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Risposta a Lettera agli Insegnanti italiani di James Hillman
le confesso di aver avuto bisogno di rileggere più volte la sua Lettera agli Insegnanti italiani. Trovavo infatti piuttosto problematico render coerente la «distinzione fondamentale» con cui si apre la sua lettera –ove all’educazione, che è fondamentalmente sempre una relazione tra persone, viene negata quella costruttiva funzione pedagogica attribuita invece a pratiche, quali l’insegnare e l’imparare, per le quali la dimensione personale non è assolutamente imprescindibile -, con la conclusione dello scritto, che evidenzia l’«affinità naturale fra la coppia archetipica: l’Insegnante e lo Studente», dove invece la personalizzazione della relazione educativa è nettamente colta ed affermata nella sua centralità. Mi chiedevo infatti in qual modo il ricorso a categorie non esenti da possibili derive di asettica spersonalizzazione, come l’insegnare e l’imparare (in questo caso, evidentemente, còlte secondo un’accezione privativa eppure, ahimè, oggi vincente), rendesse possibile recuperare la insostituibilità dello sguardo amoroso (lei, giustamente citando Platone, lo chiama erotico) ed intrinsecamente sim-patico di colui che, pedagogo, accompagna il giovane nel cammino di ricerca e formazione della propria personale e mai intercambiabile identità. In definitiva, non è proprio l’e-learning - questa nuova modalità di insegnamento che il dominio della tecnologia ci sta imponendo come modello universale di apprendimento - ad impedire e sterilizzare, se non anche rendere superfluo e ritenere fuorviante rispetto all’obiettivo cui esso tende, ovvero la più ricca comunicazione di informazioni, quell’«eros dell’insegnare» che lei opportunamente evidenzia negli esempi addotti? L’insegnamento "dis-educativo", sottratto cioè alla sua autentica dimensione educativa, ha veramente ancora bisogno di «cuore»? A giudicare dalle esperienze magnificate da alcuni entusiasti, la risposta non potrebbe che essere negativa. (Come lei sa, esiste tutto un filone di ricerca che, assommando risultanze di neurofisiologia, teorie della percezione, logica ed un pizzico di filosofia (giusto per gradire), sostiene senza alcuna incertezza che l’approccio multimediale nell’apprendimento produce una vera e propria mutazione culturale su basi fisiologiche, tale da rendere ormai ininfluente la componente affettiva dell’apprendimento stesso.) Ecco perché ho avuto bisogno di rileggere la sua lettera; intuivo infatti che non fosse proprio questa la sua posizione, quasi che la lettera del testo non ne contenesse lo spirito. Mi sono impegnato così a sospendere il giudizio e rileggere nuovamente il testo. Le conclusioni cui sono giunto, se non hanno del tutto fugato le perplessità iniziali, sono comunque servite almeno a fare ordine nel pensiero ed a chiarire meglio i motivi di accordo e quelli di dissenso. Comincio da questi ultimi, per arrivare poi ai primi. Noto nel suo scritto un fondo di naturalismo dai contorni piuttosto vaghi ed ambigui. Lei insiste sulla primordialità degli impulsi ad imparare ed insegnare. «Qualcosa quasi naturalmente vuole imparare» (il corsivo è mio). Il messaggio che lei vuole comunicare è che l’esercizio di queste pratiche è costitutivo dell’esistenza dell’uomo, presente nel suo orizzonte ben prima di ogni imposizione di apparati esterni. Ma proprio per questo il campo semantico da lei scelto, che riduce la ricchezza di momenti essenziali alla definizione della personalità umana alla uniformità di processi naturali, è a mio giudizio sostanzialmente inadeguato. Credo infatti che proprio la «relazione fra l’imparare e l’insegnare» sia qualcosa di più che una relazione «animale, naturale». Anche un gattino impara, e senz’altro anche prima e meglio, come pulirsi il muso dopo aver bevuto il latte o come controllare un gomitolo; e la gatta che lo ha generato insegna anch’essa al suo micino come catturare un grillo e nascondersi davanti al cane. Ma sono di questo tipo i processi che nell’uomo costituiscono l’impegno ed anche il piacere di imparare? È proprio un guadagno voler porre la dimensione culturale - entro cui, proprio attraverso quei processi dell’imparare e dell’insegnare e nei limiti delle condizioni poste alla natura umana, ha modo di liberarsi la spontaneità e la creatività dell’agire umano - sotto la tutela di vincoli naturali, come tali determinanti in maniera inflessibile il comportamento? L’appello al fondamento naturale di questo processo, a mio avviso, non riesce allo scopo. Nel concetto di natura noi percepiamo un che di dato, di uniforme e di universale, che senz’altro ci determina; e che però rappresenta solo lo stato a partire dal quale si dà forma la personalità completa di ogni singola persona. Non qualcosa, dunque, ma io voglio imparare. Diversamente, ogni protesta contro la pianificazione dei processi educativi sarebbe del tutto ingiustificata, essendo pianificabile proprio e solo ciò che è dato, uniforme ed universale. Della sua riflessione non mi convince perciò affatto, professor Hillman, l’ambientazione teorica, che risente di un latente riduzionismo naturalistico, manifestamente insufficiente. Mi pare insomma che sia debole la cornice filosofica ed antropologica del suo discorso. Similmente inadeguata mi sembrano le scelte terminologiche da lei adottate; anche se in questo caso, ho la sensazione che il problema risieda nella resa in italiano del suo pensiero. Ciò che mi ha colpito maggiormente, come dicevo all’inizio, è il significato attribuito al termine educazione. Ho però la forte sensazione che qui appunto abbia giocato un cattivo scherzo il differente significato che il termine ha in contesti linguistici differenti, quali l’inglese e l’italiano. In quale senso infatti lei usa la parola educazione? A giudicare da frasi come «l’educazione esteriorizza e sistematizza la relazione [imparare-insegnare] nella "scuola" (istituzioni educative)», o «l’educazione richiede un intero esercito di amministratori, esperti, specialisti […]. Soprattutto l’educazione si suddivide in due specie: primaria e superiore» (i corsivi sono miei), sembrerebbe che lei intenda con educazione l’apparato istituzionale che sovrintende e governa il processo di acculturazione di un gruppo sociale. Non è così casuale che, quando voglia precisarne l’orizzonte semantico, lei ometta di includere quello che pure è il primo - e, per questo, incisivo quant’altri mai - ambiente di relazione educativa, vale a dire la famiglia. La sua ferma denuncia contro l’assoggettamento della relazione formativa alla logica astratta dell’apparato non posso che condividerla fino in fondo. Mi consenta però di palesarle un rischio nascosto nelle forme con cui lei la propone. Un po’ ovunque, ma in Italia in modo particolarmente evidente, sta avanzando, come onda gigantesca, un processo di omologazione culturale, sostenuto ed anche richiesto da una prepotente economia globalizzata, che induce una radicale mutazione nei modi di interpretare la vita e se stessi. Di esso, l’introduzione nel linguaggio comune di termini letteralmente importati dall’inglese è solo l’epifenomeno più evidente. Ma c’è un altro aspetto della questione, più subdolo, che richiede massima attenzione; sto pensando alla trasvalutazione linguistica di termini, il cui etimo denuncia chiaramente il contesto originario di significato, individuabile nell’area mediterranea greco-latina, termini che adesso si rivestono di significati allotrii, non sempre compatibili con quelli originari. Pensi solo a come corre diversamente il tempo se parliamo (e pensiamo) alla domenica come inizio della settimana o come weekend, ovvero fine della settimana. Ora la cosa mi infastidisce particolarmente, e non perché io sia un purista nostalgico od un nazionalista linguistica incapace di comprendere l’arricchimento prodotto dallo scambio culturale. Sono consapevole che una lingua non si impone per legge, in quanto essa riflette il mondo di chi la parla. È però anche vero che quello stesso mondo acquista per noi un volto riconoscibile proprio grazie a quella stessa lingua. La lingua che parliamo, in qualche misura ci parla. È perciò essenziale che a tradurre le nostre rappresentazioni del mondo siano parole che quel mondo stesso, e non altri mondi, ha originato. Trovo deprimente ed anche preoccupante pensare che il livello di omologazione sia giunto così avanti da far ritenere normale, ai soggetti omologati, non poter esprimere i propri bisogni senza ricorrere a termini presi di peso, senza alcun vaglio critico, da altri sistemi linguistici; cosa che tradisce una inconsapevole sfiducia verso la forza comunicativa del proprio linguaggio e, più in profondità, verso l’universo culturale che quel linguaggio esprime. Ad essere politically incorrect, si potrebbe parlare pure di colonizzazione. Se dunque vogliamo rendere efficace quell’arricchimento reciproco insito nell’incontro tra culture diverse, il presupposto fondamentale è che venga riconosciuta rispettata e difesa la diversità delle culture. Ma è proprio la negazione di tale diversità il pericolo che mi pare di scorgere nell’affidare il termine educazione ad un nuovo e per nulla affascinante (condivido!) campo semantico istituzionale. Ne verrebbe ulteriormente minata la credibilità di un’azione, quella appunto educativa, che costituisce ancora, a mio parere, un elemento qualitativamente rilevante dell’intero sistema scolastico italiano. Si finisce in questo caso per fare il gioco di coloro che pensano alla scuola come un luogo di indottrinamento freddo e neutro, dove al centro dell’attenzione non c’è la persona dello studente, ma solo lo standard quantitativo da raggiungere. Non è stato perciò per me motivo di sorpresa scoprire che la parola educazione era assente dalle prime bozze di riforma della scuola, sia nella versione Berlinguer che in quella Moratti. Non credo dunque che si renda un buon servigio a sovrapporre il concetto di educational a quello di educazione. Che, invece, se correttamente intesa, costituisce a mio modo di vedere la cornice vitale, entro la quale solamente le pratiche dell’appropriazione e trasmissione di contenuti di informazione, quali l’imparare e l’insegnare, possono essere riscattate dalla deriva burocratica e tecnocratica sopra paventata e recuperare quel tratto di necessaria individualizzazione (io preferirei parlare di personalizzazione) che lei invoca. Provo allora a ritradurre, secondo schemi linguistici e culturali per me più adeguati, le sue convinzioni, con ciò passando agli aspetti della sua proposta che più condivido. Lo faccio richiamandomi alla figura del pedagogo. Il pedagogo, come è noto, era lo schiavo posto a guida del bambino. Nell’esercizio del suo ruolo si delineano tre dimensioni, a forte valenza educativa: la dimensione del servizio, quella dell’accompagnamento, e quella della guida. Ritengo essenziale riconsegnare la dinamica educativa alla logica del servizio come dono. Educare, nel senso del porsi al servizio della persona in formazione, consegna all’educatore un mandato vincolante di presenza autorevole, mentre vieta ogni esercizio più o meno violento di arbitraria autorità. Interpretare il mestiere educativo nei termini del servizio sterilizza pertanto la strumentalizzazione che si annida rischiosa nella stessa relazione pedagogica, laddove la dipendenza culturale ed emotiva del discente nei confronti dell’educatore copre talora lo sconfinamento di questi oltre i limiti del suo mandato. E ciò sia nel caso di uno sconfinamento, per così dire, per eccesso verso forme di plagio o di coartazione, sia nel caso di uno sconfinamento per difetto nel senso del disinteresse e del disimpegno. La relazione educativa, in realtà, sebbene asimmetrica, non è affatto unilaterale, dato che obbliga al rispetto della personalità, che non può essere negata, dell’allievo. Colui che guida il rapporto educativo, vale a dire, non può presumere di giocare a plasmare l’identità dell’allievo a suo piacimento, ma deve rispettarne l’insopprimibile dignità che lo costituisce come persona, sia pure in fase di maturazione e crescita. Decentrando da sé l’attenzione per concentrarla sul discente, l’educatore ottiene il guadagno primario di rendere ciascuno protagonista del proprio processo di formazione. Si fa chiara, in tal modo, la seconda dimensione pedagogica sopra ricordata, quella dell’accompagnamento. È stato notato, in altro più generale contesto, che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni.» (Paolo VI) L’annotazione vale anche, ed a maggior ragione, per gli educatori che si premurano di vivere la fedeltà del loro impegno. Il servizio educativo manifesta infatti tutta la sua forza e credibilità solo quando si fa concreto accompagnamento. Ed accompagnamento vuol dire condivisione, coinvolgimento, solidarietà. Colui che accompagna rende concreta la disponibilità al servizio nella misura in cui accetta di fare insieme la stessa strada, di percorrerla al passo del più debole e lento, per aiutarlo nel suo cammino e farlo avanzare più speditamente. Come il pedagogo, l’educatore non si limita ad accompagnare condividendo; nel suo essere solidale, egli indica altresì una direzione, guida ad una meta. La sua ricerca, pur a tentoni, non è casuale o caotica; egli non si lascia condurre fuori strada, ma persegue diritto la meta, avendo chiara la destinazione. Per questo viene riconosciuto come guida. La testimonianza di una libertà sovrana, e non serva di alcunché, consapevole e forte nella difesa dell’infinito valore dell’uomo, di ogni uomo, ha la capacità di mobilitare energie e speranze; quelle stesse energie e speranze, che l’aria stagnante del nostro tempo, vuoto o distante da risorse etiche e culturali, invece deprime e quasi soffoca. È questo il tempo di un alto investimento educativo. Lo chiedono soprattutto i giovani, che hanno bisogno, e direi, diritto di incontrare persone libere e capaci di un servizio di libertà; persone serene ed autentiche nell’accompagnamento di quanti sono ai primi passi dell’itinerario pedagogico; persone, infine, convinte dell’insostituibile magistero culturale che esercitano e generose nell’offrire speranza. Il fatto è che la vera pedagogia, non tollera l’approccio impersonale, neutro, intercambiabile della scienza. Qui la scienza, con il suo corredo di procedure omologate, di relazioni codificate e di conoscenze universalmente dimostrate, è fuori luogo. Quale errore aver rubricato la pedagogia sotto la contraddittoria categoria delle cosiddette scienze umane! - Le scienze umane: quasi che l’uomo sia un manichino che possa essere smontato e rimontato pezzo dopo pezzo, e non una persona unica ed irripetibile. La pedagogia non è una scienza; è semmai una techne, un’arte, una forma di sapere cioè che non si istituisce a prescindere dalla questione dei fini, e che pertanto non delega la soluzione delle sue questioni alle sole funzioni strumentali dei mezzi o dei metodi. È un’arte che si dà solo nel coinvolgimento effettivo del pedagogo, dell’educatore, nei riguardi di colui che gli è affidato. Egli non può rimanere distaccato, tecnico estraneo ai valori che mette in campo, neutro ripetitore di contenuti asettici – asettici, quando invece riguardano la vita. Sarebbe interessante chiedersi se il malessere della scuola non dipenda anche dal misconoscimento della personalità dei giovani, che certa pedagogia cosiddetta scientifica ci ha abituato a considerare solo come terreno di coltura di strategie altrove sperimentate. È che il mondo dell’educazione è popolato oggi da molti pedagogisti e pochi pedagoghi. E forse pure noi docenti abbiamo la colpa di avere consentito di lasciarci confiscare la grave responsabilità della guida della gestione del processo educativo. Siamo diventati semplici operatori della scuola, e già si vedono all’orizzonte le macchine per insegnare. Gentile professore Hillman, la mia risposta alla sua lettera ed alle stimolanti provocazioni in essa contenute ha superato i limiti che mi ero imposto. È questo un indicatore chiaro dell’efficacia del suo contributo, che ha colto nel segno ed ha stimolato riflessioni ed osservazioni che, mi auguro, arricchiscano il dibattito da lei avviato. Se questo è presumere troppo, le accolga almeno come piccola testimonianza di gratitudine e di stima.
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