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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Scuola dell’infanzia e riforma
La chiamavano "gioiello di famiglia"

di Loretta Lega
(presidente del Cidi di Forlì)

C’era una volta la scuola dell’infanzia

Apparentemente, la lettura dell’articolo della legge di riforma "Moratti" (Legge n. 53 del 28 marzo 2003) che si occupa di scuola dell’infanzia, precisamente il comma e) dell’art. 2, sembra la fotocopia di quello che era stato predisposto nella passata legislatura dalla coppia "Berlinguer-De Mauro" (Legge n. 30 del 10 febbraio 2000). Ad un’analisi un po’ più accurata, però, le sorprese non mancano e sono quasi tutte spiacevoli. Non ci riferiamo tanto alla questione dell’anticipo (su cui interverremo tra poco), ma su alcune "chicche" che il legislatore ha voluto dedicare alla scuola materna (e non a caso utilizziamo questo termine). Infatti, si è voluto inserire tra le finalità della scuola un pesante riferimento al ruolo "prioritario" della famiglia nell’educazione dei figli, un richiamo che pensavamo ormai del tutto pleonastico dopo l’armistizio firmato nel 1968 con l’istituzione della scuola materna statale. Nessuno vuole mettere in discussione questo principio, ma perché proclamarlo a voce alta proprio oggi e "solo" per la scuola dell’infanzia ?

Collegando questa sottolineatura alla previsione di un anticipo scolastico "su domanda" dei genitori è fin troppo facile scorgere l’idea di una "non-scuola", una struttura che risponde alle diverse domande ed esigenze degli utenti e che può durare indifferentemente 2 o 3 o 4 anni, a seconda del combinarsi delle istanze dei genitori e dell’età anagrafica dei figli .

Ci sono poi gli espliciti richiami all’educazione morale e religiosa. Anche qui, nulla quaestio, soprattutto se si avesse il senso della misura e del rispetto delle diverse scelte (religiose o non religiose) che le famiglie adottano in materia (e rimandiamo, per la loro apertura, ai vecchi e cari Orientamenti del 1991). Tutto l’impianto della riforma è ispirato ad un forte recupero del piano valoriale ed esistenziale (all’uopo si crea una nuova disciplina tutta intitolata alle educazioni trasversali, l’"educazione alla convivenza civile"). E’ certamente giusto che i "saperi" dialoghino con i "vissuti" dei bambini, ma in questo caso sembra mancare la necessaria connessione tra affermazioni di principio (fin troppo impegnative per bambini di tre anni, come l’invito a "soffermarsi sul senso della nascita e della morte, delle origini della vita e del cosmo, della malattia e del dolore…") ed una più laica e misurata conoscenza delle potenzialità dei bambini e quindi una più coerente proposta didattica.

L’accantonamento dei sei campi di esperienza (recuperati in parte solo nelle ininfluenti "Raccomandazioni") la dice lunga sulla volontà di far dimenticare l’impianto bruneriano dei precedenti Orientamenti del 1991, cioè il principio che la formazione dei bambini e quindi delle persone si realizza attraverso l’incontro con la cultura, con i saperi, con i sistemi simbolico-culturali. Si rischia di tornare ad un approccio ludico-scolastico, alla libera e spontanea espressività coniugata con il precoce addestramento alle abilità strumentali del leggere e dello scrivere.

Come interpretare, altrimenti, la clamorosa esclusione della scuola dell’infanzia dal concetto di "istruzione" ? Infatti, quando si sottolinea il diritto alla istruzione e formazione di tutti i ragazzi per almeno 12 anni (riprendendo il "senso" della legge 144/99 sull’obbligo formativo a 18 anni) si ha in mente un percorso che va dai 6 ai 18 anni, che taglia completamente fuori la scuola dai 3 ai 6 anni. Se non è istruzione, né formazione, allora cosa è ?

Una scuola "invisibile"

Poiché il diritto all’istruzione/formazione sarà in qualche modo sanzionato legislativamente (cioè ci saranno degli obblighi siano per i fruitori sia per chi deve garantirlo), l’esclusione della "materna" da questi impegni non fa presagire nulla di buono, se non la "marginalità" del servizio pubblico (un vero e proprio optional…). Noi siamo sempre stati perplessi verso l’introduzione dell’obbligo nella scuola dell’infanzia (temiamo l’idea di una scolarizzazione tutta schiacciata sul precocismo e l’anticipo), ma qui si è passato il segno: non esiste più un diritto all’educazione a tre anni, ma una semplice opportunità di frequenza (appunto: un optional…).

Stiamo evidentemente esagerando, ma temiamo che sarà questa l’interpretazione corrente data alla soluzione dell’anticipo. Se la scuola dell’infanzia è semplicemente il luogo del gioco, allora l’apprendimento serio (quello degli alfabeti) comincia nella scuola elementare e quindi è meglio anticipare i tempi di questo incontro. E’ un messaggio implicito di sfiducia nel ruolo educativo della scuola dell’infanzia, considerata tutt’al più una zona di transito verso i piani "alti" del curricolo scolastico.

E’ dunque una scuola "invisibile", "trasparente", senza un suo curricolo stabile, che potrebbe essere "saltata" degli utenti, senza alcuna conseguenza. Questa preoccupazione aveva portato gli stessi esperti messi al lavoro dal Ministro Moratti (a partire dalla commissione presieduta dal prof. Bertagna) ad escludere la scelta dell’anticipo, proponendo invece la frequenza triennale della scuola dell’infanzia come "credito scolastico". Ricordiamo ancora bene come il prof. F.Montuschi (membro della predetta commissione) ebbe a prendersela agli Stati Generali della scuola (dicembre 2001) contro la tendenza al precocismo. D’altra parte, la scelta tutta politica dell’anticipo di iscrizione alla scuola elementare ha trovato scarsi consensi nel mondo scientifico e accademico, ancora di più per la particolare formula adottata, di lasciare scegliere i genitori.

Ripensando all’anticipo

Studi empirici accreditati rivelano che il 20 % dei bambini di prima elementare presentano qualche difficoltà o ritardo nei processi di apprendimento della lettura e della scrittura: non vorremmo che ora, classi prime più eterogenee, tendenzialmente più numerose, sollecitazioni o aspettative improprie dei genitori, determinassero un aggravamento di tali dinamiche. Meglio allora insistere affinchè una "buona" scuola dell’infanzia si faccia carico di tutta la complessità dell’età evolutiva, per curare gli aspetti di autonomia, socialità, autostima, identità, curiosità dei bambini di 5 anni, attraverso un saggio equilibrio tra dimensioni logico-cognitive e affettivo-emotivo dello sviluppo. Una simile "saggezza" hanno dimostrato molti genitori in parecchie regioni (specie del centro-nord) che, di fronte alla possibilità di iscrizioni anticipate per i bambini nati nel gennaio-febbraio 1998, hanno aderito solo nella misura del 10/15 % (media nazionale del 29 %).

Sappiamo anche che il secondo anticipo, quello che consentirebbe l’iscrizione alla scuola materna a due anni e mezzo (in prospettiva a 2 anni e 4 mesi), è –al momento- sospeso per il preciso veto posto dai Comuni italiani, di fronte all’improvvisazione, alla mancanza di risorse e di impegni pure previsti dalla legge 53/2003 in materia di modelli organizzativi e di nuove figure professionali. Anche in questo caso, la tradizione di impegno verso la prima infanzia avrebbe dovuto consigliare soluzioni ben diverse dallo strisciante "anticipo" facoltativo nelle "pienissime" sezioni di scuola materna. In questa direzione, ci possono aiutare le esperienze pilota di alcune Regioni e Comuni che hanno sperimentato un modello diverso di anticipo, costruendo sezioni "ponte" o "primavera" riservate ai bambini tra i 24 e i 36 mesi, con tutte le precauzioni del caso (rapporti numerici ridotto, es.: 1:10, ambienti e strutture adatte, professionalità idonee). Non possiamo ignorare le lunghe liste d’attesa all’ingresso di scuole dell’infanzia e asili nido, ma la possibilità di rispondere a tali domande richiederebbe decisive scelte in materia fiscale, di servizi sociali, di priorità per l’educazione e l’infanzia (ad esempio, espandendo nidi, scuole dell’infanzia, progetti 0-6 anni).

Purtroppo, dobbiamo registrare una persistente difficoltà dell’attuale politica scolastica a considerare con serietà e realismo i problemi effettivi della scuola dell’infanzia, le esigenze di sviluppo e riconoscimento educativo del servizio, in favore di scorciatoie parziali e nemmeno tanto gradite ai genitori.

Un’ulteriore controprova si riferisce al problema della continuità educativa, cioè all’inserimento a pieno titolo della scuola dell’infanzia nel circuito curricolare dai 3 ai 18 anni. Il totale silenzio della legge sugli istituti comprensivi di scuola materna, elementare e media (che rappresentano circa il 43 % delle scuole di base italiane) e l’esclusione della scuola materna dal profilo educativo degli allievi in uscita dal primo ciclo (che cita solo il segmento 6-14 anni) di nuovo ci fanno dubitare della volontà di considerare la scuola dai 3 ai 6 anni una "vera" scuola e non semplicemente un "servizio" a domanda individuale, da delegare totalmente agli Enti Locali ed al settore privato (più o meno sociale).

La "via" sperimentale

Ma, noi della materna, non ci arrendiamo facilmente.

E’ probabile che le difficoltà di attuazione della legge 53/2003 (che stanno ritardando i decreti applicativi per il settembre 2003) consiglino il Ministero ad intraprendere la strada di un’attuazione graduale in ottica sperimentale. Di fronte a tali evenienze la scuola dell’infanzia (che viene da ampi programmi sperimentali: cfr. i progetti Ascanio e Alice) dovrà prepararsi con molta determinazione a rivendicare la propria identità pedagogica, curricolare ed organizzativa. Si sperimenta per consolidare tale identità, non per dimenticarla. Ad esempio, in materia di continuità.

Anche prendendo spunto dal bizzarro congegno curricolare voluto dal legislatore (scuola elementare strutturata nei periodi 1+2+2) dovremo rilanciare progetti di ricerca e di sperimentazione di nuovi raccordi tra l’ultimo anno della scuola dell’infanzia e classe prima elementare. Non si tratta di accettare l’idea di un anticipo degli obiettivi di alfabetizzazione strumentale alla "materna", ma di distendere in almeno un biennio un programma di sviluppo di competenze logico-linguistiche creative, magari con una presenza intrecciata (per alcune ore settimanali) dei docenti dei due livelli scolastici.

In tal modo potremmo legare la scuola dell’infanzia ad un percorso curricolare di ampio respiro professionale e progettuale, così raffreddando l’ansia di anticipo che sembra mettere in crisi tanti genitori dei bambini di 5 anni.

Se la riforma Moratti rappresenta una "provocazione" impertinente e inopportuna per la scuola dell’infanzia (erano altre le "priorità" e le "emergenze" per il nostro sistema scolastico dai 3 ai 6 anni), sta alle scuole, agli enti locali, e soprattutto agli insegnanti, riprendersi il proprio diritto di parola, di iniziativa, di autodeterminazione. Non si tratta di applicare o non applicare una legge dello Stato, di fare o non fare una sperimentazione, ma di costruire "dal basso" una migliore qualità dell’educazione dei nostri bambini, utilizzando tutti gli strumenti che la legislazione, la nostra professionalità, la nostra esperienza, ci mettono a disposizione.


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