunto, non risultano rivolti ad una formazione culturale di tipo generale, sibbene a fornire precisamente quelle cognizioni tecnico-pratiche (come le conoscenze merceologiche) necessarie per l'esercizio dell'attività di commerciante». L’estenuazione del paradigma. Con adattamenti, modifiche, integrazioni la struttura concettuale che si è evidenziata ha sotteso anche tutte le proposte di riforma della scuola e della formazione professionale che si sono succedute a ritmi serrati dalla fine degli anni settanta alla conclusione del secolo. La rigidità dell’ispirazione domandista, per la verità, è stata molto attenuata, negli anni novanta. Il riferimento dominante è diventato quello dell’ispirazione «interattiva»: i rapporti tra istruzione/formazione, da un lato, e lavoro, dall’altro, non sono, né possono essere, meccanici, ma si presentano flessibili, sfumati e soprattutto reciproci. Pianificare la funzionalità delle persone ai lavori disponibili, quasi queste fossero oggetti e mezzi per fini a loro estranei piuttosto che fini esse stesse che impiegano il lavoro come un mezzo per la propria affermazione, al di là di ogni discorso di merito, si è dimostrato anche in linea di fatto un’impresa impraticabile. Il mercato, e le sue esigenze, infatti, non esistono a prescindere del senso umano e sociale creato dalle persone nelle diverse età della vita. La qualità dell’offerta umana, qualità intellettuale, etica, estetica, relazionale, perfino religiosa, quindi, incide in profondità sulla quantità e sulla qualità della domanda economica, e, più ancora, la determina. Queste consapevolezze, tuttavia, se sempre più diffuse e condivise anche dalle parti sociali oltre che dalla letteratura sociologica, non hanno affatto portato all’abbandono del primo paradigma che abbiamo descritto. Al contrario, esso si è come perfezionato ed ha trovato modalità anche ideologiche originali per sopravvivere ed anzi irrobustirsi. La «formazione professionale» come «strumento della politica attiva del lavoro», piuttosto che come politica attiva al servizio della crescita educativa di ogni persona, strumento che «si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico», risulta, infatti, ancora più ribadita dagli interventi normativi e concertativi che l’hanno interessata nell’ultimo decennio del secolo. Il segno è che tali interventi riformatori sono scaturiti da accordi tra le parti sociali, sindacati e Confindustria, o da provvedimenti legislativi esplicitamente legati alla politica economica, mai alle politiche dell’educazione. Legge 19 luglio 1993, n. 236, Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione: l’ art. 9 disciplina gli «Interventi di formazione professionale». Il Decreto legge 299/94, convertito in legge 451/94, introduce per la prima volta i contratti di formazione e lavoro per i soggetti d’età compresa tra i 16 e i 32 anni. L’Accordo per il lavoro tra Governo e Parti sociali del 24 settembre 1996 considera la formazione professionale la «leva fondamentale per la competitività attuale e futura» e per l’innalzamento del tasso di occupazione. La legge 24 giugno 1997, n. 196, Norme in materia di promozione dell’occupazione rivista e riordina i contratti di formazione lavoro (art. 15), l’apprendistato (art. 16, dai 15 ai 24 o 26 anni al sud, limiti elevati di due anni per i portatori di handicap), la formazione professionale regionale (art. 17) e norma il nuovo istituto dei tirocini formativi e di orientamento (art. 18). Il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 23 dicembre 1998 riprende e rilancia le tematiche dell’Accordo per il lavoro del 1996 e riposiziona le strategie per la crescita economica ed occupazionale, tra le quali la formazione professionale iniziale e continua riveste un ruolo fondamentale. La legge 17 maggio 1999, n. 144, Misure in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l'INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali, dispone, per la prima volta nel nostro Paese (art. 68), il perfezionamento dell’obbligo scolastico di istruzione introdotto fino ai 15 anni dalla legge 20 gennaio 1999, n. 9 con l’obbligo di frequenza di attività formative fino al 18° anno e introduce inoltre (art. 69) l’Istruzione e formazione tecnica superiore. La legge 8 marzo 2000, n. 53, infine, agli artt. 5 e 6 introduce i congedi formativi per gli occupati che intendono acquisire titoli di studio e anche per i disoccupati ai fini della formazione continua, considerata risorsa ed incentivo indispensabile per lo sviluppo economico e sociale, per creare nuova occupazione. La formazione professionale, quindi, non si propone come finalità la formazione dell’uomo nel suo insieme attraverso il lavoro, ma solo la sua valorizzazione professionale nell’ottica delle esigenze del sistema produttivo. Anche la riduzione dell’istruzione professionale statale prima ad istruzione tecnica statale e poi ad istruzione liceale veniva portata a pieno compimento. Le proposte della sperimentazione Brocca e il Progetto ’92 elaborato nell’ambito dell’istruzione professionale hanno in questo senso costituito le tappe intermedie di un percorso che ha trovato il suo sbocco finale proprio nella Legge 30/2000 che anche linguisticamente ha eliminato gli «istituti dell’istruzione professionale» e li ha sostituiti con i «Licei professionali». Tale legge, inoltre, se, per le ragioni menzionate sopra, assimilava l’istruzione professionale e tecnica all’istruzione liceale, sanzionava, al contempo, la collocazione della formazione professionale nell’ambito delle politiche del lavoro. «Il sistema educativo di istruzione e di formazione è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana (…). La Repubblica assicura a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le conoscenze, le capacità e le competenze, generali e di settore, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all'inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro anche con riguardo alle specifiche realtà territoriali» (art. 1, co. 1 della legge 30/2000). «Il sistema educativo di istruzione si articola nella scuola dell'infanzia, nel ciclo primario, che assume la denominazione di scuola di base, e nel ciclo secondario, che assume la denominazione di scuola secondaria. Il sistema educativo di formazione si realizza secondo le modalità previste dalla legge 24 giugno 1997 n. 196 e dalla legge 17 maggio 1999 n.144» (art. 1, co. 2 della legge 30/2000). Il comma 2, quindi, sebbene distinguesse due sistemi educativi, rispettivamente di istruzione e di formazione, riconosceva, in realtà, nemmeno troppo implicitamente, che la natura educativa, di servizio alla persona, poteva essere rivendicata soltanto dal sistema dell’istruzione perché quello della formazione professionale regionale, dell’obbligo formativo fino ai 18 anni e degli Ifts, restava legato alle leggi 196/97 e 144/99 sull’occupazione.
Nascita ed affermazione del secondo paradigma interpretativo Il passaggio dall’economia fordista a quella postfordista e dalla società industriale alla società industriale avanzata (o neoindustriale, o postindustriale), con l’affermarsi della società della conoscenza e del «cognitariato» e della cosiddetta «economia civile», ha tuttavia introdotto elementi di rilevante criticità nell’impianto presentato. Si può dire, anzi, che esso sia giunto a maturazione politica, ideologica ed ordinamentale proprio quando erano ormai maturate le condizioni operative, sociali ed economiche, e le consapevolezze teoriche necessarie per abbandonarlo. La formazione professionale al servizio della persona. La «formazione professionale» regionale intesa come problema del lavoro e non della persona, infatti, non è più presentabile, oggi. Se è vero che il lavoro contemporaneo, in tutte le sue dimensioni, deve essere sempre più ricco di conoscenze scientifiche, di cultura e di intelligenza del soggetto per essere svolto in maniera efficiente in rapporto ai risultati e soddisfacente in rapporto a se stessi e agli altri, e quindi sempre più lontano dagli stereotipi dell’addestramento e delle istruzioni per l’uso, perché la «formazione professionale» regionale dovrebbe continuare ad essere solo uno strumento delle politiche attive del lavoro piuttosto che una straordinaria occasione di promozione dell’educazione di ciascuno attraverso il lavoro? Quale lavoro per l’educazione? Si potrebbe obiettare che anche il lavoro della società postindustriale è alienato e che, perciò, non essendo affatto quell’«attività libera e consapevole» (per restare al linguaggio dei Manoscritti di Marx) che costituisce «il primo bisogno della vita», più che di liberazione, come dovrebbe essere ogni autentico processo educativo, potrebbe risultare soltanto un più sottile strumento di asservimento, e quindi un’esperienza fortemente diseducativa da evitare o comunque da svolgere per il minimo indispensabile. Per dirla con Simone Weil, tuttavia, che aveva già ben compreso queste dinamiche quasi un secolo fa, un lavoro ridotto a merce, subìto dai soggetti che lo esercitano, necessitato, il cui scopo non sia intrinseco all'azione concreta di chi lo svolge, ma sia invece imposto dall’esterno soltanto da chi lo paga, e che non si esprima mai nell'«opera», ma si limiti alla produzione ripetitiva e quasi automatica di gesti, non solo, scrive, «trasforma l'uomo in un'orrenda mostruosità», ma si rivela anche del tutto antieconomico, controproducente per le persone stesse che lo vogliono comandare ai soggetti. Nella società postindustriale, sarebbe quindi interesse economico degli stessi ‘capitalisti’ che temono il lavoro libero e consapevole mirare, invece, a renderlo davvero tale. Non per nulla si parla sempre più, ormai, di «capitale sociale» come condizione del successo economico: capitale che paga un lavoro non più legato, come al tempo del fordismo, al modo di produrre, ma alla capacità di ottenere il massimo sforzo da chiunque operi in un’impresa, il quale si deve sentire partecipe di un progetto che realizza le sue aspirazioni e convinzioni personali, non strumento di qualcosa che sente estraneo. Perfino i consumatori preferiscono da qualche tempo consumare prodotti ottenuti con questo stile, piuttosto che con le tradizionali forme capitalistiche (cfr., ad esempio, il boicottaggio nei confronti della produzione di aziende che non rispettano i diritti umani). Per questo dovrebbe essere giunto il momento non soltanto di contrastare lo sfruttamento del plusvalore con le tradizionali strategie sindacali del novecento (aumenti salariali e contemporanea compressione dei tempi di lavoro per distribuirlo sul più alto numero di persone possibile), ma di tentare, più in radice, di risolvere la contraddizione primaria del lavoro stesso: quella dell'estraniazione all’uomo che lo esercita. Oltre la teoria dei due tempi. In questa prospettiva, continuare a separare in maniera strutturale tempo del lavoro (alienato, estraniato, non educativo) e tempo della vita umana (autentica, consapevole di sé, educativa) e a considerare il primo servile e necessario, il secondo libero e spontaneo; il primo umanamente entropico, il secondo umanamente neghentropico; il primo con valore strumentale, il secondo finale; il primo che si svolge in fabbrica, nella formazione professionale, nell’apprendistato o comunque nei luoghi governati dall'assiomatica del profitto, il secondo, riguardante l’espressione della vita personale, sociale e politica, che si svolge nella scuola, nell’istruzione liceale, negli spazi della cultura personale dove si tutela l'unità della connessione tra fini personali, mezzi, risultati, significa compromettere non soltanto il non facile e mai completamente compiuto sforzo di vincere l’alienazione che accompagna anche le forme di produzione che si praticano nella società postindustriale, ma soprattutto rassegnarsi all’estraniazione professionale come ad una condizione programmatica ed insuperabile della condizione umana. Bisogna, quindi, cercare una strategia che autorizzi il superamento di queste successioni che, alla fine, diventano incompatibilità qualitative. Strategia che sembra riconoscersi nel proposito della piena reintegrazione delle caratterizzazioni umanistiche del lavoro e, in particolare, sul piano strettamente economico, nell'impiego diretto e protagonistico della razionalità tecnica di ciascuno nell’apprendimento e nell'esercizio di qualsiasi prestazione professionale. Restituire, in altri termini, l'opera a chi agisce per produrla e coinvolgerlo non solo nella determinazione delle procedure necessarie per realizzarla ma anche nei fini a cui essa deve obbedire, tra cui, senza dubbio, un posto di rilievo devono assumere quelli economico-sociali. «Per quanto riguarda la tecnica, occorrerebbe studiarla in modo approfondito nella sua storia, nel suo stato attuale, nelle sue possibilità di sviluppo e questo da un punto di vista assolutamente nuovo che non sarebbe più quello della sua funzionalità al rendimento, ma quello del rapporto del lavoratore con il suo lavoro». Cambiare, in conclusione, qualità e direzione del lavoro, non soltanto contenerne gli effetti iniqui determinati dal suo esercizio sotto le specie del profitto. La circolarità di istruzione e di formazione. Se si analizza il tema dei rapporti tra istruzione (liceale e tecnica), istruzione professionale e formazione professionale mettendosi dalle considerazioni appena accennate, sembra naturale concludere, dunque, che istruzione e formazione non possano più apparire strade separate e, a maggior ragione, gerarchicamente dipendenti e successive l’una dall’altra. Il sapere e il fare sono due facce della medesima medaglia. La teoria del prima l’istruzione, per più tempo possibile, perché appagante e liberante, e dopo la formazione, il più tardi possibile, perché a rischio di alienazione ed estraniazione, non regge più. L’istruzione è infatti sempre più necessaria per la formazione professionale, Né esiste formazione professionale, anche ai lavori più umili, che non esiga istruzione, e di buona qualità. I due percorsi, più che vettori stadiali o, peggio, alternativi, sono modalità diverse di apprendimento e di sviluppo della stessa umanità che ha le infinite figure delle specificità e dell’unicità di ciascuno. L’una e l’altra, a modo proprio, occasioni di autenticazione delle vocazioni personali e delle capacità intellettuali, estetiche, tecniche, motorie, sociali, morali e religiose di ciascuno. L’una e l’altra figure dell’educazione. Non trova più alcuna giustificazione pedagogica e umanistica, perciò, il sospetto nei confronti della parola «professionale», da «istruzione professionale» a «formazione professionale», e della parola «lavoro» a cui essa rimanda. Il pudore ad impiegarla come risorsa educativa al pari dello «studio» può essere solo il segno di una mancata maturazione culturale, oltre che di una errata diagnosi di sociologia del lavoro. La scelta tra istruzione (liceale) e formazione (professionale) perde, quindi, la sua drammaticità alternativa ed assume piuttosto le vesti di un adeguamento agli stili personali di apprendimento e ai personali progetti di vita che ciascuno ha il diritto di veder sostenuti.
Il quadro costituzionale. Un aiuto notevole alla diffusione di queste consapevolezze, del resto recepite nel disegno di legge delega n. 1306, è venuto dall’approvazione del Titolo V della Costituzione. L’art. 117 riformato, infatti, ha inserito l’istruzione (liceale e tecnica), l’istruzione professionale e la formazione professionale in un nuovo quadro istituzionale. Le Regioni hanno la legislazione esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. Ciò significa che, in tempi più o meno rapidi, dovrà essere regionale, accanto all’attuale formazione professionale (che interessa il 5,5% degli studenti oltre i 15 anni), anche l’attuale istruzione professionale statale (che coinvolge il 21% degli studenti a partire dai 14 anni) e quella parte di istruzione tecnica statale (39% degli studenti dai 14 ai 19anni) che rilascia diplomi ad alta terminalità professionale (circa il 50% degli istituti tecnici esistenti). Le Regioni, inoltre, hanno la legislazione concorrente con lo Stato nella gestione e nell’organizzazione concreta, regolamentare, della rimanente istruzione statale, ovvero delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori liceali. Sarebbe paradossale che il costituente avesse disposto queste innovazioni per spostare dal servizio alla persona e alla sua educazione al servizio al lavoro e all’occupazione la vecchia istruzione professionale statale e quella parte di istruzione tecnica statale con caratteri immediatamente professionali. E ancora di più, con il richiamo alla legislazione concorrente, che avesse voluto procedere ad una dislocazione analoga perfino con l’istruzione liceale, togliendole il suo tradizionale spessore umanistico per convertirla ai valori della tecnocrazia economica. È più rispettoso immaginare che il costituente sia stato invece animato dall’intendimento opposto: valorizzare il carattere educativo della formazione professionale e, con essa, dell’istruzione professionale, tecnica e liceale, creando le condizioni istituzionali per una loro osmosi e radicandole tutte, maggiormente, come è peraltro ragionevole, nel territorio, a servizio della crescita della persona. La circostanza sembra, d’altra parte, confermata da due ulteriori indizi. Il primo. Lo Stato mantiene le competenze esclusive circa la determinazione delle «norme generali sull’istruzione» (articolo 117, co. 2 lett. n, ivi compresa in questa espressione l’autonomia delle scuole: articolo 117, co. 3) e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti dalla Repubblica su tutto il territorio nazionale (articolo 117, co. 2 lett. m). Traduzione: se l’educazione attraverso l’istruzione liceale e l’istruzione/formazione professionale fino a 18 anni è un diritto civile e sociale di ogni cittadino italiano, è obbligatorio che lo Stato cerchi di collegare le norme generali che riguardano l’istruzione liceale a legislazione concorrente con le Regioni con i livelli essenziali delle prestazioni che coinvolgono gli istituti dell’istruzione e della formazione professionale a legislazione esclusiva regionale. Non per niente, d’altronde, il disegno di legge delega n. 1306 dispone addirittura l’intesa tra Stato e Regioni per procedere a questo secondo appuntamento. Secondo indizio. Con l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro nei percorsi formativi dell’intero secondo ciclo, siano essi di istruzione liceale o di istruzione e formazione professionale, il disegno di legge delega n. 1306 sembra aver voluto ribadire la mai conclusa connessione tra istruzione e formazione, tra sapere e fare, e il carattere educativo, di diritto alla formazione, che deve essere assegnato anche all’esperienza di un lavoro umanisticamente inteso ed ispirato. |
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